Carceri sovraffollate...

 

Carceri sovraffollate, il dramma e il silenzio

di Luciano Eusebi (professore di diritto penale nella Università Cattolica, Piacenza)

 

Il Cittadino - Quotidiano del Lodigiano, 30 gennaio 2003


Sulla situazione penitenziaria è intervenuto pochi giorni orsono anche il Comitato Nazionale per la Bioetica, che - tra l'altro - afferma: il quadro obiettivo risulta di gravissimo disagio, come indicano un tasso di suicidi in carcere quasi venti volte superiore (nel 2001) al tasso nazionale e un numero impressionante di condotte autolesionistiche.

La stessa garanzia immediata della salute dei reclusi appare messa in discussione, come hanno evidenziato i responsabili della sanità penitenziaria: il che richiede la messa a disposizione di risorse adeguate. Il sovraffollamento in quanto tale, del resto, ostacola in maniera drastica la garanzia effettiva dei diritti umani riconosciuti ai detenuti dalla Costituzione e dall'ordinamento penitenziario, rendendo pletorici i riferimenti al trattamento e all'impegno rieducativo.

Da questo punto di vista va constatata, altresì, la carenza drammatica nel numero degli educatori e delle altre figure che fanno capo ai servizi sociali dipendenti dal ministero della giustizia. Né può trascurarsi di segnalare la necessità di un'attenta riflessione sul fatto che la popolazione penitenziaria risulti ormai comprensiva nella sua quasi totalità di individui caratterizzati da condizioni specifiche di grave disagio sociale (si pensi ai tassi elevatissimi di cosiddetti extracomunitari e di tossicodipendenti), condizioni delle quali è doveroso farsi carico anche pensando a percorsi sanzionatori nuovi. Vi si riscontra un'obiettiva sintonia con l'analisi proposta dalla Chiesa: da un lato la presa d'atto di una situazione carceraria incompatibile con le esigenze di rispetto e di promozione della dignità umana proclamate nelle leggi, dall'altro la sottolineatura della necessità di iniziative che indichino come un simile stato delle cose non possa essere considerato normale. Di qui la richiesta da parte della Chiesa, attraverso le parole stesse del Papa, di un segno improntato a clemenza il quale, nulla togliendo al già avvenuto giudizio di disvalore circa le singole condotte illecite, attesti che la società non è indifferente rispetto alla realtà penitenziaria; ma anche di provvedimenti strutturali - lo ribadiva martedì 28 gennaio monsignor Betori - idonei a evitare il riproporsi dopo breve tempo dei problemi tamponati momentaneamente riducendo il sovraffollamento. Un fatto che dopo aver parlato, anni orsono, di carcere della speranza, ci ritroviamo, ancor più di prima, un carcere di emarginazione e disperazione. Eppure non si riesce a giungere a un cenno di risposta politica, il che non manca di suscitare tristezza: anche se vi sono ancora, se lo si vuole, spazi percorribili. Tutto questo mette a nudo interrogativi di fondo: si vuol forse dire che, nonostante le leggi scritte, riteniamo di sposare un concetto di giustizia fondato, di fatto, sulla ritorsione del male?

Siamo davvero disposti a dimenticare che una seria prevenzione è proprio quella che si fonda sulla capacità del diritto di tenere alti i livelli di consenso alle norme, per cui nulla ne rafforza maggiormente l'autorevolezza della sua capacità di recupero nei confronti dei soggetti stessi sottoposti a sanzione? Vogliamo davvero fare del tipo popolazione penitenziaria che ci ritroviamo l'alibi per distogliere l'attenzione dalle grandi incoerenze in termini di giustizia del nostro tempo, che minacciano davvero il futuro dell'umanità?

La Chiesa ci ricorda che l'agire e il progettare secondo il bene non è solo una questione morale, ma anche una questione di razionalità. C'è da pensare a strategie sanzionatorie nuove, che utilizzino quando possibile percorsi di recupero non detentivi e tutto il filone inesplorato ma assai fecondo della giustizia riparativa, così da consentire che nei casi stessi in cui resti inevitabile la detenzione essa abbia contenuti umanamente significativi, orientati al reinserimento sociale. Delegittimare come buonismo il richiamo ad agire pur sempre secondo il bene sarebbe una delle operazioni culturali più sciagurate, e non solo rispetto al problema penitenziario, per la nostra società.

 

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