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Morire di carcere: dossier 2002 - 2003 Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose
Articoli sulle morti in carcere pubblicati dai giornali carcerari
Facce e maschere, n° 12 (2003)
Suicidio
Giovedì 28 novembre, nello svegliarci, abbiamo sentirò un odore diverso. In carcere le giornate si sentono dall’odore. Del resto, basta pensare a questo muro che ci chiude da ogni parte e ci impedisce di guardare oltre, per capire come il senso dell’odorato possa ben sostituire quello della vista. Quella mattina, non so perché, l’odore era diverso. Non saprei descriverlo, so solo che impediva di respirare a pieni polmoni, come il presentimento di qualcosa di grave che fosse accaduto nella notte. Alcune ore dopo, arrivava nelle varie sezioni la voce che un detenuto, un nostro compagno, si era tolto la vita impiccandosi in cella. Abbiamo cominciato a porci le prime domande. Prima di tutto, chi fosse. Quando abbiamo saputo che era un ragazzo marocchino di vent’anni, molti di noi hanno provato un brivido sotto la pelle. Subito dopo, ci siamo chiesti perché l’aveva fatto. Gli mancavano, si diceva, soltanto 4 mesi alla libertà. Abbiamo poi saputo che Nizar, questo il suo nome, era in isolamento, cioè sotto osservazione. E allora è venuto spontaneo chiedersi come avesse potuto portare a termine quell’ultimo, estremo gesto sfuggendo ai controlli. Qualcuno suggeriva, riferendosi alla sua provenienza dal Marocco, che "forse aveva bisogno di parlare con qualcuno perché era successo qualcosa alla sua famiglia". Probabilmente, aggiungeva qualcun altro, era in carcere per la prima volta e, quindi, aveva bisogno di maggiori attenzioni. Forse Nizar aveva soltanto bisogno di essere ascoltato. Di uscire dal suo doppio stato di emarginazione, come detenuto e come extracomunitario, sentire qualcuno esprimergli solidarietà e appoggio morale. Non ti conoscevamo, amico Nizar, ma ti abbiamo dedicato il nostro spettacolo. Preparandomi per la recita, ho guardato a lungo le ali d’angelo, un costume di scena. Quelle ali che hai utilizzato davvero per volare lontano e che nessuno ormai potrà più toglierti. Facce e maschere, n° 8 (2001)
Assistenza sanitaria disastrata
Da due settimane mi trovo ristretto nella Casa di Reclusione di Opera. Da quando sono stato trasferito da S. Vittore ho un problema, non solo mio, ma generale, da esporre, anche se credo che già siate informati. Qui all’interno dell’istituto la situazione sanitaria è catastrofica, soprattutto per noi sieropositivi. Vi è un problema nella distribuzione dei farmaci: ormai è quotidianità la loro distribuzione a mezzanotte. È risaputo che i farmaci antiretrovirali vanno presi negli orari prestabiliti, altrimenti non hanno alcun effetto contro il virus e creano ulteriori complicazioni. Per non dire che, il più delle volte, i farmaci mancano o non sono distribuiti. Anche volendo curarmi, come potrei fare? La figura sanitaria dell’infettivologo è inesistente. Appena giunto ho saputo, parlando con i miei compagni, che nella sezione in cui mi trovo (2° padiglione, 2° piano B) era appena deceduto un mio carissimo amico, Walter Holz. Se non fosse stato per la negligenza del personale sanitario di reparto, sarebbe ancora in mezzo a noi. Da più di un mese il dottore era a conoscenza delle reali condizioni del povero Walter. Ma il medico sanitario diagnosticò all’inizio una semplice cefalea, e per un mese è stato curato con pastiglie per il mal di testa. Walter è deceduto per un aneurisma celebrale. Ora io mi chiedo a quanti decessi dobbiamo assistere - visto che quello di Walter è stato uno di una lunga serie, taciuta dai giornali - perché possano essere manifesti e possano cessare questi soprusi? E pensare che della Casa di Reclusione di Opera se ne parla bene, a mio avviso invece si tratta di un perfetto lager moderno. In ultimo, faccio presente che oggi sono venuto a conoscenza di un altro decesso.
Assistenza sanitaria disastrata
Alla luce della morte di due coabitanti del secondo raggio, da tutti chiamato C.O.C. (Centro di Osservazione Criminale) di San Vittore, non posso trattenere i miei pensieri e la mia rabbia. Il giorno 29 dicembre 2000 è morto Massimo Cogliati, un ragazzo d’una trentina d’anni. Venti giorni dopo, esattamente il 18 gennaio 2001, è morto Paolo Sandirali, ancora più giovane di Massimo. Tutti dovete ricordarli. Massimo è morto, pare (non ho i dati ufficiali dell’autopsia) a causa di un ingrossamento delle tonsille, che lo hanno soffocato. Poiché le tonsille non si gonfiano in modo così repentino, pongo questi quesiti: se è vero, perché non è intervenuto nessuno, prima? Eppure i compagni di cella avevano segnalato il caso anomalo. Nessuno si era accorto, nei giorni immediatamente precedenti, che questo ragazzo non poteva mangiare, che faceva fatica a deglutire, che non andava all’aria? Non si era segnato a visita medica? Se si era segnato, perché non è stato chiamato? Qualcuno ha segnalato il caso a qualche agente? Chi e con quale faccia qualcuno ha potuto comunicare ai suoi cari che Massino era morto in carcere, perché… ha dovuto provvedere don Luigi! Mi piacerebbe poter avere le risposte, perché la morte di un ragazzo giovane, anche se non lo conoscevo, mi turba profondamente.
Assistenza sanitaria disastrata
Altro caso è la morte di Paolo: continuo a chiedermi come si può morire a venticinque anni, a Milano, non in un paese del terzo mondo. Paolo era stato dichiarato incompatibile con il carcere da ben sei medici e da tre infettivologi, sembra che il suo magistrato abbia dichiarato che voleva scarcerarlo il giorno dopo. Vergogna! Conclamato e CD4 a zero! Nella notte tra il 17 e il 18 gennaio, Paolo viene inviato dal medico del pronto soccorso interno all’ospedale di turno: Paolo ha la febbre altissima. All’ospedale San Carlo Borromeo, i detenuti non sono graditi perché la scorta disturba troppo gli altri pazienti, per il poco rispetto che alcuni agenti sono abituati a riservare ai detenuti piantonati. Paolo viene sommariamente visitato, senza nemmeno essere sottoposto a radioscopia. Secondo i medici pare che il suo stato fosse dovuto ad un uso eccessivo di qualche droga e, praticata un’iniezione di Narcan (farmaco salvavita in caso di overdose), viene dimesso e rinviato al carcere. Nel pomeriggio del 18 gennaio, poche ore dopo il rientro, Paolo moriva. A nulla sono valsi i tentativi di rianimazione effettuati dai medici del pronto soccorso. La temperatura ascellare, misurata un’ora dopo la morte, segnava 38° centigradi. Probabilmente, al momento del decesso, aveva raggiunto la soglia massima. Io non conoscevo Paolo, ma voglio ringraziare il magistrato che voleva scarcerarlo il giorno dopo il suo decesso. Non si vergogna, signor magistrato? A cosa servono i pareri medici, se lei si sente così vicino a Dio per prendere le decisioni per lui? Non perda il sonno per così poco, in fondo è morto soltanto un altro detenuto, cittadino ed essere umano non pari a lei, ma di serie "B".
Assistenza sanitaria disastrata
Qui, al C.O.C., reparto di S. Vittore per tossicodipendenti, sepolti vivi dalla società civile, io sono un misero numero di matricola dal luglio dell’anno di disgrazia 2000, anno del Giubileo del carcerato. Ho saputo della morte di un mio compagno, avvenuta giovedì 18 gennaio, da radio carcere, tutto questo nell’indifferenza generale (è il quarto decesso in pochi mesi!) specie dell’opinione pubblica, perché attualmente il "drogato" che muore in carcere non ha più nemmeno il diritto di essere un puntino nella cronaca nera. È difficile trovare traccia di un trafiletto sui quotidiani di Stato. Questo ragazzo in AIDS conclamato e con pochissimi anticorpi, aveva appena ricevuto il rigetto della sua richiesta di differimento della pena dal tribunale di sorveglianza di Milano, con l’assurda motivazione che la sua malattia non era così grave da non poter essere curata in questo istituto di pena! Questi cosiddetti "laureati" si dovrebbero vergognare di considerare la vita di un povero ragazzo malato alla pari di un qualsiasi animale (anzi nemmeno tale, perché gli animali sono amati dai loro padroni, non disprezzati) come succede ad un tossicodipendente in AIDS, che doveva scontare pochi anni certamente (non saprei quantificare il tutto, dato che non conosco la sua posizione giuridica). So per certo che non aveva commesso crimini di sangue, come certi falsi pentiti opportunisti che usano le leggi di questo nostro malsano stato per il loro sporco tornaconto. Ho notato che la via di mezzo non esiste, si passa da un eccesso all’altro. Una volta, noi tossicodipendenti venivamo lasciati in crisi d’astinenza e, al massimo, ci veniva concessa qualche goccia di Valium, per pochissimi giorni. Ora ci danno il metadone (com’è giusto che sia) e psicofarmaci a volontà, senza il minimo controllo, senza alcun accertamento sanitario. Chiedi e ti sarà dato… Personalmente apprezzo l’impegno di assistenti, psicologi e psichiatri, ma non si può pensare di accontentare sempre e comunque una persona tossicodipendente, psicologicamente instabile, il più delle volte non in grado di autogestirsi. Per questo non capisco come possano questi dottori imbottire di psicofarmaci questi detenuti tossicodipendenti, solo perché lo pretendono, inventandosi scuse pazzesche. Non possono e non devono farsi raggirare dalle richieste esuberanti di certi soggetti, prima di tutto malati di protagonismo e di non so che altro. Trovo giusto somministrare il metadone, ma non in maniera arbitraria. Lo stesso discorso vale per la prescrizione degli psicofarmaci a chiunque. Questa "prassi penitenziaria" renderà la vita più tranquilla al personale di custodia, che avrà a che fare con persone rincretinite dalla terapia, ma insopportabile per i compagni di cella, che ci devono convivere 24 ore al giorno. C’è da impazzire, in questa pena nella pena! Vorrei concludere rivolgendomi ai responsabili della morte di questo ragazzo: spero che questi abbiano una coscienza e pensino al danno che hanno fatto, ma non credo. Altrimenti non avrebbero il coraggio di guardarsi allo specchio, appena svegli, senza provare disprezzo per se stessi. Facce e maschere n° 3 (1998)
Parliamo di chi si suicida, io per esempio, strano vero? Infatti sono qui a scrivere, forse non volevo veramente morire e mi domando: ma di tutte le persone che si sono suicidate quante volevano veramente morire? Chissà, forse se un compagno di cella fosse stato più attento o una guardia meno menefreghista, chissà, forse tanti sarebbero qui con me a scrivere questo pezzo. Ma ricominciamo da capo, molti di quelli che si sono suicidati sono qui con me… uno mi sta proprio dicendo: "Pam io sto male, sto talmente male che preferisco farla finita, non sopporto sto cavolo di astinenza". Io vorrei rispondergli, ma io non ho voce, posso solo ascoltare... e continua a dirmi: "Però se mi dessero qualcosa io... io non lo farei, o forse è meglio che lo faccia così si accorgono di me e riesco ad ottenere qualche cosa". Ecco subentra un’altra voce: "Pam, ho preparato il lenzuolo, cribbio come l’ho fatto bene, e se non l’ho fatto da solo mi ha dato una mano il mio compagno di cella che è dalla mia parte, mi ha anche detto che appena mi appende lui chiama, si mette ad urlare e fa venire le guardie. Porca potta, Pam, quel cretino si è addormentato ed io come un salame sono rimasto qui appeso, è un attimo, ma non riesco a chiamare, non riesco neanche più a pensare... cribbio... sto morendo!". Silenzio e mi sento un po’ rilassata; sembra che questo silenzio porti la pace, ma non è così, da un carcere lontano arriva un calore tremendo, mi sembra di essere all’inferno, e una ragazza che chiama aiuto... aiuto... aiuto…, ma la cella è tutta un rogo, dall’altra parte del cancello chi chiama, chi urla, chi piange? Sono urla strazianti, è come un animale in trappola. Si, voleva morire veramente, ma all’ultimo momento anche lei sperava che qualcuno la tirasse fuori di lì, sento un ultimo grido, Dio mi sembra già di essere all’inferno, si io, Pam, mi sento nell’inferno! Non sto qui a chiedermi perché o per come, per colpa di chi. Mi sembra tutto così buffo per me che fortunatamente non ho avuto il coraggio di perpetuare quell’idea del suicidio, perché poi è prevalsa in me la voglia di vivere e con il mio solito culo sfacciato sono qui a raccontarvela. Ma per tutti quelli che non hanno più voce, né altro, come posso io, piccola tentatrice suicida mai morta, parlare a nome di chi voleva urlare. gridare, correre e vivere e invece non c’è più? Con la mia presunzione ho detto. "scrivo io un pezzo ironico sul suicidio", ma amici miei, non ci sono riuscita; provo solo un gran rimpianto per non poter avere avuto voce in quei frangenti, forse anche solo una parola di conforto avrebbe dissuaso Quelle persone. Io non so chi abbia scritto una cosa che ho letto sul davanzale all’ottavo piano di un ospedale, ma mi ha lasciata sempre molto perplessa: "Meglio una fine disperata, o una disperazione senza fine?" Ragazze Fuori n° 1 (2003)
Overdose
A quando la prossima morte? Pochi quotidiani ne hanno parlato. Ma almeno due lo hanno fatto. Due donne detenute nel carcere femminile di Civitavecchia, sono morte per overdose. Donne tossicodipendenti, con pene che non superavano i tre anni per reati correlati all’uso di droga. Le hanno trovate abbracciate in unico lettino. Questo è uno dei pochi esempi di come si vive la carcerazione nei circuiti ordinari, che non ti aiutano a uscire dal problema della droga. Anzi, si può scontare la pena continuando a usare sostanze dentro quelle mura. Dov’è la sicurezza della rieducazione all’interno di un carcere? A che cosa serve la certezza della pena, se non ti danno gli strumenti per cominciare a riflettere sulla propria vita? Non posso neanche immaginare gli occhi dei familiari di Manuela Contu, 42 anni, e della sua compagna di cella Franca Fiorini, di 38. Credo che un familiare, disperato, svuotato dal dramma che la tossicodipendenza apporta a una famiglia, riconosce anche nel carcere una via di salvezza, uno stop obbligato, dove però è possibile morire perché si è molto fragili all’inizio della carcerazione, soprattutto entrando in stato di astinenza e successiva mancanza psicologica. Che cosa dovrà ancora accadere perché la situazione delle carceri sia presa in seria considerazione? È inutile inasprire le pene o pensare che costruire nuove carceri con più spazio e meno detenuti risolverà il problema del sovraffollamento e del recupero della persona. Oggi la priorità da affrontare è la guerra, ma pensiamo tutti insieme a che cosa dice la nostra Costituzione. Magazine 2, marzo 2001
Suicidio
Dopo un suicidio, le sue voci San Vittore, parole rubate con orecchio attento durante, un certo giorno, in vari luoghi. Ciao! Hai sentito? È morto Antonio. Sì, si è impiccato all’alba, perché poi all’alba? Che ne so io? Antonio era un taciturno, non si confidava mai. Ma che strano tipo, strano davvero. Aspetta tutta la notte in piedi per poi uccidersi alla mattina. Stamattina si è impiccato, verso le 6 e mezza. Poveraccio e… poveracci i suoi. Non poteva aspettare alla sera, quando si va a dormire. Nessuno avrebbe saputo: ora lo sanno tutti, nel carcere. Speriamo fuori pure. Cosa ti aspettavi da Antonio. Pensa, mi aveva chiesto un pacco di sigarette domenica. E tu gliel’hai dato? E no, eh! Tutta la sua vita era così. Sapete di quello impiccato? Mi pare che fosse uno del quarto raggio. Si è impiccato stamattina. E perché? Boh! Si sa solo che ha lasciato tre lettere, scritte durante tutta la notte. Una per sua madre, una alla moglie e ai figli e una Tribunale, al Giudice suo.
Assistenza sanitaria disastrata
Massimiliano Cogliati, secondo raggio, quarto piano, è morto improvvisamente, oggi 29 gennaio alle ore 11.30, mentre in stato di shock veniva portato a braccia nel tragitto verso l’ambulanza per il ricovero ospedaliero. È stramazzato a terra, viola e con la bava alla bocca. Dopo nemmeno un minuto è morto sull’ambulanza, all’interno del carcere. Era una settimana che diceva di stare male e non mangiava quasi niente. Finalmente è sceso dal dottore del Pronto Soccorso che gli ha dato una pastiglia (alla quale forse era allergico?). Fatto sta che dopo neanche mezz’ora stava soffocando. Aveva 28 anni, era molto robusto. Da circa un mese era a san Vittore per tentata rapina. È morto un nostro compagno, e troppo in fretta. Possiamo dire ai suoi cari che c’è qualcosa che non è andata bene. È morto in un posto dove un Magistrato l’ha spedito; è morto nelle Istituzioni, non sarà colpa di nessuno.
Assistenza sanitaria disastrata
Si chiamava Arturo Cappella. Gli avevano dato sei mesi di vita che ha rispettato. Arturo è morto domenica 31 dicembre. Dopo tanta sofferenza e umiliazione se ne è andato. Aveva 60 anni e tre tumori, era stato operato alla vescica ed al colon, perciò doveva essere medicato con lavaggi ogni giorno. Aveva avuto più di un ictus ed è per quello che è morto; venerdì, era stato ricoverato in ospedale, domenica è morto. Stava scontando un residuo pena e tra poco meno di un anno avrebbe finito di pagare il suo debito con la giustizia. Arturo raccontava che il suo avvocato era un opportunista, uno che, con molto menefreghismo, aveva pensato bene di spremerlo fino all’ultimo. Gli avevano più volte rifiutato gli arresti ospedalieri. Arturo viveva nel Sud America e qui ormai non aveva più contatti con i suoi parenti più prossimi: era completamente solo!
Assistenza sanitaria disastrata
Era qui dentro da pochi mesi, Paolo Bandirali di 30, anni ed è morto nel pomeriggio del 18 gennaio: era stato ricoverato il 17 sera, ma dopo poco ore era stato dimesso dall’ospedale per ritornare in cella, dove è morto. Aveva l’incompatibilità al regime carcerario per malattia, ma come al solito ha potuto dimostrarla solo morendo. È spirato tra le braccia dei compagni che lo portavano al Pronto Soccorso, esalando l’ultimo respiro tra le mani di medici ormai impotenti.
Assistenza sanitaria disastrata
Ancora un altro compagno se n’è andato, morendo per un’emorragia interna al Pronto Soccorso di San Vittore il 6 febbraio 2001, alle ore 8 circa. Era algerino e si chiamava Zidane Alì: stava al secondo raggio da 8 mesi. Per raggiungere la libertà, gli rimanevano ancora da scontare altre due settimane. I dottori hanno tentato di tutto, anche l’aspirazione con un apposito apparecchio, che però, pare, era rotto da sei mesi. Allah abbia misericordia di lui. Magazine 2, novembre 2000
Assistenza sanitaria disastrata
San Vittore, Milano, 6 ottobre. Un detenuto di 36 anni, tossicomane, in carcere da pochi giorni, è stato trovato morto questa mattina alle 7.30 nel letto della sua cella. L’uomo, di cui non sono state fornite le generalità, sarebbe deceduto per un malore, che lo ha colto durante il sonno. Nessuno, infatti, si è accorto di nulla. L’uomo era arrivato a San Vittore il 29 settembre, arrestato per rapina. La direzione ha confermato che si trattava di un tossicomane sieropositivo, probabilmente già in fase molto avanzata. Magazine 2, luglio 1999
Suicidio
Una detenuta è morta suicida nel carcere milanese di Opera. È accaduto giovedì pomeriggio, quando la donna - di cui non è stato reso noto il nome - ha attuato il suo tentativo, utilizzando il fornellino con il quale i detenuti si scaldano i cibi. Soccorsa e trasportata in ospedale, la reclusa è morta dopo un’agonia durata fino a ieri sera. Sembra che all’origine del disperato gesto della detenuta, che avrebbe esaurito pena che stava scontando il prossimo 24 marzo, vi sia stata la notizia, all’inizio della settimana, di una nuova condanna a due anni di reclusione, che avrebbe prolungato la sua permanenza in carcere. La corte d’appello, proprio il giorno prima del suicidio, aveva confermato la sentenza di condanna aumentandola però di due anni, e facendola quindi passare da 3 anni e 11 mesi a 5 anni e 10 mesi, allungando i tempi per la scarcerazione per fine pena, che scadevano entro aprile e che invece ora slittavano al 24 marzo 2001. Sarebbe questo il motivo del gesto di R.G., la donna di 45 anni che si è suicidata in carcere, e sulla cui morte è stato aperto un fascicolo in Procura affidato al sostituto procuratore Maria Luisa Sodano, che ha incaricato la polizia scientifica di compiere gli accertamenti. Secondo le testimonianze raccolte in carcere dalla polizia, la donna era apparsa alle altre detenute tranquilla fino a pochi minuti prima del gesto, compiuto alle 15 nella sua cella. R.G. era stata arrestata il 23 maggio 1995 per spaccio di stupefacenti ed aveva ottenuto quello stesso anno gli arresti domiciliari nella comunità di San Patrignano, per avviare un programma di recupero. Nel dicembre 1995 era stata però di nuovo arrestata perché aveva interrotto la terapia, e reclusa in carcere. R.G. aveva presentato ricorso alla sentenza di appello, accolto dalla Cassazione che aveva rinviato alla Corte d’appello. "È stato un fatto veramente imprevedibile - afferma il direttore di Opera, Mellace - siamo rimasti tutti stupiti, era una detenuta coinvolta nelle attività del carcere".
Suicidio
Un giovane marocchino, 28 anni, tossicodipendente, in carcere per reati legati alla droga, si è ucciso la scorsa notte nel bagno della cella che divideva con altri quattro detenuti, a San Vittore. Mentre i compagni dormivano, il giovane si è appeso ad un lenzuolo che aveva legato alle sbarre delle fa finestra del bagno. Il corpo è stato trovato da un agente della polizia penitenziaria. Il marocchino aveva seguito una terapia di disintossicazione dalla droga. Magazine 2, luglio 1997
Suicidio
Un detenuto tossicodipendente di 26 anni, Luca Torchio, di Milano, è stato trovato morto stamani nella sua cella nel carcere di Opera (Milano) con in testa un sacchetto di plastica e accanto una bomboletta di gas da campeggio. Non è ancora chiaro se Torchio si sia ucciso o se sia morto invece mentre aspirava il gas in sostituzione di altre sostanze stupefacenti. Liberarsi dalla necessità del carcere, settembre - ottobre 1997
Suicidi
Nel carcere torinese delle Vallette si è ucciso il 22 settembre il detenuto Roberto Amato, 23 anni, in carcere da due settimane in regime di custodia cautelare per reati contro il patrimonio. Il 17 muore a Rebibbia il detenuto di 24 anni Alcide Zaccheddu. Nei primi sei mesi del 1997 sono stati 51 i detenuti morti, mentre in tutto il 1996 i suicidi erano stati 45. Nel mese di settembre, già otto carcerati si sono suicidati. "Studiando le storie delle otto persone - ha detto Margara - non si desume una causa scatenante. Quattro erano stati arrestati da pochi giorni. Alcuni erano tossicodipendenti, altri no. La situazione carceraria mal si addice a temperamenti a rischio, così come non aiuta il sovraffollamento che, anche se in via di riduzione, resta un problema; sono tra 10 e 12 mila i detenuti in più rispetto alla capienza degli istituti di pena. In 38 mila posti, ospitiamo una popolazione di circa 51 mila detenuti". Liberarsi dalla necessità del carcere, gennaio 1994
Assistenza sanitaria disastrata
Carcere di Volterra, domenica 9 gennaio, ore 23.00: l’agente, nel suo giro di controllo, scopre che un detenuto, Nicola Ventimiglia, è riverso per terra, svenuto. Avverte immediatamente i sottufficiali di servizio ed il medico di guardia. Dopo pochi minuti sentiamo i passi affrettati degli agenti e del dottore. Il medico chiede che il detenuto venga portato in infermeria. Quando Nicola passa, in barella, di fronte alle nostre celle chiunque può capire la gravità del caso: il suo viso era sporco di sangue, il respiro affannoso, le braccia e il collo erano gonfie in modo innaturale. La nostra speranza fu che Nicola arrivasse in tempo all’ospedale. Dopo trenta minuti ecco che ritornano in sezione le guardie affannate che riportavano in barella Nicola, ancora esanime. Nel frattempo i blindati erano stati chiusi. Sapemmo poi che il dottore dopo aver visitato Nicola e aver a lungo meditato aveva concluso che si trattava solo di uno stato di agitazione e che sarebbe stata sufficiente una buona dose di tranquillanti. Fu stabilito che il detenuto doveva essere controllato continuamente dall’agente di servizio. Povero Nicola, aveva scelto la serata sbagliata per sentirsi male! Come guardia c’era un ragazzetto appena arruolato. Lunedì 10 gennaio, ore 7.30 solita conta e perquisa. Scendiamo al piano di sotto. Pensiamo che Nicola stia meglio, ma dopo venti minuti sentiamo la voce agitata del brigadiere che ha trovato il nostro amico in condizioni molto gravi. Non vi diciamo con quanta foga ora si cerchi di aiutare Nicola, ecco che miracolosamente si sente il triste suono dell’ambulanza. Chi l’avrà chiamata? Non certo (pensiamo noi) il dottore o i due brigadieri della sera prima, forse il comandante, che nessuno ha osato svegliare perché il suo sonno è sacro, molto più sacro della vita di un uomo, o meglio di un detenuto! La vita di Nicola si è spenta durante il trasporto in ambulanza verso l’ospedale. Era già in stato di coma. Vi rendete conto in che mani era la vita di Nicola? In che mani è la nostra? Che senso ha dare un sonnifero ad un uomo che è privo di sensi e perde sangue dalla bocca? Che serietà, che capacità, che competenza hanno dimostrato avere il medico e i due brigadieri? Volete sapere cosa ha detto la stessa mattinata uno dei due famosi brigadieri: "State tranquilli, Ventimiglia è morto d’infarto, non ha sofferto!". Date voi un giudizio su quello che è avvenuto a Volterra, noi siamo talmente incazzati che è meglio che non ci esprimiamo. Prima però vogliamo farvi sapere chi era Nicola Ventimiglia: era un padre di famiglia e, malgrado la sua lunga detenzione, era riuscito a far crescere i suoi figli in modo esemplare. Era da venti anni in carcere e, benché fosse nei termini per ottenere i benefici della legge Gozzini, il magistrato non gli aveva mai concesso un permesso per dargli la possibilità di riabbracciare a casa la propria famiglia. Il suo comportamento in carcere era ottimo, lavorava come barbiere, non aveva avuto mai nessun rapporto disciplinare, si era sempre distinto per la sua correttezza ed educazione. Ora Nicola ha pagato del tutto il suo debito con la giustizia, lo ha pagato a caro prezzo, con la vita. Addio Nicola, noi tutti ti ricorderemo per la tua allegria, per le frasi che ci rivolgevi e che ci tiravano su e ci davano un aiuto per andare avanti in questa nostra carcerazione. Oltre il muro n° 2 - 2002
Quello dei suicidi, dei tentati suicidi e degli atti di autolesionismo è un fenomeno drammatico nelle carceri italiane. Riportiamo di seguito la testimonianza di un detenuto di Trento scritta in occasione di un suicidio in carcere. L’inferno non è lontano: "Meglio morire", dicono non pochi detenuti, soprattutto all’impatto iniziale con la carcerazione. Che si tratti di un inferno lo dimostrano le statistiche. Le percentuali dei detenuti suicidi sono drammatiche: 12.7% per 1.000 abitanti ("soltanto" lo 0.67% nel resto della società). Ciò significa che in carcere ci si uccide 19 volte più che fuori di esso. Dal 1990 la situazione è ulteriormente peggiorata: i detenuti sono raddoppiati, i suicidi triplicati. Terribile è la condizione di giovani e giovanissimi: il 36.6% dei suicidi ha meno di 35 anni. Il 15.2% meno di 25. Nel marzo 2002 i detenuti erano oltre 57.000, quasi il doppio di dieci anni prima; ciò significa che per ogni 100 posti disponibili in un carcere i reclusi sono 130. A San Vittore i posti sarebbero 800, ma i detenuti sono 2.000. È una situazione esplosiva, cui si dedica - se mai lo si fa concretamente- un’attenzione insufficiente. Fuori da quelle mura si passa il tempo a discutere di problemi tipo art. 18, conflitti di interesse, etc., etc. (che pure hanno indubbia rilevanza per la comunità e per la giustizia che dovrebbe concernere tutti i cittadini…), mentre loro, là, sono soli, oppressi da mille incognite, abbandonati. E tra loro qualcuno si toglie la vita, incapace di sopportare una segregazione che l’ha espulso - talvolta senza colpa! - dalla vita di relazione e dalla libertà. Eppure, il fine della carcerazione dovrebbe pur sempre restare il reintegro dell’uomo, non la sua morte. Attualmente, da sempre e più di sempre, i servizi e l’assistenza sono insufficienti; la situazione complessiva è squallida, il sovraffollamento soffocante; molti avrebbero bisogno urgente di assistenza psichiatrica o almeno psicologica valida e continuativa. È importante non dimenticare che circa la metà dei detenuti suicidi si toglie la vita nei primi sei mesi di carcerazione. Questo è il periodo più a rischio a causa della disperazione conseguente alla condizione di detenuto. Non tutti riescono a riorganizzare la propria vita dentro il carcere: rapporti sociali da costruire o ritrovare, significati autentici da dare all’esistenza, la costrizione a vivere la separazione dalle persone amate, sono problemi enormi. Le aride cifre dei suicidi (quando mai le cifre sono state fertili?) rappresentano il sintomo di un disagio esplosivo che investe tutto il sistema carcerario, e tuttavia è un sintomo che riguarda tutti da vicino, perché le carceri - non che luoghi di recupero umano e sociale - sono scuole di delinquenza. In carcere si entra, si esce, magari si rientra (conseguenza dell’assenza di un progetto di reinserimento efficace), e il recupero resta un’utopia. Il ministro Castelli ha a disposizione 500 milioni di euro (circa mille miliardi di vecchie lire) per ammodernare il sistema carcerario italiano: va benissimo, l’ammodernamento; ma prima deve realizzarsi l’obiettivo fondamentale, quello della "ricostruzione" della personalità dei detenuti, che non può passare soltanto attraverso l’edilizia, ma con l’avvio di un progetto concreto di recupero umano e sociale dei reclusi e della loro dignità. È necessario, urgente, indifferibile un piano di autentico recupero psicologico, umano, sociale e culturale del detenuto, che gli permetta un reinserimento pieno al termine del periodo di carcerazione. Ciò sarebbe anche un eccellente strumento - anzi, l’unico - per contrastare efficacemente gli effetti di quella "scuola di delinquenza" che è presente in ogni carcere italiano ed ha conseguenze micidiali: non raramente un soggetto debole o sprovveduto, che magari ha soltanto sbagliato per ignoranza, viene trasformato da quella "scuola" in autentico criminale. Il che è davvero un crimine gratuito.
S. Z.
Così si muore in galera
L’associazione "A buon diritto" ha curato una ricerca sui suicidi in carcere, l’indagine dedica un approfondimento ai gesti di autolesionismo e ai tentati suicidi: nel 2001 sono stati, rispettivamente, 6.353 e 878. Ogni anno, circa un detenuto su sette - secondo i dati ufficiali - ricorre all’autolesionismo o tenta il suicidio. In carcere, gli atti di autolesionismo - il "tagliarsi", innanzitutto - hanno una funzione principalmente "dimostrativa", ma questo non ne limita in alcun modo la drammaticità - spiega Manconi -. Il "farsi male" e il tentativo di togliersi la vita costituiscono, spesso, la sola forma di auto-rappresentazione e l’unica voce (pur stenta e rotta) rimasta a chi, per definizione e per condizione, è senza voce". Infatti al detenuto "viene imposta, quale pena aggiuntiva, l’interdizione a comunicare col resto della società. Rimasto "senza parola", si adatta, pertanto, a parlare attraverso il proprio corpo: il corpo offeso e costretto è, in molte circostanze, il solo mezzo di comunicazione con l’esterno. E il proprio fisico "viene buttato - così com’è tagliato, lacerato, mortificato - in faccia a chi lo vorrebbe ignorare". Negli ultimi tre mesi del 2000 si sono verificati 27 casi di suicidio, oltre il 40% rispetto all’intero anno: un’impennata riconducibile anche "all’aspettativa nutrita e la frustrazione patita a proposito di un provvedimento di "clemenza" di cui molto si era discusso nel corso dell’anno giubilare. "Più di una volta è sembrato che quella prospettiva potesse effettivamente realizzarsi, che maggioranza e opposizione trovassero l’intesa per approvare un provvedimento di amnistia e/o indulto" - sottolinea Manconi. Le speranze alimentate dalle parole del cardinale Camillo Ruini e di Giovanni Paolo II, e dal dibattito sviluppatosi in sede politica, hanno creato un clima di attesa tra i detenuti, ma la mancata approvazione di una misura di clemenza l’ha mortificata, ha disperso energie e dissipato speranze. Fatale che l’aspettativa frustrata si rivolgesse contro chi più aveva investito in essa: i detenuti stessi". Seac Notizie n° 4 (luglio - agosto 2003)
Suicidio in carcere
Un detenuto di 28 anni, Giovanni Cabras, di Pirri, si è ucciso alcuni mesi or sono nel carcere sassarese di San Sebastiano. Il giovane, che scontava una condanna per reati contro il patrimonio, è stato trovato dai compagni di cella impiccato in bagno. Fin qui la fredda notizia di agenzia, una notizia che assume una luce diversa se messa insieme a queste altre: la sera di Pasqua un 41 enne cagliaritano, Roberto Salidu, si impicca con una sciarpa alle sbarre della finestra della sua cella nel carcere di Villa Fastiggi (Fano). Doppio suicidio nel carcere romano di Rebibbia 10 giorni dopo: la notte del 30 si toglie la vita nel braccio G 12 del nuovo complesso Alluad Abdel Rahim, 20enne marocchino. Arrestato per furto, doveva scontare un anno per il cumulo di precedenti condanne. Il giorno dopo è la volta di un romano di 41 anni, Marco De Simone, spostato dal nuovo complesso al reparto psichiatrico del penale, nessun medico e poche strutture. San Vittore (Milano), 4 maggio: arriva al reparto "nuovi giunti" un giovane ecuadoriano. Ha ucciso la moglie e ferito il figlio investendoli con un’auto. La notte viene portato in infermeria per una sospetta polmonite, la mattina dopo lo trovano in bagno, impiccato. Stessa storia, il 19 maggio, per un detenuto bulgaro di 22 anni - tossicodipendente dall’età di 9 - della casa circondariale di Macomer, nel nuorese. Una estremità del lenzuolo al collo, l’altra alle sbarre della finestra. Sei suicidi in poco più di un mese. Una quindicina dall’inizio dell’anno, conferma Vittorio Antonini, ergastolano, vicepresidente dell’associazione carceraria di Rebibbia, Papillon. In media col 2002 (52 suicidi), meno che nel 2001 (70). E si tratta di dati sottostimati. L’amministrazione penitenziaria (D.A.P.) tende a declassificare ad eventi involontari fatti volontari, dice Luigi Manconi, ex portavoce dei Verdi e presidente di "A buon diritto". Tra detenuti esiste la pratica del drogarsi inalando il gas delle bombolette per alimenti. Se un detenuto ci muore, è da considerarsi overdose involontaria o suicidio voluto? L’amministrazione lo considera sempre un atto involontario, ma non di rado si tratta di suicidio vero e proprio. E questo è solo un esempio. C’è poi da considerare un elemento burocratico: se un detenuto cerca di uccidersi nella propria cella, ma muore in ospedale, o in ambulanza, il suo non sempre rientra negli "atti suicidali carcerari". Certo è che chi si uccide in prigione è giovane - il 53% ha meno di 35 anni, il 15 meno di 25 - e lo fa entro il primo anno di detenzione (65%) se non nei primi 6 mesi (55%).
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