|
Liberi di imparare Quelli che l’università la "fanno" in gabbia di Carlo Giorgi
Terre di Mezzo, febbraio 2004
Sono quattro, a Prato, Pisa, Torino e Alessandria. I "poli universitari carcerari", gestiti da docenti volontari, offrono ai detenuti un’occasione di emancipazione attraverso lo studio. Con risultati sorprendenti: oltre 110 gli studenti iscritti, 12 le facoltà frequentate.
"Quando mi hanno condannato a nove anni racconta Pasquale - il mio avvocato mi ha detto: "abbiamo vinto!". "Siete sicuro, signor avvocato?", gli ho detto io, pensando ai nove anni… Ho deciso di iscrivermi a giurisprudenza per capire perché gli avvocati m’ingannano sempre". Pasquale, 34 anni, napoletano, è dentro quasi ininterrottamente dall’età di 18. Ma in carcere si è dato da fare: ha preso la terza media, il diploma da ragioniere e alla fine, recluso a Prato, si è iscritto all’università di Firenze. Pasquale è uno dei 110 detenuti iscritti, per l’anno accademico 2003-2004, nei quattro "Poli universitari carcerari" italiani che si trovano negli istituti di pena di Prato, Pisa e Alessandria e Torino "Le Vallette". E in due altre carceri dello Stivale, a Catanzaro e a Padova, nuovi poli universitari partiranno entro pochi mesi. Sezioni di reclusione molto speciali, nate dalla collaborazione tra università locali e amministrazione penitenziaria, dove sono ammessi solo detenuti che frequentano gli atenei. Primo a nascere, nel ‘98, è il polo universitario di Torino: "L’idea prese forma alla facoltà di scienze politiche già negli anni 80 - racconta Maria Teresa Picchetto, docente incaricata dal rettore per il polo carcerario -. Diversi di noi andavano nelle carceri per far sostenere gli esami ad eventuali studenti detenuti. Così pensammo di creare una facoltà interna al carcere, dove raccogliere tutti gli iscritti e fare dei corsi veri e propri. Dopo scienze politiche, nel 2000, partì anche la facoltà di giurisprudenza. Oggi gli studenti sono una quarantina, la maggior parte italiani. I corsi si svolgono direttamente in carcere, tenuti da docenti volontari". Il polo di Prato nasce invece nel 2000-2001 grazie ad un’intesa con le università di Firenze. A differenza di Torino, qui sono ammessi studenti di dodici facoltà diverse: da ingegneria a comunicazioni sociali. C’è anche uno studente di teologia. "All’inizio gli studenti erano una decina. raccolti a fatica da tutte le carceri toscane - racconta Ione Toccafondi, direttrice dell’istituto. Oggi abbiamo 22 studenti nel reparto di media sicurezza e una decina all’alta sicurezza. Mentre un’altra ventina sono in lista di attesa o in semilibertà. Quest’anno abbiamo ricevuto almeno cento richieste d’ammissione, da tutt’Italia. Per mancanza di spazio purtroppo ne abbiamo rigettate la maggior parte". Ad Alessandria il polo conta nove studenti (informatica, scienze politiche e giurisprudenza) mentre a Pisa, gli studenti sono una decina, di molte facoltà diverse. Il primo problema di un detenuto che studia è la concentrazione. Massimo, recluso a San Vittore, è iscritto a "Scienze e tecnologie della comunicazione" allo Iulm di Milano. condivide la cella con altri due detenuti che non studiano e hanno ritmi ed esigenze diverse dalle sue: "Nella migliore delle ipotesi si può disporre di un paio d’ore giornaliere di tranquillità spiega -, a parte gli orari serali e notturni in cui, per studiare, si utilizza la minuscola mensolina del bagno come piano d’appoggio. In una bella giornata come oggi, quando il sole riscalda un angolo del cortile, si può anche studiare fuori, nell’ora d’aria". A confronto il Polo universitario e un miraggio: i detenuti studenti lì hanno diritto ad una cella singola, dispongono di aule di studio e aule computer. Gli esami si sostengono all’interno e rimane solo chi riesce a dare almeno tre esami all’anno. I risultati non mancano. "Nel 2002-2003 gli studenti reclusi hanno vinto otto borse di studio - racconta Mara Ceccatelli, la tutor dei corsi -. Quest’anno l’hanno vinta in 20". I poli universitari risolvono alla radice anche altri due problemi viceversa insormontabili per gli studenti reclusi: i costi degli studi e i rapporti burocratici con gli atenei, che è pressoché impossibile tenere da dentro. A Prato le tasse universitarie, i libri e il materiale didattico sono pagati da un’associazione locale mentre a Torino parte delle tasse, comunque ridotte al minimo, sono coperte da un contributo della banca San Paolo, Infine il costante ingresso in carcere di professori, tutor e assistenti cancella ogni possibile problema di comunicazione con le segreterie della facoltà. "Ho cominciato a studiare perché così avrei avuto diritto alla cella singola - ammette Michele, 33 anni, siciliano -. Mi sono diplomato geometra nel carcere di Volterra. Poi mi hanno offerto di iscrivermi all’università. Io all’università? Impossibile, pensavo… Prima ho rifiutato, poi però mi sono iscritto anche se davo gli esami senza crederci. A un certo punto è scattata una molla; mi sono detto: ma io c’è la faccio. Oggi mi mancano 16 esami su 38 totali. Alle volte la sera mi metto a guardare il mio libretto e rimango senza parole". L’esame più bello? "Sociologia della devianza, dove ho preso 30 racconta Michele -. Ho capito cose che avevo vissuto sulla mia pelle. Prima dicevo, non voglio diventare mai padre, perché se mio figlio mi somiglia… studiando ho capito che non sono un mostro e che spesso è l’ambiente a inf1uenzare i comportamenti. Mi ha aperto una nuova prospettiva". "Lo studio ti aiuta - spiega Marco, 34 anni, dentro da 9 anni, iscritto a scienze politiche nel corso di laurea in servizi sociali -. Sono cambiato, adesso ragiono molto di più, ho rivisto tutto il mio passato". E l’Amministrazione ci crede: 12 studenti del carcere di Prato, a dicembre hanno ottenuto il permesso per una gita culturale: tutti agli Uffizi. "È la cultura la più grande soddisfazione - mi dice Francesco, 42 anni, dentro da 10, al terzo anno di corso -. Quando mi hanno mandato al carcere di Prato, non sapevo neanche che fosse in Toscana… la cultura mi dà la possibilità di confrontarmi con gli altri, di non rimanere spiazzato nel parlare di politica o di sociologia. Mi consente di dare delle risposte ai miei ragazzi, quando vengono al colloquio".
Il primo esame non si scorda mai La testimonianza di Maurizio A.
Nel ‘99, dopo sette anni di carcere, mi sono iscritto a Scienze politiche, presso l’università Cattolica. Come primo esame scelsi "Storia contemporanea". Così, chiesta l’autorizzazione al Magistrato di sorveglianza per recarmi in facoltà, fissai la data dell’esame. Era la prima volta che uscivo dal carcere dal momento del mio arresto. La notte prima dell’esame il mio incontro con Morfeo fu piuttosto complicato. Solo poco prima dell’alba riuscii a chiudere gli occhi, ma ormai era già l’ora di alzarmi. Alle nove del mattino vennero a prendermi tre agenti in borghese. Da lì a poco varcavo il portone del Gemelli. Attraversai con passo lento i due chiostri che fanno da cornice allo splendido giardino, così da gustarmi la loro bellezza. Pochi minuti ed eccomi dentro l’aula, pronto per la battaglia. La pressione aumentò quando vidi una ventina di ragazzi che avevano la metà dei miei anni. Mi sentivo un corpo estraneo. Ma che ci faccio io qui?, mi chiesi. I miei pensieri furono interrotti dall’ingresso dei docenti. Fui chiamato per primo e ciò mi creò ancora più imbarazzo. Pensavo: gli altri studenti crederanno che io sia un raccomandato o uno importante, con guardie del corpo al seguito. Macché, l’odore del carcere è duro da mandar via. Di fronte al professore il vuoto mi assalì, l’emozione mi ottenebrava la mente. Altro che Mazzini o Mussolini, non mi ricordavo neppure come mi chiamavo. Per fortuna il docente cercò di mettermi a mio agio. 40 minuti dopo stavo già riattraversando gli aulici chiostri per tornare nel mio monolocale in centro. Prima di entrare nel furgone, assaporai i colori, i palazzi, gli alberi e l’ultimo sguardo al cielo. la belva tornava in cattività. Dimenticavo: l’esame andò bene, presi 30. Un numero che mi perseguita.
Il senato accademico assedia le galere
"II nostro è un assedio alle carceri". Scherza Nedo Baracani, docente incaricato dal rettore dell’università di Firenze per il polo universitario del carcere di Prato. "Nessuno vuole distruggere il carcere, intendiamoci - precisa - ma un polo universitario per sua natura fa entrare nelle case di pena un gran numero di professori, volontari, assistenti e questo costringe la struttura a non chiudersi ed è fondamentale per la crescita delle persone. Il polo universitario è un’esperienza di grande valore che restituisce all’università la sua vocazione. Negli ultimi anni l’università si è mossa verso le necessità delle imprese; invece, per evitare il rischio di una deriva orientata alla produzione, è fondamentale che contemporaneamente l’università consolidi forti legami con le aree di difficoltà del territorio in cui si trova. E il carcere è una di queste. Anche grazie ai poli universitari carcerari, l’università può mantenere fede alla suo missione".
|