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Il "caso Lonzi": intervista a Maria Ciuffi, madre di Marcello di Francesco Barilli (per ecomancina.com)
L’11 luglio 2003, al carcere "Le Sughere" di Livorno, moriva Marcello Lonzi, 29 anni, detenuto con ancora pochi mesi di pena da scontare. Secondo l’autopsia la morte sarebbe avvenuta per cause naturali (infarto), ma quasi subito sono nati forti dubbi sulla versione ufficiale. Su denuncia della madre del detenuto, il PM Roberto Pennisi aprì un fascicolo contro ignoti, per omicidio: la morte di Marcello sarebbe avvenuta, secondo la denuncia, in seguito ad un violento pestaggio, come evidenzierebbero pure le foto dell’autopsia. In data 10 dicembre 2004 il GIP ha però accolto la richiesta di archiviazione presentata dal PM, escludendo ipotesi diverse dalle "cause naturali" per il decesso. Del caso Lonzi ci siamo già occupati, pubblicando una lettera firmata da Sergio Segio (Gruppo Abele di Milano), Patrizio Gonnella (Coordinatore nazionale di Antigone), Franco Corleone (Garante dei diritti dei detenuti di Firenze), Ornella Favero (Ristretti Orizzonti). La trovate qui: http://www.ecomancina.com/lonzi.htm È con viva convinzione che aderiamo all’appello finale di quella lettera, in cui si chiedeva la fattiva collaborazione dei media nel seguire una vicenda che, al di là del provvedimento di archiviazione, presenta molti aspetti a dir poco inquietanti. Forniamo il nostro contributo con un’intervista a Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi. Pisa, 22 gennaio 2005 – intervista a Maria Ciuffi
Quando fu arrestato Marcello, e per quale reato? Fu arrestato il 3 gennaio 2003, per tentato furto. Lo portarono in Questura, dove fu anche picchiato… Tengo a precisare che su questo aspetto non mi sono mai soffermata più di tanto: forse è vero che al momento dell’arresto aveva bevuto e che fece resistenza, per cui certe conseguenze possono essere comprensibili… Ma il punto è un altro, come ho già detto altre volte ad altri giornali: mio figlio non era un santo, ma non doveva morire in carcere. Aveva preso una condanna per 8 mesi, aveva ancora pochissimo da scontare; presto sarebbe entrato in una comunità, ed aveva tutta la vita davanti…
Dal 3 gennaio, momento dell’arresto, fino al giorno della sua morte, tu riuscisti a vedere tuo figlio in carcere? No, mai.
Ma ti furono posti degli ostacoli alle visite o ci furono altri motivi? Ti dico la verità: all’inizio io e Marcello ci scrivevamo spesso, ed era lui a non volere mie visite, temeva che io ne soffrissi troppo. Poi, dopo molte insistenze, fu lui a dirmi di andare; un giorno mi recai a Livorno, e trovai in attesa di una visita a mio figlio anche lo zio di Marcello e la sua compagna: ci dissero però che in quel momento mio figlio era a colloquio con la sua convivente. Provai ad insistere: io venivo da Pisa, la convivente era anche lei detenuta, per cui mi sembrava naturale che Marcello potesse vedere noi, mentre il colloquio con la convivente poteva avvenire in un momento successivo, ma il rifiuto degli addetti fu fermissimo; ricordo che ci fu anche un breve alterco con le guardie, a causa delle nostre insistenze. In sostanza non riuscii mai a vederlo: pochi giorni dopo quel tentativo di visita lui era morto.
Nelle lettere che ti aveva inviato cosa ti raccontava della sua vita in carcere? Mi scriveva che alle "Sughere" non si trovava bene; che aveva continue discussioni con le guardie carcerarie, che lo avevano già messo diverse volte in isolamento.
Ma questi alterchi con le guardie fino a dove arrivavano, stando alle sue lettere? Ti parlò mai di maltrattamenti? Penso che i problemi fra lui e le guardie fossero caratteriali. Devi sapere che io glielo avevo sempre detto: "Marcello, tu se vai in carcere ci muori…". Lui aveva un carattere che non poteva sopportare la reclusione... Però quel che voglio dirti è questo: per quanto ho potuto sapere in seguito da altri detenuti, Marcello non si era mai "comportato male" con le guardie. I problemi nascevano quando lui faceva delle richieste e il personale penitenziario gli negava le risposte, o gliele faceva sospirare. Ovviamente sto parlando di cose importanti, non di richieste banali; penso all’orario delle terapie. Da quanto ho capito, per farti un esempio, loro se ne fregavano se tu dovevi prendere il metadone ad una data ora, e magari passavano con ore di ritardo… Ed è chiaro che in quel momento nasce la protesta del detenuto e la conseguente reazione delle guardie.
Veniamo ora, purtroppo, all’aspetto più doloroso: tuo figlio muore l’11 luglio. Tu quando vieni avvertita? Il giorno dopo. Alle 13.20 circa.
E come venne giustificato o spiegato quel ritardo? Guarda, a dire il vero la cosa ancora più terribile è che io non fui avvertita ufficialmente, da nessuno, neppure al pomeriggio del giorno successivo… Da me non vennero né carabinieri, né questura, né mi telefonò il personale del penitenziario… Io lo venni a sapere dalla zia di mio figlio. E anche lei fu avvertita verso le 10 del mattino successivo al decesso. Ti racconto un episodio che può chiarirti ancora meglio il clima di quei momenti. Io conoscevo, già prima della morte di Marcello, Maurizio Silvestri, giornalista di cronaca de "Il Tirreno". Lui conosceva sia me che mio figlio, ma non sapeva che Marcello portava il cognome del padre (Lonzi) e non il mio (Ciuffi). Maurizio lo vidi il 12 luglio, e mi disse che già dalle 22.00 del giorno precedente nella redazione del Tirreno circolava la voce che un ragazzo era morto in carcere; tanto è vero che, prima di chiudere l’edizione del giornale, avevano lasciato spazio su una pagina per inserire la notizia, e aspettavano la telefonata dal carcere, per avere dettagli. La telefonata arrivò alle 23.20 e Silvestri si recò alle Sughere; nei primi momenti, mi disse, si parlava di un suicidio, poi di un infarto, e mi raccontò che trovò in corso una durissima protesta da parte dei detenuti della sesta sezione (cosa sempre smentita dal direttore del carcere). Quindi già da quella sera il nome del ragazzo morto era di dominio pubblico (tanto è vero che il mio amico giornalista mi avrebbe potuto avvertire, se solo avesse potuto collegare il cognome di Marcello a me). Ma nessuno pensò di chiamare me o qualcuno della famiglia, fino al giorno dopo. E nessuno ha mai giustificato, neanche successivamente, quel ritardo; e questo nonostante io sia di Pisa e gli altri familiari addirittura di Livorno, vicino al carcere…
E tu ti sei fatta un’idea sul perché di quel ritardo? Di cose, sulla morte di mio figlio, ne ho pensate tante, e ci torneremo in seguito… Sul ritardo mi sono fatta questa idea: che lui sia addirittura morto prima, fra le 17 e le 18. Non potendolo portare fuori, hanno aspettato la sera, e tutti gli altri ritardi vengono di conseguenza. Io penso che Marcello quella sera non abbia neppure cenato. Infatti mi sono sempre chiesta perché abbiano rifiutato di eseguire gli esami tossicologici, nonostante avessero prelevato alcuni organi vitali proprio a quello scopo: malgrado una nostra esplicita richiesta di esecuzione, quegli esami non sono stati mai eseguiti, e gli organi prelevati sono sempre a Pisa, benché io abbia chiesto che mi siano resi.
Tornando all’immediatezza dei fatti: tu vieni a sapere della morte di Marcello; nei primi momenti si parla di suicidio, poi di decesso naturale. Come reagisci, in quelle ore? Mi precipitai subito da Pisa al carcere di Livorno. L’ipotesi di suicidio, conoscendo mio figlio, mi sembrava totalmente irreale; e pure l’infarto, in un ragazzo giovane e in salute, mi destava dubbi enormi. Era il pomeriggio del 12 luglio, quando arrivai alle "Sughere"; ricordo che mi lasciarono fuori in attesa per più di un’ora. Io non mi intendevo affatto dei "meccanismi" o delle "gerarchie" del carcere; volevo parlare con qualcuno che mi spiegasse cos’era accaduto, ma tutti si sottraevano alle mie richieste. Finalmente, verso le 14,30, mi portarono in direzione. Chiesi di vedere il corpo di mio figlio, ma mi risposero che non era possibile, perché il corpo si trovava già all’esterno del carcere e stavano facendo l’autopsia… Anche questa, a pensarci ora, è una cosa molto strana: nessuno mi aveva avvisato, nessuno mi aveva detto che era mio diritto fare assistere all’autopsia un medico di mia fiducia. Più tardi mi dissero che "dovevo essere io a pensarci". Ma come ci dovevo pensare?! In quel momento, dopo che neppure mi avevano avvertito?!… Mio figlio riuscii a vederlo solo il giorno successivo, 13 luglio, composto nella bara. Il giorno dopo lo seppellirono.
Quando hai visto il corpo ti sono venuti subito i dubbi sulla versione ufficiale? Hai visto le ferite? Ti dirò un particolare che mi è rimasto impresso. Io ero fuori, in attesa che lo componessero nella bara. Uscirono dalla sala due addetti che l’avevano vestito. In quell’atrio non ero sola, per cui loro non fecero caso alla mia presenza: non potevano sapere che ero la madre di Marcello, e parlottavano fra loro; sentii che dicevano: "hai visto che buco aveva nella testa, quello?". Quando mi avvicinai per chiedere spiegazioni se ne andarono subito, senza rispondermi. Un altro particolare tragico che ricordo è che, quando lo vidi nella bara, aveva una striscia di sangue che emergeva sul petto, dalla camicia bianca; e non fui la sola a vederla, quella striscia di sangue… Mi sembrava totalmente innaturale… Però, per tornare al senso della tua domanda, a dirti il vero non pensai subito alle guardie. All’inizio pensai ad una lite con qualche detenuto. Il momento cruciale venne in seguito, quando venni in possesso del referto dell’autopsia con relative foto; mostrai il tutto a Silvestri, il giornalista del Tirreno di cui ti ho parlato. Vedendo le foto lui me lo disse subito: c’erano vere e proprie striature viola sulla pelle; quelli erano i segni di botte, date con un manganello o con un bastone. In quei frangenti fui avvicinata anche dall’avvocato di mio figlio. Nel suo ufficio mi disse chiaramente che Marcello era stato picchiato. Io gli chiesi se sapeva il nome dei detenuti che l’avevano fatto. Lui mi guardò stupito: "Ma quali detenuti?!", mi disse, "sono state le guardie, mentre era in isolamento". Aggiunse che a dargli quella notizia erano stati 4 suoi assistiti, detenuti nella sesta sezione, quella di Marcello, e che quei quattro erano disposti a parlare col Magistrato. Ma poi di quelle testimonianze non vidi più nulla…
C’è un momento in cui hai deciso di parlare tu con altri detenuti? Molti di loro vennero spontaneamente a cercarmi, quando uscivano dal carcere. Mi ha fatto piacere, certo, ma alla fine quando gli chiedevo di andare a dire le stesse cose al Magistrato si tiravano indietro. Se c’è una cosa che ho imparato dalla mia vicenda è che l’omertà non è solo, come si dice, una prerogativa del sud; a volte per menefreghismo, a volte per paura, ma l’omertà c’è anche qui da noi, eccome se c’è! Pensa anche all’archiviazione successiva: è basata essenzialmente su quello che ha dichiarato il compagno di cella di Marcello. Lui disse che le guardie erano accorse subito, che era presente un medico e che Marcello fu prontamente soccorso… Il punto è che quella stessa persona, una volta uscita dal carcere, mi ha raccontato una versione ben diversa: mi disse che aveva dovuto urlare per più di mezz’ora e praticargli lui la respirazione bocca a bocca, e che quando arrivarono le guardie non c’era nessun medico…
E a proposito dei maltrattamenti in generale al carcere "Le Sughere" cosa ti dicevano quei detenuti? Da quanto mi hanno raccontato erano un’abitudine. A volte avveniva per punizione, a volte in seguito a banali discussioni: qualche guardia magari aveva bevuto e alla prima discussione con un detenuto prendeva il malcapitato e lo portava via per pestarlo…
Veniamo ad un aspetto solo apparentemente secondario nella tua vicenda. Tu, ad un certo punto, decidi di non accontentarti delle versioni ufficiali, e chiedi che le autorità approfondiscano quanto accaduto. E questa mi sembra una richiesta pienamente naturale e legittima, alla quale anche l’amministrazione penitenziaria dovrebbe sentirsi in dovere di rispondere… Ho saputo che, invece, tu sei stata oggetto di iniziative "discutibili" ed al limite dell’intimidazione; penso soprattutto ad una lettera, che ho vista pubblicata su Indymedia, in cui si parla di contatti da te cercati per inscenare azioni dimostrative davanti al penitenziario. Volevo sapere qualcosa di più sull’argomento. Devi sapere questo: io all’inizio ero completamente sola; non solo "umanamente", ma pure nelle mie rivendicazioni. Poi una sera mi arrivò una telefonata da un altro giornalista del Tirreno; mi disse che il giorno successivo c’era il processo a Paolo Dorigo, e che ci sarebbe stata pure una manifestazione. Mi disse che anche in quell’occasione si protestava per pestaggi e maltrattamenti subiti in carcere: io decisi di andare, e mi presentai col carteggio dell’autopsia di mio figlio. Trovai diversi giovani, principalmente di centri sociali (c’erano i ragazzi del Godzilla di Livorno, ma anche tanti che venivano da Pisa, Bergamo, Milano…). Gli mostrai le foto, gli parlai del mio caso, ed ottenni subito la loro solidarietà. C’era anche l’avvocato Trupiano: fu in quell’occasione che lo conobbi e lui mi offrì la sua assistenza (in modo totalmente spontaneo e disinteressato, e di questo voglio ringraziarlo di cuore…). Poi devi sapere che io, periodicamente, porto un mazzo di fiori fuori dal carcere. La prima volta andai da sola (e dovetti pure discutere con le guardie: chiesero se avevo il permesso del Comune per lasciare i fiori sul suolo pubblico…); l’anno successivo furono proprio i ragazzi dei centri sociali a dirmi che non sarei più dovuta andare da sola. È questo che voglio dirti: grazie a quei ragazzi io non ero più sola, e questo probabilmente ha dato fastidio a qualcuno… Tu pensa che la lettera di cui tu parli io non l’avevo neppure vista direttamente: l’ho scoperta tra le carte del fascicolo su Marcello. Ed è una lettera assurda: si sostiene, in sostanza, che io cercherei appoggi e sostegno nell’area anarco-insurrezionalista. In realtà io devo dire innanzitutto che non si tratta di "terroristi", ma di ragazzi che mi hanno offerto aiuto e solidarietà spontaneamente, senza che io li cercassi o proponessi loro delle iniziative. E, tengo a precisare, per me la vicenda di Marcello non è una "questione politica", ma solo una ricerca della verità su quanto accaduto.
Immagino che per te sia difficile uscire dalla dimensione personale della vicenda di Marcello, però penso che tu (seguendo il caso di tuo figlio, parlando con altri detenuti eccetera) ti sia fatta anche un’idea del carcere più in generale… Sicuramente sì, ed è un’impressione orribile. Se posso parlare "bene" di un carcere, per quella che è la mia esperienza, posso farlo parlando della struttura di Lucca. Molto umani coi detenuti e anche coi loro familiari; lì c’è rispetto e comprensione, mentre a Pisa o a Livorno… Tu pensa che ora anche il mio attuale compagno è in carcere. In un primo tempo lo mandarono proprio a Livorno. Ricordo che, ad un colloquio, hanno fatto una vigliaccata che non scorderò mai. Ci misero a sedere ad un tavolino; lui mi disse: "stai tranquilla, ma ora guarda alle mie spalle: quelle sono le famose celle di isolamento, quelle dei pestaggi…". Mi avevano messo lì affinchè io potessi vedere. Io guardavo le celle e mi dicevo che era in una di quelle che avevano picchiato mio figlio… Mi interessai subito per un trasferimento del mio compagno, e lo mandarono a Lucca, dove (come ti dicevo) le condizioni di vita dei detenuti sono migliori. Comunque anche il mio compagno, durante la sua permanenza a Livorno, ha scoperto alcune cose interessanti su Marcello. Mi raccontò di un detenuto che ebbe una discussione con le guardie; gli intimarono di uscire dalla cella, e lui rispose: "sì, così mi fate quel che avete fatto a Lonzi…". Il mio compagno, durante l’ora d’aria, si avvicinò a quel detenuto (ovviamente senza presentarsi e senza dire che sapeva chi era Marcello), chiedendo cosa fosse successo a quel certo Lonzi. Quel detenuto rispose: "l’hanno menato e l’hanno ammazzato"; poi, ovviamente, anche questo ragazzo ha ritrattato tutto.
Mi rendo conto che è difficile farti questa domanda… Ma, dopo l’archiviazione, hai ancora speranze nella Giustizia? Ed hai speranze, parlando più in generale, nelle istituzioni (so che il caso di tuo figlio è arrivato anche in Parlamento, attraverso alcune interrogazioni a cui il ministro Castelli ha risposto in modo a dir poco vago…)? Te lo dico col cuore: io prima nella Giustizia ci credevo, moltissimo. Ora no, assolutamente. Poi tieni conto che, da quando sono entrata in "questo mondo", oltre alla storia di mio figlio io ho potuto vedere tante cose. Ho visto che chi ha i soldi ottiene i permessi, i privilegi, più rispetto nel carcere... Io invece non arriverò mai a sapere la verità; o, per meglio dire, non vedrò mai riconosciuta ufficialmente la verità che so già. Mio figlio l’hanno picchiato fino ad ammazzarlo, questo lo so; quello che vorrei sapere è il chi e il perché. Vorrei guardare in faccia queste persone e chiedergli il perché di tutta quella violenza… No, nella giustizia non posso più credere. Quando hanno archiviato il procedimento l’ho detto subito: me l’hanno ammazzato un’altra volta. Per quanto riguarda Castelli: il Ministro parlò di lesioni che Marcello aveva riportato al momento dell’arresto… Certo, mio figlio quando è entrato in carcere aveva un ematoma al ginocchio e un taglio, ma erano ferite banali e dovute alla colluttazione al momento dell’arresto, quindi sei mesi prima della morte. Io al ministro Castelli ho scritto, ma non mi ha risposto. Ho scritto anche a Ciampi, il cui ufficio invece, correttamente, mi ha risposto promettendo interessamento… ma senza che quella lettera avesse un seguito pratico… Ma ti voglio raccontare un episodio che secondo me spiega bene la situazione. Tempo fa mi proposero una fiaccolata in memoria di Marcello. Se ne interessarono i ragazzi di Pisa, quelli del Godzilla, e quelli di Rifondazione/Livorno, arrivammo anche ad un paio di contatti con l’ARCI, sempre a Livorno. Il responsabile dell’Arci giunse a dirmi: "lei però mi assicura che nessuno poi se ne esca con slogan offensivi tipo secondino assassino?". Io restai a dir poco sorpresa: non sono "il capo" di quei ragazzi come facevo a dare un’assicurazione del genere? Allora il responsabile dell’Arci mi disse che non poteva darmi il suo appoggio: se succedeva qualcosa con che faccia, mi disse, avrebbe potuto tornare dai responsabili del carcere, con cui aveva sempre contatti? Questo, mi sembra, era il punto, e glielo dissi. Se lui (che entrava ed usciva liberamente dal carcere) aveva "timore reverenziale" verso la direttrice e le guardie, come pensava potessero vivere i detenuti? Quali limiti possono esistere per persone che vivono in un rapporto di inferiorità palese rispetto all’amministrazione del carcere? Inutile aggiungere che la fiaccolata non fu fatta…
Ma, immagino, questo non vuol dire che tu ti fermi nella tua battaglia… Guarda, io lo dissi sinceramente al Dott. Pennisi: "non provi ad archiviare; avevo solo quel figlio, e non ho più nulla da perdere"… No, non lascio correre una cosa così. È troppo grossa, non è da me…
A proposito del seguito che potrà avere la vicenda, riporto quanto ha affermato l’avvocato Vittorio Trupiano: "Il figlio di Maria, per la storia di cui suo malgrado è stato protagonista, è ora patrimonio di tutta l’umanità. Io di questa turpe storia giudiziaria sono stato anche testimone per cui, con o senza Maria, nessuno mi impedirà di portarla avanti al C.S.M., alla Corte Europea, alla Commissione antitortura in forza a questa, e davanti ai giudici di Genova competenti a giudicare i loro colleghi di Livorno se qualcuno li denuncia penalmente". Ringrazio Maria Ciuffi e l’Avvocato Vittorio Trupiano per la pazienza e la disponibilità che mi hanno concesso. Gli auguro che la loro battaglia di verità e giustizia possa avere pieno successo; e questo sia per quanto concerne il risalto mediatico che merita la vicenda, sia per quanto attiene i risultati pratici presso le sedi competenti.
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