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Morte di Marcello Lonzi: il testo della contro perizia
Dott. Marco Salvi (Specialista in medicina legale, dottore di ricerca in scienze medico forensi, dirigente medico dell’unità operativa di medicina legale Azienda Usl 3 "Genovese" - Genova)
Consulenza medico legale di parte Oggetto: Procura della Repubblica di Genova Proc. 22302/05/44
Il sottoscritto, su incarico della parte offesa nel procedimento penale di cui all’oggetto, dichiara di aver esaminato la documentazione medico legale relativa al decesso di Lonzi Marcello nato a Livorno il 25/10/1973 e ivi deceduto, presso la Casa Circondariale, in data 12/07/2003. Scopo del presente incarico era quello di esprimere un parere tecnico motivato in merito alle circostanze, le cause ed i mezzi della morte del soggetto, tenuto conto delle indagini di sopralluogo disponibili e degli accertamenti necrosettori eseguiti dal medico legale Dott. A. Bassi Lucani, quale Consulente tecnico del Pubblico Ministero di Livorno. A tal fine la signora Maria Ciuffi, madre di Marcello Lonzi mi produce in visione la seguente documentazione: 1) Fotocopia di relazione di consulenza tecnica medico legale, a firma del Dott. A. Bassi Lucani, costituita da n. 20 pagine con allegate n. 39 rilievi fotografici. 2) N. 11 riproduzioni a colori di rilievi fotografici eseguiti in sede di sopralluogo. Dall’analisi dell’elaborato medico legale del Dott. Bassi Lucani e delle foto relative allo stato dei luoghi emergono alcune perplessità che il sottoscritto ritiene di dover considerare. Secondo quanto riportato in consulenza il signor Lonzi Marcello di anni 30, senza patologie degne di nota in anamnesi se si esclude uno stato di tossicodipendenza da oppiacei e cocaina, per il quale si era sottoposto, durante la detenzione, a trattamento sostitutivo con metadone a scalare, nel tardo pomeriggio dell’11.7.2003 accusava un improvviso malore in cella, con conseguente caduta al suolo e decesso pressoché immediato. A tale riguardo il CT del PM, che presenziò alle indagini di sopralluogo ed alla prima ispezione del cadavere, scrive in consulenza che gli era stato riferito come i fatti fossero avvenuti poco prima delle 18,50 (cfr. pag. 2 della Consulenza tecnica). Peraltro, successivamente riporta il referto del medico di guardia, il quale dichiara di aver ricevuto la richiesta di intervento alle ore 19.50. Una successiva constatazione di decesso verrà stilata dal medico del 118 alle ore 20.14. Comunque sia il medico di guardia in carcere, Dott. Orlando, rinviene il detenuto "riverso bocconi con tracce di sangue intorno alla testa". Le condizioni cliniche denotano uno stato di arresto cardiorespiratorio con conseguente midriasi ed assenza di polso carotideo. Vengono refertate manovre di rianimazione cardiopolmonare (MCE + respirazione bocca a bocca + farmaci + defibrillatore) ma la cavità orale e le vie aeree erano ostruite da materiale alimentare, che non era stato preventivamente aspirato (?!). Inoltre il Dott. Bassi non rileva segni di cardioversione elettrica sulla cute del soggetto, come sarebbe stato logico attendersi in caso dell’utilizzo di un defibrillatore. Non è dato sapere se al soggetto sia stato applicato un monitor ecg per poter valutare l’indicazione ad una defibrillazione elettrica, né se presso la struttura sanitaria della Casa C.le di Livorno siano disponibili dei defibrillatori semiautomatici in grado di testare l’attività elettrica del soggetto e di suggerire al soccorritore l’applicazione della scarica elettrica. Sta di fatto che le riferite manovre rianimatorie, prescindendo dalla loro tempestività e appropriatezza, non sortivano comunque l’effetto sperato. Se questo è il primo aspetto che lascia perplessi, di certo lo stato dei luoghi, la posizione del cadavere e la presenza di multiple lesioni traumatiche non depongono per un improvviso malore con caduta al suolo e decesso del paziente. Ma andiamo per ordine. Il corpo del Lonzi, come emerge chiaramente dalle foto disponibili, si presenta la testa ad ostruire la chiusura della cella. In questa posizione risultano notevolmente ostacolate le manovre rianimatorie, compresa la riferita respirazione bocca a bocca con associato massaggio cardiaco esterno, da parte del medico di guardia. Non è possibile credere che il sanitario abbia posto il corpo in quella determinata posizione per iniziare le manovre rianimatorie, stante l’evidente difficoltà ad attuarle in quelle condizioni. Se poi il "malore improvviso" è avvenuto in cella e la stessa era chiusa, come ha fatto il soggetto a trovarsi in quella posizione? Se il soggetto non fa altro che accusare il malore, perdere conoscenza e cadere al suolo senza meccanismi di difesa, come mai a distanza dal corpo e ben lontano dalla porta della cella si osserva un cestino di plastica in frantumi, di cui la parte ancora integra posizionata su quello che sembra uno sgabello? Come ha fatto a frantumarsi il cestino durante la caduta al suolo del Lonzi? Il Dott. Bassi Lucani da atto delle indagini di sopralluogo, cui ha presenziato la sera del 11 luglio 2003 (ritengo doversi trattare di un lapsus calami quanto egli scrive a pag. 4, vale a dire che le suddette indagini ebbero inizio alle 10,45 del 12.7.2003). Vengono descritti i luoghi teatro dell’evento e le condizioni del cadavere. A modesto parere dello scrivente, non sembra siano state analizzate con la dovuta attenzione le innumerevoli macchie di sangue presenti, facilmente evidenziabili anche solo dai rilievi fotografici. Non risulta, infatti, che sia state riscontrate le strutture rigide dove il soggetto avrebbe urtato al momento della caduta al suolo. Stante la grossolanità delle lesioni non è possibile ipotizzare che non abbiano lasciato traccia sull’oggetto, struttura, manufatto o infisso che ha agito da mezzo contundente. .. Il consulente tecnico, al riguardo, non pare aver dedicato la dovuta attenzione all’argomento ma scriverà, in seguito, genericamente di un unico urto contro un qualcosa della cella senza però cercare un riscontro a tale ipotesi. Lo stesso numero delle lesioni, la loro disposizione cutanea e morfologia avrebbero dovuto consigliare un maggiore approfondimento dell’indagine di sopralluogo. Se noi, però, osserviamo le fotografie disponibili, delle domande sorgono spontanee, anche al medico legale meno esperto. Come mai ci sono abbondanti tracce ematiche al di fuori della cella? Il soggetto dove si trovava al momento del malore? Il corpo se è stato spostato per permettere i soccorsi perché viene rinvenuto in quella posizione? In una fotografia, che si allega contrassegnata dal sottoscritto con il n. 1, risulta evidente l’imbrattatura ematica al di fuori della cella con chiari aspetti di "strisciatura" che, relazionati alla presenza di ferite sanguinanti al capo del soggetto fanno, in prima ipotesi, ritenere che il corpo supino sia stato trascinato all’interno della cella. Se invece queste macchie fossero dovute a contaminazione da parte dei soccorritori all’interno della cella avremmo dovuto riscontrare delle impronte per apposizione. La diagnostica differenziale utilizzando una foto non risulta agevole. È doveroso, però, chiedersi se nel fascicolo fotografico in atti, relativo al sopralluogo, siano state valutate le suddette ipotesi alternative e se siano state documentate da distanza ravvicinata queste imbrattature ematiche. Peraltro non sono queste le macchie di sangue più anomale, quanto quelle che sembrano apprezzarsi a sinistra della porta della cella, sempre al di fuori della stessa, (foto contrassegnata con n. 2 ed allegata alla presente relazione). Trattasi di gocciolature ematiche? Sarebbe opportuno disporre di un rilievo fotografico da distanza ravvicinata. Al sottoscritto non sembrano però presentare caratteristiche di movimento. Questa forma caratteristica si realizza, infatti, quando il sangue fuoriesce da una ferita e cade al suolo senza proiezioni di moto, vale a dire da un corpo sostanzialmente fermo in posizione eretta. Ma se quelle macchie sono di sangue e quel sangue (repertato?) appartiene al Lonzi come ha fatto lo stesso ad accusare un malore in cella e cadere al suolo poco prima di morire urtando contro un qualcosa? Il malore dove è occorso al soggetto dentro o fuori la cella? e, soprattutto, dove ha urtato il soggetto visto che, prima di cadere ha avuto la possibilità ancora di gocciolare del sangue da una posizione eretta. Il quadro circostanziale, che poteva inizialmente sembrare coerente con le testimonianze, alla luce delle tracce osservate non risulta più così lineare. Sarebbe a questo punto più che opportuna una adeguata ricostruzione di quanto possa essere accaduto nei momenti antecedenti la morte del soggetto. Gli aspetti medico legali che contribuiscono ulteriormente a suscitare perplessità ed a sconsigliare di condividere una siffatta ricostruzione degli eventi, risultano essere le lesioni traumatiche presenti al capo del soggetto e quelle osservabili al dorso. Una prima considerazione: se, come si afferma il soggetto è semplicemente caduto al suolo a seguito di malore di natura cardiaca, come mai presenta delle lesioni contusive al dorso? Nelle foto n. 15 e 16 allegate alla consulenza tecnica del Dott. Bassi Lucani si osservano, infatti, delle soffusioni ecchimotico escoriate, di forma allungata, in regione scapolare sinistra, lombosacrale e glutea destra. Trattasi, verosimilmente, di lesioni traumatiche superficiali sulle quali si sono successivamente sovrapposte le abbondanti macchie ipostatiche, ma che sono evidenti nelle foto eseguite in carcere al momento del sopralluogo. Queste lesioni non sono state però descritte dal consulente d’ufficio, né misurate. Una precoce incisione cutanea avrebbe potuto documentare l’epoca di formazione delle lesioni e l’estensione dello stravaso ematico. Evidente come questa lesività traumatica, ancorché modesta, non sia però compatibile con una caduta in avanti del soggetto colto da malore. Sono, altresì, del tutto incompatibili con urto del capo contro le strutture rigide della cella, le lesioni osservabili al volto del soggetto. Prescindendo dalla superficie contro la quale il soggetto avrebbe urtato, non è comunque possibile che si determinino lesioni come quelle osservate sul cadavere del Lonzi. Generalmente la parte più sporgente del volto urta contro la superficie, rigida e dotata di spigolo vivo, che cagiona la discontinuazione della cute. Normalmente è il sopracciglio, piuttosto che il naso o il mento, ovvero la regione nucale per le cadute all’indietro. Nel caso in cui l’urto avvenga direttamente sul pavimento, la cute si lacera secondo la disposizione delle fibre elastiche, l’azione dilacerante delle strutture ossee sottostanti dotate di angolo acuto (arcata sopraccigliare, ramo mandibolare) e le linee di minor resistenza. In questo caso non si osserva nessuna riproduzione morfologica del mezzo contusivo. Nel caso in esame, invece, la particolare profondità delle ferite, la loro morfologia (le due ferite alla fronte raggiungono il piano osseo rastremandosi quasi a cuneo) e la loro molteplicità, ancorché poste su di un’unica linea immaginaria, impediscono di ritenere che si sia trattato di un unico urto contro una struttura rigida al momento della caduta al suolo. Nella cella, inoltre, non sono state ritrovate strutture con caratteristiche morfologiche idonee a cagionare questo tipo di ferite e, soprattutto, non sono state documentate apposizioni di sostanza biologica su di un qualche manufatto. Che tali lesioni si siano prodotte con l’urto del soggetto sul pavimento non è infatti ipotizzabile, per morfologia, numero e disposizione delle lesioni stesse. La semplice caduta in avanti di un soggetto, privo di conoscenza, non è però sufficiente a far sì che acquisisca energia cinetica tale che, urtando contro "un qualcosa" di rigido e statico, si vadano a determinare lesioni cutaneo muscolari così profonde. Per escludere eventuali fratture a carico dello splancnocranio sarebbe stato, inoltre, opportuno eseguire dei rilievi radiologici, cosa che non è stata però fatta. Nella mia casistica personale, di alcune centinaia di morti improvvise con caduta al suolo nelle circostanze più disparate, e nella letteratura medico legale non esistono casi di soggetti che perdono i sensi e cadono al suolo procurandosi tre distinte lesioni contusive, oltretutto di quella forma e profondità. Nel caso in esame, pertanto, a fronte di una evidente ed assoluta anomalia delle lesioni riscontrate sul soggetto, nulla è stato fatto per repertare e documentare sul luogo dei fatti la "struttura contusiva" priva di forza viva ma di forma così particolare, capace con "un solo urto" di cagionare tre distinte lesioni lacero contuse. A tali lesioni del volto dobbiamo aggiungere, inoltre, la frattura della II costa sinistra, che si trova in parte protetta dalla clavicola e che non può fratturarsi in quella posizione per una caduta al suolo o per un urto contro un qualcosa, così come non si frattura isolatamente nel corso di un massaggio cardiaco su soggetto giovane e quindi con gabbia toracica elastica. Ci troviamo, pertanto, di fronte a lesioni traumatico contusive rilevanti ai fini della ricostruzione dei fatti cui, però, non è stata data una spiegazione circa i meccanismi di produzione. Il fatto che, apparentemente, tali lesioni non abbiano svolto un ruolo causale diretto nel determinismo della morte, non può essere considerata una giustificazione, sia perché trattasi di un soggetto deceduto in carcere, sia perché l’evento traumatico di cui è stato vittima può agevolmente aver instaurato la sofferenza cardiaca acuta che lo ha portato a morte. Circa le risultanze autoptiche, si può concordare con il consulente tecnico Dott. Bassi Lucani, laddove ipotizza una genesi cardiaca alla base dei meccanismi fìsiopatologico della morte del soggetto. In presenza però di lesioni macroscopiche, tutto sommato modeste, a carico dell’apparato cardiovascolare (basti considerare che un cuore del peso di 370 gr. in un soggetto alto 183 cm di normale complessione scheletrica, deve ritenersi sostanzialmente nel range di normalità) era doveroso far seguire all’esame autoptico le più complete indagini istomorfologiche, istochimiche e microbiologiche, al fine di suffragare l’ipotesi etiopatologica iniziale, tanto più in assenza di lesioni traumatiche agli organi interni e di ulteriori alterazioni anatomopatologiche significative e macroscopicamente evidenti. Tali indagini non sono state, inspiegabilmente eseguite, così come non sono stati eseguiti gli esami chimico tossicologici. Devo, peraltro, ritenere che siano ancora nella disponibilità del consulente tecnico, adeguatamente conservati, tutti i prelievi biologici eseguiti in corso di necroscopia. Alcuni esami, peraltro, vanno allestiti a fresco (colorazioni istochimiche per documentare l’ischemia cardiaca) ovvero nell’immediatezza dell’indagine necroscopica (esami colturali microbiologici) e non potranno, evidentemente, più essere eseguiti. Alla luce dello stato dei luoghi, delle particolari circostanze ambientali teatro dell’evento, delle lesioni traumatiche presenti sul corpo del soggetto e delle risultanze autopsiche disponibili, risulta del tutto ragionevole ritenere che la morte del soggetto possa essere stata determinata da un’acuta defaillance cardiaca (su base aritmica, ischemica non è dato saperlo stante l’incompleta indagine autopsica), quale conseguenza di un evento traumatico facilmente associabile ad un evento psicostressante. Se, infatti, le lesioni riscontrate sono incompatibili con la caduta al suolo del soggetto colto da un attacco cardiaco, dobbiamo necessariamente ritenere che i fatti in esame siano andati diversamente e che il soggetto sia stato vittima di un aggressione. In tale contesto non è possibile escludere una particolare abnorme reazione dell’individuo a stimolazioni vaso-vagali o asfittiche (glomi carotidei, fascio vascolonervoso del collo, plesso solare) che possono essere sottese a meccanismi contusivi o di compressione del corpo, posti in essere anche solo nell’applicazione di tecniche di immobilizzazione. Quantunque il trauma fisico possa essere valutato di modesta entità, l’evento in sé, non potrebbe però certo essere considerato banale dal punto di vista degli stimoli emotivi, pur prescindendo dalla reattività del singolo soggetto. Saremmo, pertanto, dinnanzi ad un evento psicostressante, qualificabile altresì come una situazione ad impronta emotiva. Le lesioni da energia biodinamica sono indotte dai cosiddetti traumi psichici. Per energia biodinamica si intende la complessa reazione dell’organismo a stimoli esterni, a chiaro contenuto emotivo, che agiscono sui centri nervosi superiori, determinandovi modificazioni neuro-trasmettitoriali ed endocrino-metaboliche che interferiscono con l’equilibrio psicofisico. Trauma psichico è, in senso lato, ogni alterazione delle funzioni psichiche in conseguenza di azioni violente non dotate di apprezzabile energia fisica, improvvise o reiterate, che agiscono sulla psiche dell’individuo. Esempio quanto mai chiaro di intensa reazione ad una forte emozione è rappresentato dal quadro clinico della sincope vaso-vagale, determinata da una subitanea ed intensa attività simpatico-adrenergica reattiva. Per quanto riguarda i rapporti tra arteriosclerosi coronarica - trauma psichico - morte improvvisa è possibile considerare quanto segue. La malattia è in genere presente da mesi o da anni prima dell’episodio traumatico. È indiscutibile il fatto che l’eventuale trauma non possa aver giocato alcun ruolo causale nella genesi del processo morboso coronarico. Inoltre non è questo il caso in cui il fattore traumatico possa essere accusato di indurre una modificazione peggiorativa dello stato anatomico delle coronarie. Se le condizioni del circolo coronarico sono già compromesse, e non era il caso del signor Lonzi, può essere ragionevolmente ammesso che la morte si sia verificata in coincidenza con l’episodio traumatico. All’opposto, può peraltro essere ipotizzato che la modificazione dello stato dei vasi coronarici possa essere intervenuta causando un critico aumento del consumo di ossigeno in un cuore già compromesso e dotato di scarsa riserva coronarica, in relazione allo stress fisico ed emozionale che accompagna un episodio traumatico. Può essere chiamata in causa la risposta adrenergica di "assalto o fuga" ed è comunemente ammesso che la secrezione endogena di catecolamine può indurre in un cuore predisposto una fibrillazione ventricolare o un’ischemia cardiaca ovvero un arresto. Il fatto che una persona si trovi in cattive condizioni di salute e possa decedere anche in seguito ad un trauma di minima entità non assume rilievo giuridico, se la morte è comunque il risultato di un’azione illecita attuata contro il soggetto. Ciò specialmente se viene rigorosamente applicato il principio della conditio sine qua non nell’analisi del rapporto causale (l’eventuale tossicodipendenza come fattore di rischio per morte improvvisa cardiaca appare poi argomento non condivisibile anche alla luce delle risultanze autopsiche). Tuttavia la malattia coronarica è così diffusa che la relazione causale con il trauma deve essere adeguatamente dimostrata al di là del mero rapporto di stretta consequenzialità temporale. È infatti scientificamente meglio comprensibile, sotto il profilo della causalità materiale, che il decesso si verifichi non immediatamente dopo un’aggressione, ma dopo un periodo di tempo caratterizzato per esempio da ipertensione arteriosa che può aver contribuito all’insorgenza di un’ischemia in un miocardio già compromesso da stenosi coronarica. Non è solo un trauma fisico che può precipitare la comparsa di un’acuta insufficienza cardiaca ma, come precedentemente detto, anche lo stress emozionale che accompagna un trauma o una minaccia o uno spavento. Da un punto di vista fisiologico (e fisiopatologico) giova ricordare che la risposta da stress si caratterizza per l’attivazione di due principali meccanismi: attivazione dell’asse ipotalamo-neuroipofisi-surrene, attivazione del sistema nervoso autonomo. Ne deriva una serie di modificazioni dell’organismo caratterizzate da iperstimolazione della sostanza reticolare centroencefalica con aumento della reattività agli stimoli, pronta immissione in circolo di catecolamine ad azione lipolitica ed inotropa cardiaca con subitaneo rialzo glicemico determinato dai glicocorticoidi, ridistribuzione del circolo ematico con prevalenza irrorativa muscolare, encefalica e cardiaca, aumento della pressione arteriosa, aumento della frequenza del respiro. Lo stress è la risposta dell’organismo a stimoli di varia natura. Gli stimoli più importanti sono rappresentati, nell’uomo, dalle interazioni psicosociali e dalle elaborazioni intrapsichiche di questi stimoli. Lo stress si manifesta a sua volta attraverso comportamenti, vissuti emozionali e modificazioni di tipo biologico. La qualità e la quantità della risposta, nonché il rapporto tra espressione comportamentale e biologica, dipendono dal significato attribuito dal sistema cognitivo dell’individuo agli stimoli. Lo stress indotto da stimoli emozionali può essere definito come una reazione aspecifica dell’organismo ai condizionamenti che agiscono sullo stesso. Si tratta di una reazione sistemica, in quanto coinvolge l’organismo nella sua interezza somato-psichica, ed è fondamentalmente utile, perché permette un miglior adattamento dell’individuo di fronte a circostanze sfavorevoli (cfr. P. Pancheri, Nozioni pratiche di psicosomatica, Fed. Med. XLII, 2, 101, 1989). La risposta dell’organismo ad un evento stressante varia da persona a persona: stimoli capaci di mettere a dura prova un individuo possono essere poco risentiti da un altro. Ciò significa che l’organismo, pur rispondendo allo stress secondo uno schema biochimico e viscerale stereotipato, varia l’entità e il grado della risposta, la quale, solo se supera un limite (differente da soggetto a soggetto) può sconfinare in un quadro francamente patologico (cfr. I. Richichi, M. Ochan Kilama, Stress e infarto miocardico, una metodica per sopravvivere, Ed. Ponzio, Pavia 1991, p. 16). Questa reazione avviene attraverso tre sistemi effettori, che traducono le modificazioni di stato funzionale del cervello in modificazioni di stato funzionale biologico periferico: essi sono rappresentati dal sistema nervoso vegetativo, dal sistema neuroendocrino e dal sistema immunitario. Il sistema neuro-vegetativo, in particolare, presiede alla produzione di catecolamine (adrenalina e noradrenalina), che gli stimoli stressanti attivano attraverso i gangli simpatici e le fibre simpatiche, fino agli effettori viscerali (cuore, vasi, muscoli, intestino, reni, cute) e alla midollare del surrene. Corrispettivamente all’attivazione di tali fattori, nello stress emozionale si instaurano modificazioni ematochimiche periferiche, sostanzialmente contraddistinte da: aumento del glucosio plasmatico, degli acidi grassi non esterificati, del colesterolo, dei trigliceridi, dei fattori di coagulabilità. A tale riguardo sono state condotte specifiche ricerche per studiare la correlazione tra stress psichico acuto ed ischemia miocardica in soggetti con malattia coronarica nota all’anamnesi comparativamente con gli effetti ischemici indotti da normali esercizi fisici. In uno studio compiuto presso l’University of California di Los Angeles (cfr. A. Rozansky et al., Mental stress and the induction of silent myocardial ischemia in patients with coronary artery disease, N. Engl. J. Med. 318, 1005, 1988) al fine di stimare l’eventuale relazione causale tra i predetti elementi gli Autori conclusero che lo stress mentale può essere un importante fattore "scatenante" di un’ischemia miocardica - spesso silente - in pazienti con coronaropatie. Da questi studi, come da altri pubblicati in letteratura, emerge quindi che nei soggetti con anamnesi positiva per patologie cardiovascolari (coronaropatie, miocardiopatie, ipertensione etc) esiste una frequente correlazione tra stress mentali ed ischemia miocardica transitoria insorgente, negli studi effettuati, durante l’applicazione dello stress o entro poco tempo. Sebbene, dalle considerazioni sopra esposte, emerga compiutamente la dignità lesiva del trauma psichico anche in prospettiva concausale letifera permane, nel caso in esame, la necessità di una prova storica, diagnostica e valutativa medicolegale, dell’esistenza di un sia pur minimo rapporto eziologico, non accreditabile sulla base di meri pareri di attendibilità o di verosimiglianza. In definitiva la questione focale dell’attuale indagine non riguarda tanto la natura del decesso: le risultanze autoptiche non concedono purtroppo molto spazio ad ulteriori interpretazioni, quanto piuttosto la valutazione del rapporto di causalità materiale tra l’evento traumatico ed il decesso, posto che le lesioni riscontrate sul volto del soggetto non sono ascrivibili ad una caduta dello stesso al momento della morte, con ipotetico urto contro strutture rigide. Si tratta di un problema di specifica competenza medicolegale che richiede per la sua soluzione il rispetto di una metodologia investigativa che è il nodo essenziale della nostra Disciplina e che differisce da quella propria di altre discipline mediche in rapporto alla peculiare natura della Medicina Legale, ponte tra la biologia dell’uomo e il Diritto, che deve piegarsi alle esigenze di questo senza venir meno alle ragioni scientifiche di quella. Alla consolidata dottrina medico legale ed alla sua metodologia investigativa farà costante riferimento anche il sottoscritto, per la formulazione di un parere tecnico che sia correttamente motivato sotto il profilo scientifico e nel contempo non offra spazio a ipotesi di aprioristiche prese di posizione personali. Non è d’altra parte superfluo richiamare l’attenzione sulla necessità di ribadire principi concettuali e metodologici in una materia assai spesso ispirata ad una acritica applicazione del criterio "post hoc ergo propter hoc" o a fantasiosi convincimenti per cui ciò che è solo possibile diventa probabile, molto probabile o addirittura certo. La struttura del procedimento di analisi, cui segue in sintesi finale il parere medico legale, si avvicina a quello clinico perché, i contenuti essenziali non possono che essere biologico-medici, ma già all’inizio il procedimento medico legale di diagnosi etiologica si differenzia spesso da quello clinico non perché vi si formulino ipotesi non contemplate dalla clinica, ma perché, si pone l’accento su aspetti che per il clinico possono essere marginali. I differenti obiettivi che sin dall’inizio, cioè al momento della formulazione dell’ipotesi o del sospetto diagnostico etiologico, si delineano tra l’attività clinica e quella medico-legale sono particolarmente evidenti in tema di malattie post-traumatiche, termine con il quale si è soliti indicare una condizione morbosa che, nella sua comparsa o nel suo decorso, è in rapporto causale o concausale valutabile con un meccanismo traumatico violento della natura più diversa (cfr. per tutti Franchini A.: Medicina legale, Ed. Cedam, Padova, 1985). In questi casi infatti, dopo l’ovvio quesito diagnostico, comune al clinico, sulla natura della malattia, si propone il quesito della dipendenza etiologica da una causa violenta di rilevanza giuridica che impegna il perito in maniera ineludibile. Ed in tale impegno ci si accorge di quanto ultimative siano le questioni etiologiche sotto il profilo medico legale quando non è possibile sfuggirle passando oltre, come avviene di frequente nella clinica con le terapie sintomatiche, ad "ampio spettro", "ex juvantibus", ecc. In sede medico-legale persino per malattie di cui è notoriamente sconosciuta l’origine (neoplasie, schizofrenia) si pone spesso il problema di un eventuale dipendenza da cause traumatiche giuridicamente rilevanti. Molto opportunamente Franchini (loc.cit), accanto ai casi di rapporto causale evidente, come nel caso delle lesioni direttamente prodotte dal trauma, ricordava le perplessità sollevate da alterazioni morbose comparse a distanza, anche breve, dal trauma e, altre volte, rapporti trauma-malattia assai più evanescenti tanto da non consentire scientificamente giudizi che superino i limiti della semplice verosimiglianza. Per questi motivi è opportuno non trascurare la possibilità di modulare il parere tecnico dal certo al probabile, al possibile, all’incerto, all’indimostrabile fino al sicuramente impossibile. D’altra parte, su un piano teorico e generale, si potrebbe affermare che in nessuna malattia si può escludere aprioristicamente un rapporto quanto meno concausale (in concorso cioè con altre condizioni etiopatogenetiche di comune significato) con un trauma. Non è infatti superfluo ricordare che, nella anamnesi personale patologica remota di chi è affetto da una qualunque malattia, è sempre possibile, ed anzi frequente, rintracciare un evento traumatico della più diversa natura e di entità più o meno grave, ma che non per questo ad esso deve essere attribuito un significato etiopatogenetico apprezzabile e valutabile. I noti criteri di giudizio in tema di causalità materiale, sviluppati dalla dottrina medico-legale italiana, sono l’indispensabile strumento di verifica di ogni ipotesi etiopatogenetica di rilievo medico legale e sono stati formulati, essenzialmente, per dare ordine metodologico alla elaborazione di dati della più svariata natura utili per giungere a diagnosi etiologiche, in quei casi in cui il rapporto causale non risulta di immediata evidenza. Di fatto il loro obiettivo è consentire un giudizio di probabilità nell’impossibilità di formulare un giudizio di certezza. Preliminare ad ogni altro è il criterio della possibilità scientifica che coincide con il criterio di idoneità o adeguatezza lesiva. È in effetti pregiudiziale alla prosecuzione stessa dell’indagine la verifica della possibilità scientifica che un determinatoevento tramautico, nel nostro caso colluttazione/aggressione - reazione da stress psichico, tenuto ovviamente conto delle peculiari circostanze del caso e delle eventuali concause preesistenti, simultanee o sopravvenute, sia stato in grado di produrre la conseguenza di danno considerata (decesso per morte improvvisa cardiaca). È di tutta evidenza che, se la verifica della possibilità scientifica di azione causale o concausale dell’agente giuridicamente rilevante si conclude con l’affermazione "si può escludere", il caso è definito negativamente sul piano del rapporto causale. Se invece l’indagine sulla possibilità scientifica porta a "non potersi escludere", il caso dovrà essere affrontato alla luce degli altri criteri e il pur sempre teorico agente etiologico di rilievo giuridico dovrà essere comparato con altre ipotesi: e non è affatto detto che il procedimento diagnostico differenziale si concluda a suo favore potendo risultare insufficienti i dati probatori a suo sostegno e convincenti per contro quelli a favore di altre cause estranee agli interessi processuali. È opinione del sottoscritto consulente che, se si esamina il caso oggetto del presente incarico alla luce delle considerazioni fin qui svolte, sussiste la possibilità scientifica che l’alterazione psichica abbia comportato un aumento del tono neurovegetativo (adrenergico) con conseguente aumento di tutti i parametri di coagulabilità, della frequenza cardiaca e quindi del consumo d’ossigeno a livello miocardico determinando, in questo modo, degli spasmi coronarici su di un substrato patologico preesistente, che può ben spiegare l’instaurarsi di aritmie con rientri "letali". Una sola altra ipotesi, a mio parere, può essere formulate nel procedimento diagnostico differenziale e cioè: che il "trauma" non abbia avuto ripercussioni sostanziali sull’organismo del signor Lonzi che a sua volta presentava, al momento dei fatti, un quadro patologico cardiaco già in ineluttabile evoluzione verso l’exitus. Nella seriazione causale che ha portato all’evento morte improvvisa cardiaca si sarebbe così introdotto, secondo questa ipotesi, un fattore (emozionale e microtraumatico) assolutamente destituito di qualunque potenzialità lesiva ed assolutamente insufficiente a cagionare l’evento. Assumere, in questo caso, l’evento traumatico a momento causale sarebbe come cadere nella tentazione di valorizzare l’azione dell’uomo che sfiora appena una serie causale già in atto e già pronta a concludersi nell’evento, vale a dire autonomamente efficace in senso letifero, senza che sia necessario immaginarsi interventi esterni, uguali o simili a quello di rilievo giuridico. In tal senso è certamente giusto che anche il minimo elemento che può aver influito come fattore morbigeno, sia pure solo predisponente ed occasionale, venga preso in considerazione dalla clinica nell’iter diagnostico differenziale, ma il campo di valutazione medico-legale è più ristretto e diverso. Non si tratta infatti di una teorica esposizione di possibilità, nessuna esclusa, bensì della valutazione nel singolo caso della loro importanza relativa. Il rapporto causale non può essere infatti solo ipotetico, ma deve essere concreto, reale o almeno probabile. Tra la dimostrazione della assoluta certezza e la affermazione di una mera possibilità, vi sono pertanto numerose tappe di passaggio: importante è che il parere finale fornito fissi con chiarezza il limite, come in questo caso, del probabile, ove non possa essere affermato quello del certo, in modo da potersi tradurre in un libero convincimento senza forzature ed inganni. Un equivoco tra valutazione clinica e valutazione giuridica, tra possibilità, probabilità, astratta teoria ed evidenza, si risolverebbe in ultima analisi in un difetto nel giudizio. L’eventualità che il soggetto, giovane trentenne privo di rilievi anamnestici significativi ed in apparente buona salute, al momento dei fatti avesse già in atto, seppure da poco, la patologia cardiaca -con decorso paucisintomatico - non appare concretamente ipotizzabile Lungi, infatti, dal voler forzare nella descrizione la potenzialità lesiva dell’evento traumatico, la ricostruzione a posteriori della patologia cardiovascolare e la sua valorizzazione ai fini del criterio della continuità fenomenologica e del criterio cronologico, pur nella evidente difficoltà di ricostruire e documentare compiutamente il processo eziopatogenetico fino a poter comprovare con certezza l’effettiva incidenza di quel singolo e determinato evento stressante sulle particolari condizioni dell’organismo, non appare comunque ragionevole al sottoscritto consulente sostenere la suddetta seconda ipotesi. In conclusione, pertanto, sulla base di quanto emerso dalla doverosa analisi dell’effettivo significato causale dell’azione giuridicamente rilevante, ovvero dell’eventuale sostituibilità della stessa con altre contingenze estrinseche di ordinario accadimento, o addirittura con la semplice, spontanea espressione di preesistenti tare morbose intrinseche, di per loro cariche di immanente significato letifero, il sottoscritto consulente ritiene di poter affermare come ragionevole e probabile una relazione causale tra i fatti traumatici occorsi il pomeriggio dell’11.7.2003, ancora compiutamente da accertare, ed il successivo decesso del Lonzi, Si può, pertanto, sinteticamente affermare quanto segue: 1) La documentazione fotografica disponibile risulta in contrasto con la ricostruzione degli eventi fatta dal Dott. A. Bassi Lucani, consulente tecnico del Pubblico Ministero. 2) L’esame autoptico risulta privo delle opportune indagini radiologiche e laboratoristiche complementari. 3) Le lesioni traumatiche riscontrate al volto e la frattura della II costa sinistra non sono compatibili con una caduta al suolo del soggetto colto da malore, ovvero con l’urto dello stesso contro un ostacolo fisso durante la caduta. 4) Può agevolmente essere dimostrato un rapporto etiologico tra evento traumatico e morte improvvisa cardiaca.
Dott. Marco Salvi
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