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Italia, quanto silenzio sul mal di carcere di Marzio Barbagli
La Stampa, 21 maggio 2002
Nessuno parla più delle carceri italiane e delle diecine di migliaia di persone che sono costrette a passarvi una parte della loro vita. Non se ne occupano ne i parlamentari di centro sinistra né quelli di centro destra, né i giornali né le reti televisive, né i sacerdoti né gli studiosi. A cosa attribuire questo unanime silenzio? Dobbiamo forse pensare che, negli ultimi due anni, la situazione della popolazione detenuta del nostro paese sia migliorata? Direi proprio di no. Ci sono alcuni numeri che non lasciano dubbi in proposito. Nel 2001, nelle carceri italiane, si sono uccisi 69 detenuti. Di per sé, qualcuno può osservare, questa cifra non dice nulla. Ci si uccide per molte ragioni e nei luoghi più vari, in auto o per strada, in una povera casa di periferia o su una spiaggia mentre il sole tramonta. Per capire cosa sta succedendo abbiamo dunque bisogno di qualche altro dato. Nel 2001 il tasso di suicidio dei detenuti è stato di 124 per 100 mila presenti, quello della popolazione italiana di 8 per 100 mila. Quindi in carcere ci si uccide ben quindici volte più che fuori. D’altra parte, anche il tasso di suicidio delle carceri varia nel corso del tempo e quello del 2001 è stato il più alto registrato negli ultimi dodici anni. Come spiegare questo forte aumento? Alla fine di luglio del 2000, commentando la mancata approvazione di un provvedimento di amnistia o di indulto, Adriano Sofri scriveva di aspettarsi non un’ondata di proteste, ma l’aumento del numero di suicidi. "Vedrete nell’estate che continua - osservava - quando si sarà saputo ufficialmente che non danno niente. Se ne andranno, rapidissima crescita della quota senza dire niente". Questa ipotesi, ripresa sei mesi dopo su "La Stampa" da Luigi Manconi, sembra a prima vista quella buona per interpretare cosa è successo. È possibile che anche la delusione dell’estate di due anni fa abbia avuto qualche effetto sul numero delle morti volontarie, dando la spinta definitiva a qualche detenuto che già da tempo pensava di porre fine ai suoi giorni. Ma se si analizzano le serie mensili dei suicidi e quella dell’ultimo quindicennio ci si accorge che l’ipotesi Sofri non basta a spiegare cosa è successo. In primo luogo, perché è difficile pensare che gli effetti di quella delusione siano continuati anche per tutto il 2001. In secondo luogo, perché l’aumento del tasso di suicidio è iniziato prima, all’inizio degli anni ‘90. Si può allora cercare di ricondurre questo aumento agli altri grandi cambiamenti avvenuti nelle carceri nell’ultimo decennio. Il primo è costituito dalla rapidissima crescita della quota degli stranieri. L’ipotesi che si può avanzare è che gli immigrati corrano il rischio di uccidersi più degli autoctoni, perché per loro la reclusione è un’esperienza ancora più dura. Ma questa ipotesi non trova conferma nei dati disponibili. Il secondo gran de cambiamento è dato dal sovraffollamento. Nei paesi nei quali (a differenza di quanto avviene da noi) l’Amministrazione penitenziaria ha promosso indagini sui suicidi si è riscontrato che questi sono più numerosi negli istituti con un eccesso di reclusi. Riducendo lo spazio e le altre risorse disponibili, aumentando il rumore, la disorganizzazione, le interazioni non desiderate, il sovraffollamento rende la vita in questi istituti ancora più faticosa e stressante. Inoltre, con il sovraffollamento è più difficile occuparsi in modo adeguato dei nuovi arrivati, dedicare loro le attenzioni e le cure che meritano. Eppure, sappiamo che è questa la fase più difficile, che è proprio questo il gruppo più a rischio. Tutti i detenuti che entrano per la prima volta in carcere sono in preda ad una forte ansia e alcuni di loro, dopo poco tempo, cadono in uno stato di depressione. Sta di fatto che in Italia, nell’ultimo decennio, il tempo intercorso fra l’ingresso in un istituto ed il suicidio è stato di non più di tre giorni nel 14% dei casi e fra quattro giorni ed un mese in un altro 21%. Tuttavia, secondo i risultati delle ricerche condotte in vari paesi, il sovraffollamento influisce moderatamente sulla frequenza delle morti volontarie. D’altra parte, i dati italiani mostrano che fra sovraffollamento e tasso di suicidio non vi è sempre una relazione chiara, perché quest’ultimo era alto anche alla fine degli anni ‘80, quando il numero dei reclusi era molto minore di oggi. Il terzo grande cambiamento è costituito dal forte aumento della quota dei tossicodipendenti, che hanno raggiunto il 29% dei reclusi. E, secondo i risultati di alcune ricerche condotte in Gran Bretagna e nel Stati Uniti, in carcere questo gruppo corre maggiori rischi di suicidio di altri. I dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sono consapevoli di quanto sta accadendo nelle carceri del nostro paese. Lo prova il fatto che già nel 2000 essi hanno deciso di creare una unità di monitoraggio per esaminare uno per uno i casi di suicidio (come riferisce Le Due Città, l’interessante rivista che pubblicano da tre anni). Ma questo non basta. È giusto che dei drammatici problemi delle carceri del nostro paese si occupino il governo ed il parlamento. È necessario che vengano promosse ricerche scientifiche serie e rigorose per descrivere e spiegare cosa sta avvenendo. È indispensabile che vengano investite nuove risorse per rendere più adeguate le strutture ed il personale degli istituti penitenziari.
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