Gli "eventi critici" nelle carceri

 

Inchiesta sulle carceri italiane

 

"Eventi critici": maltrattamenti e decessi 2000 - 2001


di Antonio Marchesi

 

Il clima attuale non è dei migliori per chi abbia a cuore i diritti umani. Dall’11 settembre 2001 siamo stati il bersaglio di un martellante, assordante niente è più come prima. Una frase che può significare tutto e il contrario di tutto a seconda del modo e del contesto in cui la si pronuncia e che, comunque, tende a stravolgere la comprensione degli eventi e a facilitare la confusione e il disorientamento, anche di chi è abituato a ragionare con il proprio cervello. Una frase che alimenta un senso di angoscia continua, di paura di cose che non si afferrano, e che porta l’opinione pubblica ad accettare anche ciò che a mente fredda e con animo sereno solo un’esigua minoranza accetterebbe di buon grado.

Nel campo dei diritti fondamentali il niente è più come prima contribuisce a giustificare l’idea che questi non siano poi così fondamentali, che possano essere derogati per una "buona causa". E infatti, puntualmente, sulla stampa americana, qualcuno ha pensato di riaprire il vecchio discorso sulla liceità della tortura in situazioni eccezionali (l’emergenza, ancora lei, utile a rimettere in discussione ciò che veniva dato per indiscutibile e a giustificare l’ingiustificabile).

 

Lasciamo da parte la discussione sulle ragioni che portano a un conflitto, che giustificano o meno il riscorso alla forza armata in date circostanze. Quale che sia l’opinione di ciascuno di noi in proposito, non si può non guardare con preoccupazione agli effetti (mi riferisco ora agli effetti "concreti", del clima già si è detto) che la guerra produce, dentro ma anche fuori dal teatro delle operazioni militari. Vale la pena di ricordare come sull’idea per cui anche in guerra debbano e possano essere rispettate certe regole di condotta si fondi l’esistenza stessa del diritto internazionale umanitario. E che a una logica in parte simile s’ispira il diritto internazionale dei diritti umani quando esclude tassativamente che si possa venire meno, utilizzando la copertura della "guerra totale al terrorismo" o di qualunque altra situazione di vero o presunto "pericolo eccezionale", al rispetto di regole inderogabili e di diritti inviolabili.

 

Il diritto a non subire torture o altri trattamenti o pene crudeli, inumani o degradanti (ma anche il diritto a essere giudicati nel rispetto di certi standard minimi di giustizia e, a nostro avviso, il diritto a non essere condannati a morte) costituisce uno di quei diritti la cui violazione non può essere mai, in nessun caso, giustificata. Una barriera invalicabile, uno scudo impenetrabile deve proteggere l’integrità fisica e psichica di ognuno di noi.

Purtroppo, l’invalicabilità di quella barriera, l’impenetrabilità di quello scudo non sono affatto garantiti. Gli strumenti internazionali di protezione, ormai numerosi e sulla carta piuttosto avanzati, anche se certamente producono risultati utili, non sono in grado in quanto tali di sradicare il fenomeno. E la protezione interna, sempre precaria in molti stati, sembra diventarlo, in certe situazioni e quando prevale un certo clima, anche dove in genere funziona in maniera soddisfacente.

E dunque la tortura, universalmente condannata (ma fino a un certo punto, se vi è chi, negli Stati Uniti, ha sostenuto la sua legittimità nella situazione attuale), è un fenomeno presente in moltissimi paesi, non confinato a situazioni geograficamente e storicamente lontane. Un fenomeno di cui sono cambiati in parte i metodi, gli scopi, le vittime, ma che, rinnovandosi, continua ad esistere. Un fenomeno antico e moderno, dunque, multiforme e complesso, un miscela di brutalità medievali e di tortura "pulita", che si avvale dei progressi della tecnologia e della medicina, che talvolta non si propone più neanche di provocare dolore in chi la subisce, bensì di distruggere le proprie vittime, annientandole, rendendole incapaci di pensare liberamente e di resistere in nome dei propri ideali o anche, semplicemente, di conservare la propria identità, di essere se stessi. Una prassi, quella della tortura, per lo più nascosta ma anche una prassi che qualcuno crede talvolta di potere presentare, utilizzando argomenti di facile presa su un’opinione pubblica opportunamente preparata, come il male minore.

 

Per quanto riguarda la situazione italiana, i fatti accaduti a margine del G8 di Genova avrebbero dovuto, già prima dell’11 settembre, mostrare pure a chi è normalmente poco attento a questi problemi come il rispetto assoluto dell’integrità della persona umana, anche se per la maggioranza dei nostri agenti di polizia e dei nostri carabinieri è fuori discussione, non sia parte del patrimonio genetico delle nostre forze dell’ordine. E avrebbe dovuto rendere evidente, credo, anche l’arretratezza culturale di parte significativa delle nostre forze politiche italiane, le quali non hanno compreso l’importanza di una reazione forte (e al tempo stesso equa: non si chiede, ovviamente, di generalizzare le colpe o di colpire nel mucchio) di fronte a quelle che solo se avvengono altrove, magari nei "paesi meno sviluppati del nostro", vengono chiamate con il loro nome: gravi violazioni dei diritti umani.

È questo aspetto, al di là dei fatti specifici sui quali esiste ormai in libreria e su internet (si veda, tra gli altri, il sito di Amnesty International) un’abbondante letteratura, che deve mettere in guardia chiunque abbia a cuore in diritti umani, che deve spingere gli attivisti, proprio perché il clima non è favorevole, a portare avanti la loro azione e a far sentire la loro voce.

 

Di fronte a questo stato di cose, ci permettiamo di suggerire, senza alcuna pretesa che non sia quella di stimolare la riflessione e la discussione, alcuni elementi di una possibile strategia.

In primo luogo, occorre lavorare perché nel nostro paese, in particolare nelle istituzioni e nella pubblica amministrazione del nostro paese, vi sia una migliore conoscenza dei sistemi di protezione internazionale dei diritti umani e, auspicabilmente, un maggiore rispetto per il ruolo che questi, autorevolmente, svolgono. Occorre far comprendere, innanzitutto, che i sistemi di controllo internazionale sul rispetto dei diritti umani sono un elemento fondante dell’idea stessa di diritti umani universali. Il significato epocale della Dichiarazione del 1948, che in mezzo secolo è stata almeno in parte superata nei suoi contenuti specifici, sta proprio nell’idea secondo la quale i diritti che spettano a ciascuno di noi in quanto esseri umani, e non in quanto cittadini di questo o quello stato, devono essere protetti a livello dell’umanità intera. E, allora, affermare, come spesso abbiamo sentito fare, che uno stato come il nostro potrebbe anche fare a meno di un controllo internazionale, di questa specie di "grado ulteriore di giudizio", in quanto già rispettoso, in virtù delle sue leggi e della sua Costituzione, dei diritti fondamentali, significa non aver capito il significato più vero di quei controlli: significa, in particolare, non avere capito che una verifica internazionale sistematica del rispetto dei diritti umani ovunque nel mondo non è un fatto tecnico-organizzativo, più o meno utile o necessario. Quella verifica è l’espressione concreta di un principio: del principio per cui i diritti umani di tutti riguardano tutti. E quel principio, per cui uno stato deve rendere conto a tutti gli altri stati del modo in cui tratta ogni essere umano, a cominciare dai propri cittadini, è la vera grande innovazione della Dichiarazione del 1948.

Per quanto riguarda la dimensione europea vi è un ulteriore aspetto. Nel Preambolo della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 i Governi firmatari si dichiarano "risoluti, in quanto governi di Stati europei animati da uno stesso spirito e forti di un patrimonio comune di tradizioni e di ideali politici, di rispetto della libertà e di preminenza del diritto", nell’adottare misure di "garanzia collettiva" dei diritti umani. Ebbene, ci sembra che, soprattutto in momenti in cui anche certi valori irrinunciabili sembrano correre qualche rischio, si debba rafforzare la nostra identità europea fondandola innanzitutto su quel patrimonio comune di cui si legge nel Preambolo della Convenzione. Nella consapevolezza che non è possibile, a pena di tradire quella identità e di rinnegare quel patrimonio, indebolire certi valori fondamentali, neppure in nome del comune impegno dei paesi occidentali contro il terrorismo. Un esempio concreto di come ciò possa essere fatto: rifiutando di estradare verso gli Stati Uniti chi sia imputato di reati punibili con la pena di morte, anche se si tratta di reati di terrorismo. La lotta al terrorismo va evidentemente condotta con determinazione e rigore, ma con strumenti diversi dalla sedia elettrica o dall’iniezione letale (soprattutto se inflitta da tribunali speciali e senza appello, come previsto nell’ordine militare del Presidente Bush del 13 settembre 2001).

Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico italiano, mi limito a ricordare ancora una volta, avendo già trattato la questione in altra sede (si veda, ad esempio, Limiti alla costrizione, Quaderno di Antigone n.2), l’insufficienza della legislazione in materia. Nonostante ripetute raccomandazioni del Comitato dei diritti umani e del Comitato contro la tortura delle Nazioni Unite, non esiste ancora nel nostro sistema penale un reato specifico di tortura. Ciò non comporta che gli atti di tortura non siano in linea di massima punibili nel nostro paese. Ma non lo sono certo in maniera adeguata alla loro gravità, come dimostrano le pene lievi inflitte ai colpevoli nei relativamente pochi casi in cui si è arrivati a celebrare un processo. E’ auspicabile che le proposte di legge in materia presentate anche in questa legislatura ricevano finalmente dal Parlamento quel po’ di attenzione che il problema sicuramente merita.

 

No man is an island, nessun uomo è un’isola, scriveva John Donne, poeta metafisico inglese. Chi viola i diritti del tuo vicino, anche se quel vicino non ti assomiglia, anche se non lo conosci o non ti piace, indebolisce anche i tuoi diritti. E’ anche su questa semplice verità che si fonda la cultura dei diritti umani, che sono di tutti o non sono di nessuno. E nessuna emergenza, nessuna guerra totale contro il terrorismo, nessuno scontro di civiltà può consentire il superamento di quel limite invalicabile rappresentato dal rispetto per l’integrità e la dignità di ogni essere umano. Sarebbe una sconfitta per l’umanità intera.

 

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