Bergamo,
detenuti senza diritti
Liberazione,
6 giugno 2002
Fuori se ne parla come di un carcere modello: ma modello di che? Come in tutti i
carceri italiani ormai il sovraffollamento ha raggiunto numeri drammatici: 450
detenuti in una struttura che ne dovrebbe ospitare 200, il 70% stranieri. Ci si
aspetterebbe che, proprio dove le condizioni strutturali costringono a una vita
particolarmente disagiata, uno stato di diritto investa di più nella gestione
quotidiana, per alleviare le sofferenze, considerato che il carcere dovrebbe
essere "l'estrema ratio", e comunque luogo di recupero e non di
punizione fine a se stessa. Invece, già il primo impatto, all'ingresso del
carcere di Bergamo è indicativo, di quanto avremmo trovato dopo: alle quattro
del pomeriggio non c'è il direttore, non la vice, il comandante in ferie. Ci
vogliono ben 40 minuti, un vero record, prima che riescono a trovare un
responsabile che accompagni la delegazione di Rifondazione comunista nella
nostra visita.
Normale amministrazione
Dicono che il direttore sia una persona brillante, che sa comunicare in
televisione, molto cordiale e accattivante: peccato che la maggior parte dei
detenuti non lo conosca e lamenti proprio l'impossibilità di avere un
colloquio. La nostra visita registra una situazione standard nelle prime tre
sezioni: sovraffollamento ma, "normale amministrazione", se così si
può chiamare, o comunque una situazione che negli ultimi dieci anni ci siamo
abituati a conoscere. Quello che troviamo nella quarta sezione invece è un
inferno. Un detenuto sta con un braccio insanguinato, ma nessuno sembra
sconvolgersi. E' solo uno dei tanti che ogni giorno si procura dei tagli sul
corpo, uno dei tanti che cerca in questo modo di lanciare un disperato grido
d'aiuto.
Ammassati
e disperati
Cosa possono fare, d'altra parte, gli 80 detenuti che stanno in questo braccio
in celle da 4-5 o 6, quando dovrebbero stare in 2? Sono ammassati, sono
"senza una lira", senza il sapone, il dentifricio, i detersivi per
pulire la cella. Ora, dopo uno sciopero dei detenuti, la direzione del carcere
passa un rotolo di carta igienica una volta la settimana anziché ogni quindici
giorni. Neanche gli assistenti sociali frequentano questa sezione, preferiscono
le altre. Si dice che alcuni detenuti, che pure non hanno mai toccato una droga,
si dichiarano tossici per essere affidati alle cure del Sert (Il Servizio
sanitario per il trattamento delle tossicodipendenze), nella speranza che
qualcuno si occupi di loro.
La
nostra presenza sollecita perciò un mare di domande e di richieste: dalla
visita medica che non arriva mai, alle informazioni circa il rinnovo del
permesso di soggiorno. Qualcuno lamenta che non arriva la posta, che non
arrivano i vaglia, che le famose "domandine" rimangono inevase per
mesi; un ragazzo albanese operato a un tendine della mano, avrebbe bisogno di
una pallina per la riabilitazione, ma anche questa sembra un obiettivo
irraggiungibile. Al bisogno di lavoro è quasi un coro: in questo reparto,
dicono, non fanno lavorare nessuno, e qui stanno proprio coloro che non hanno
soldi, né parenti. A chi puoi dire queste cose, se non alla direzione del
carcere?
E
che puoi fare se quelli non ti concedono neanche l'interlocuzione? Non ti resta
che farti del male, flaggellarti il corpo per urlare che ci sei anche tu! Il
reparto di massima sicurezza, al confronto, è un grand hotel, se non altro
perché, per ragioni di sicurezza, le celle sono singole e ben ordinate. Per
molti di questi questi detenuti; "fine pena: mai"; ma nonostante
l'ergastolo sia di per sé una condizione che ti chiude porte e speranze, riesci
ancora a trovare qualcuno, come un sardo di nome Annino, che si preoccupa degli
altri. Si raccomanda con noi di fare qualcosa per un siriano che da sette mesi
non può telefonare a casa agli anziani genitori.
Il motivo? Burocrazia, cioè vessazione, cattiveria allo stato puro. La stessa
cattiveria gratuita che incontri fuori quando parli di immigrati, un piccolo
assaggio della barbarie che ci attende dopo l'approvazione della Bossi-Fini.
Qualcuno dice che fanno apposta a lasciare andare le cose in malora, che questo
governo vuol dimostrare che non funziona nulla, per inseguire gli Stati Uniti
anche in questo, per giustificare cioè la privatizzazione delle carceri, ormai
ultimo baluardo di gestione pubblica. In ogni caso, è tempo di riaccendere i
riflettori, organizzare una ininterrotta fase di osservazione sulle condizioni
di vita nelle carceri, impedire che l'ideologia della "caccia al
clandestino" della campagna elettorale leghista faccia le sue vittime
proprio in quei luoghi oscuri e inaccessibili che preferiamo rimuovere anche
dalla nostra mente. Forse, chi ha tanto a cuore la democrazia e il pluralismo
dell'informazione dovrebbe ricominciare semplicemente a raccontare la realtà.