La scuola in carcere

 

Saper essere per saper lavorare

La filiera scuola, formazione, lavoro per il carcere

Seminario tenuto a Rimini il 13 dicembre 2003

 

Barbara Bovelacci (Coordinatrice del seminario)

Edoardo Albinati (Scrittore, docente presso il carcere di Rebibbia)

Guido Fontana (Fondazione Enaip di Rimini)

Werther Mussoni (Presidente del Consorzio Sociale Romagnolo)

Massimo Pironi (Assessore alla Formazione della Provincia di Rimini)

La scuola in carcere è il primo momento per la progettazione di un cambiamento di vita e per acquisire un nuovo "saper essere" che faciliti l’inserimento sociale e lavorativo di persone in esecuzione penale. Molti di coloro che entrano in carcere hanno un sistema di valori rigido e una modalità di affrontare la realtà caratterizzata da meccanismi fissi e preconcetti, che derivano dall’esperienza di vita personale.

L’esperienza scolastica è l’occasione per conoscere modalità diverse di affrontare la realtà e di educarsi alla "legalità delle forme", ovvero alla capacità di raggiungere un obiettivo e un risultato attraverso il rispetto delle procedure e delle prassi.

Questo processo si avvia con la scuola e può portare anche alla costruzione di una identità professionale utilizzabile nel mondo del lavoro. Il seminario è stato organizzato per far conoscere l’esperienza di chi insegna in carcere e per riflettere su quali azioni educative e formative agire per acquisire conoscenze e competenze adeguate all’inserimento nel mondo del lavoro.

 

Barbara Bovelacci

 

Insieme ai nostri omologhi di Forma Futuro di Parma e Tutor Spa di Piacenza, due enti formativi della nostra regione, abbiamo promosso un progetto regionale, approvato e sostenuto dalla regione Emilia Romagna e finanziato dalla regione e dal fondo sociale europeo. Questo progetto si inserisce nel contesto dell’esecuzione penale ed è mirato a favorire i percorsi di inclusione sociale e lavorativa di detenuti ed ex detenuti o di persone in misura alternativa, che non sono necessariamente detenuti ma che comunque sono sottoposti a condanna e ad esecuzione penale. Questo progetto si estende su tutta la regione, e noi presidiamo la Romagna e la provincia di Ferrara. L’obbiettivo globale è quello di studiare le reti a sostegno dell’inserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti, fare in modo che le esperienze, le problematiche che ogni territorio esprime siano di utilità e una occasione di comprensione, di riflessione di scambio, per tutti quanti, per noi per voi e per Ravenna e Ferrara. Siamo appena all’inizio, cioè questi incontri non sono conclusivi in sé, ma sono proprio l’occasione per lanciare la proposta e avviare un lavoro che dovrà poi essere in qualche modo raccolto da voi, dai territori che vi aderiscono. Perché per quanto oggi vada molto di moda parlare di reti sul territorio, operare in maniera integrata, fare e collaborare in realtà è molto difficile. Quindi per questo che vi dico siamo all’inizio, ci stiamo dando da fare, bisogna ogni volta capirsi, negoziare le strategie, i metodi, gli obbiettivi e non sempre ci si capisce al volo, ognuno ha le proprie abitudini i propri problemi, il proprio passato e quindi è uno sforzo continuo. Però, come ci stiamo accorgendo in questo periodo è estremamente stimolante, interessante, forse la parte del progetto che ci ha coinvolto e ci piace di più seguire. Quindi a Forlì e anche a Rimini, nell’incontro precedente abbiamo aperto una riflessione sulla comunicazione sociale che riguarda l’ambito del carcere, dell’esecuzione penale, di come il carcere viene vissuto dalla città, dai cittadini, di come il carcere vive se stesso, gli abitanti di questo mondo a parte che sono i detenuti, ma sono anche gli agenti di polizia, gli operatori, la direzione. Come loro stessi si vedono, cosa vogliono o non vogliono. Abbiamo in corso a Ferrara e anche a Forlì alcune riflessioni sul lavoro, su come creare delle reali opportunità di integrazione, di inserimento nel mondo del lavoro, anche come occasione di riabilitazione sociale, di responsabilizzazione - forse questa parola esprime meglio il percorso da proporre a questi ragazzi. Stiamo facendo riflessioni sulle metodologie, sulle possibilità di inserimento lavorativo, alla luce anche della normativa della riforma Biagi, di alcune forme nuove di contratti che stanno un po’ rivoluzionando lo scenario a cui siamo abituati. A Rimini abbiamo anche parlato di immigrazione, di integrazione alla luce di una legislazione, la legge Bossi/Fini, che di certo non aiuta ad affrontare questi problemi in un’ottica inclusiva. Poi a Ferrara Andrea Lassandari e Massimo Pavarini sono venuti a discutere su questi temi e Pavarini metteva in discussione che oggi si sia socialmente e culturalmente in una logica inclusiva e invece non si stia andando verso tutt’altri lidi. Noi diciamo che, malgrado queste tendenze globali, le risorse del territorio, del locale possono costruire ipotesi che comunque ottengano dei risultati almeno nel piccolo. Ma è questo che a noi interessa perché poi viviamo tutti qui e ora, in un determinato territorio con i nostri problemi e se malgrado la globalizzazione si ottengono risultati che ci fanno migliorare la qualità di vita, in questo caso di persone detenute ma anche nostra personale, questo è già un risultato che riteniamo accettabile e soddisfacente. A Volontarimini vorrei dire che spesso quando i progetti sono ambiziosi come il vostro sono anche più difficili, ma l’importante è andare a piccoli passi e radicarsi a poco a poco, quindi va bene un inizio in sordina che si sviluppa poi contestualmente in maniera più forte. Ringrazio naturalmente Edoardo Albinati per essere qui oggi, ha dovuto anche fare qualche peripezia, fra l’altro c’era lo sciopero dei treni, si è imbarcato senza sapere bene dove e soprattutto quando sarebbe arrivato ieri sera, per fortuna è andato tutto abbastanza bene e credo troverete anche voi molto interessante la sua testimonianza. È una testimonianza come dicevamo, di carattere antropologico e sociologico, diciamo che si discosta in parte dai nostri obbiettivi diretti, di trovare strategie di inserimento lavorativo, però crediamo che sia un tassello indispensabile per capire meglio. Poi ringrazio naturalmente l’assessore che è qui con noi, il mondo della cooperazione sociale di Wherter Mussoni e l’Enaip di Rimini, Guido Fontana, che sta lavorando fra l’altro a un progetto Equal, interessante anche per noi. Ringrazio anche gli amici di Volontarimini con i quali abbiamo avuto questa avventura e speriamo che si possa continuare, grazie.

 

Massimo Pironi

 

5Intanto ringrazio anch’io per essere stato invitato e devo dire onestamente che sono impreparato nel senso che è un tema delicato, almeno per quanto mi riguarda, quindi non vorrei dare delle indicazioni, o fare delle riflessioni che siano superficiali. Questo tema non merita un tale trattamento e d’altra parte credo che sia importante ascoltare chi davvero ha fatto queste esperienze, e ha fatto di questa esperienza una sua professione, quindi sono anch’io interessato ad ascoltare Albinati. Invece come amministratore, con le deleghe che ricopro: scuola, formazione, lavoro, a livello provinciale, il tema legato a queste problematiche come del resto tutti i temi relativi all’esclusione sociale, sono temi che, almeno per questi ultimi programmi, nell’ultimo sessennio del fondo sociale europeo, stanno assumendo un valore estremo, proprio perché credo che ci dobbiamo almeno agganciare ad alcuni paletti, ad alcuni riferimenti che credo dobbiamo tenere tutti in considerazione altrimenti non riusciamo mai a capire in che contesto siamo. Noi siamo in una realtà, in una comunità, che è quella europea, che molto spesso viene distratta e non tenuta in considerazione per quello che è il valore suo assoluto e che ci permette davvero di avere un forte senso di appartenenza. Ha definito negli anni alcuni obiettivi chiari e precisi, che differenziano soprattutto l’Europa da altri continenti, da altre realtà importanti e forti, che in questo momento forse anche un po’ appannata. Viene disegnata da fuori, come la vecchia Europa romantica che si attacca sempre a degli aspetti sempre molto particolari, ma ormai decaduta e che invece io credo stiano alla base di una convivenza, anche di una comunità che fa di questi valori il suo elemento importante, a cosa mi riferisco? Mi riferisco al fatto che la Comunità europea, l’ Europa, su alcuni temi in particolare ha scelto una via, che è quella di sviluppo che si collega agli aspetti della solidarietà, agli aspetti della consapevolezza, delle materie prime, a un discorso dello sviluppo ambientalmente compatibile, sono banalità forse queste, ma se noi non le teniamo ben presenti, rischiamo di perdere anche questi aspetti, come del resto li stiamo perdendo per certi versi. Li stiamo perdendo perché questa corsa folle verso lo sviluppo, non tiene conto che se oggi lo sviluppo non lo facciamo facendo una forte attenzione alle persone e all’individuo, rischiamo poi che lo sviluppo sia ad appannaggio solo per alcuni. Ma anche questi alcuni, se non hanno una comunità forte e importante sulla quale poggiare, non riescono poi ad avere quella autorevolezza, quella competitività che viene richiesta anche al sistema economico. Non sarà un caso che la comunità Europea nell’ambito degli ultimi anni, nelle conferenze, partendo anche da quella di Barcellona, poi quella di Lisbona, ecc.. ha iniziato ad indicare, anche a noi che usiamo in particolare i fondi della comunità europea, alcuni indicatori che non sono più indicatori solo di tipo economico, il PIL, la ricchezza del paese, ma anche altri indicatori, quali quelli legati alla qualità dell’ambiente, alla qualità della vita, del territorio. Pensiamo solamente alla scuola, l’aspetto di esserci dati un obiettivo, il 2010, di avere una dispersione scolastica che sia sotto un certo livello, ciò comporta poi anche altre possibili devianze o comunque esclusioni dal contesto sociale che porta anche ad altri tipologie di problematiche, dico questo in maniera sintetica, non la voglio fare lunga, perché io credo noi su questo non abbiamo ancora una forte consapevolezza. Stamattina, abbiamo davanti una platea di persone direttamente interessate, sia per la scelta che hanno fatto di fare un corso quale quello appunto che fa riferimento a Equal, sia ragazzi di un istituto che ha appunto un ruolo, una funzione ben precisa: operare e lavorare sulle persone e con le persone. Inoltre, c’è un’esigenza anche di essere conseguenti sul territorio, in relazione alle politiche, in relazione anche alle risorse che vengono date, anche in questo senso, mi riallaccio alle cose che si dicevano prima: fare sistemi, integrare, è la cosa più difficile che ci sia da fare in questo momento, proprio perché probabilmente non appartiene neanche alla nostra cultura, in relazione anche ai modelli organizzativi che in ogni ambito e in ogni settore ci siamo dati. Quindi la scuola molto spesso va per conto proprio, la formazione va per conto proprio, gli enti locali vanno per conto proprio, vi faccio degli esempi anche banali così almeno ci capiamo: in questo momento siamo in una fase molto delicata per quanto riguarda l’istruzione, siamo davanti a una legge che io, permettetemelo, chiamo di controriforma perché ha massacrato un patrimonio forte che è la nostra scuola, dal punto di vista dei punti di riferimento e ovviamente con questo non voglio dire che la riforma che si stava mettendo in moto fosse la cosa più perfetta, ma almeno aveva messo in moto un meccanismo che pian piano doveva riportare tutta una serie di ulteriori aggiustamenti. Questo ha bloccato tutta una serie di aspetti, altri li ha lasciati in mezzo al mare a tal punto che il ministero del welfare o del lavoro e il ministero della pubblica istruzione ha dovuto correre ai ripari e fare una cosa a livello nazionale, con tutte le regioni, per garantire l’obbligo formativo. Per molti il termine obbligo formativo non vuol dire nulla però sta di fatto che la legge Moratti è entrata in vigore, ha riportato un caso clamoroso, in un trend, anche in Europa dove si allunga il tempo scuola, ha riportato l’obbligo scolastico alla terza media, ma siccome chi poi vuole accedere alla formazione professionale prima dei quindici anni non può accedere, si sono accorti che questi bambini avevano un anno buco, come si fa? Quindi vai ad individuare le varie strategie perché nel programma e nella legge Moratti c’è un obiettivo che è di tipo diverso: i bimbi quando escono a quattordici anni devono immediatamente o andare ai licei, o andare al nuovo sistema che lei ha chiamato di istruzione e formazione professionale, o come nel gergo chiamano i tecnici, questa famosa seconda gamba. Il problema è che questa seconda gamba, siccome non ha fatto decreti attuativi, non esiste dal punto organizzativo, c’era questo clamoroso buco, quindi vai in emergenza, vai a cercare soluzioni e la soluzione è stata quella di fare un accordo generale con tutte le regioni. Quindi ogni regione fa come gli pare, ed è una cosa aberrante se pensiamo al fatto che abbiamo un sistema scolastico funzionale, che deve dare a tutti le stesse opportunità. Se devo fare un ragionamento egoistico dico: per fortuna siamo in Emilia Romagna, avevamo già ipotizzato forme di integrazione fra la scuola e la formazione professionale. La nostra provincia ha già quest’anno questa sperimentazione in corso, perché noi crediamo in queste azioni, quindi grazie anche all’attività con alcuni enti di formazione in particolare l’Enaip, che a queste cose è molto attenta, siamo riusciti a costruire un progetto: per quest’anno per la provincia di Rimini si è sviluppato un progetto sperimentale che è partito in tre istituti professionali e che quindi ci vede adesso pronti con tutte una serie di azioni. Ma qui vuol dire integrazione perché hai da operare con gli enti di formazione, devi operare con le scuole, le scuole direttamente all’interno hanno anch’esse un confronto democratico fra dirigente scolastico e collegio dei docenti, comprendere e capire bene che devi cambiare metodo e modello, cioè non è facile fare tutte queste operazioni, quindi è per questo che questi processi hanno bisogno di maggiori certezze e anche di una capacità più forte di stringere. Pensate solo all’obiettivo che di fatto noi abbiamo già raggiunto, la comunità europea ci da per il 2010 un obiettivo di portare la dispersione scolastica sotto il 10%, la regione Emilia Romagna è già su questi livelli e a livello nazionale siamo su 30/32%, però il problema è che questa regione proprio nell’ottica dell’inclusione vuole creare le condizioni. L’obiettivo è quello di non avere dispersione scolastica, cioè di mettere in condizioni, attraverso un sistema perché non lo può fare la provincia da sola, non lo possono fare le scuole da sole, non lo può fare la formazione da sola, in un’ottica di sistema, creare le condizioni affinché i nostri ragazzi possano trovare l’opportunità di scegliere il percorso più opportuno e più confacente a quelle che sono le proprie caratteristiche delle proprie intelligenze. Finalmente cominciamo a parlare di persone, ci mettiamo nell’ottica di creare le condizioni affinché la persona possa scegliere, ci sia qualcuno che lo mette nelle condizioni di scegliere, non di obbligare, ma di scegliere e quindi anche di uscire da un’altra logica è che è quella del doppio canale, che è quella di mantenere le persone all’interno del loro contesto sociale. Ciò che accadeva con la legge Gentile, cioè chi ha gli strumenti e anche un bagaglio di preparazione forte in famiglia, nel contesto in cui vive, fa certe scuole, coloro che invece hanno contesti sociali più problematici ne fanno altre, poi è ovvio che c’è sempre la persona che magari riesce a fare trasversalmente, ma non è questo il fatto, noi parliamo sempre di aspetti di tipo generale. Questo mi serve per dire che purtroppo in questo momento non si sta facendo un’operazione, che è quella di operare per la coesione sociale, per creare le condizioni affinché la nuova povertà che sta venendo avanti, che è fatta di tante categorie: dalla famiglia che si separa quindi trova la madre con il bambino o situazioni legate ad altri aspetti che sono il frutto anche di questa società moderna, guardate tutto l’aspetto legato alla depressione, quanto porta e quanto esclude poi dal lavoro. Esclude anche da tante altre opportunità e comincia un piano inclinato, in discesa che se non c’è una comunità forte, capace di fermarlo e di recuperarlo in processi e percorsi crea appunto fattori non solo per l’individuo, problematici, ma per tutta la comunità. Da qui, vedo di chiudere, quando c’è stata la possibilità un anno e mezzo fa di partecipare come provincia a un progetto Equal che ci ha visto prima di tutto contrattare anche con la regione, quello che poteva essere l’ambito nel quale noi potevamo impegnarci, questo aspetto proposto dall’ Enaip e da il gruppo di progettisti che alle spalle ci stanno di tutta questa operazione, ci è sembrata una cosa interessante e questa scommessa l’abbiamo fatta, ma è una scommessa fortissima per un territorio che ancora non riesce a fare sistema in maniera compiuta. Però in questi anni sta facendo grossi sforzi, lo ha fatto nel settore della scuola con l’ufficio scolastico regionale, con tutte le scuole dei territorio, con tutti i comuni, lo ha fatto con la 104 per quanto riguarda l’handicap e sono orgoglioso di dire che abbiamo uno dei più bei accordi che possono esserci, in relazione al fatto che quest’anno ad esempio siamo riusciti ad integrare nella scuola media superiore il doppio dei bambini in confronto a quelli che avevamo. Grazie a questo accordo, grazie anche all’investimento forte che in provincia abbiamo fatto, abbiamo altri accordi che sono quelli legati ad esempio all’emersione del lavoro nero che ci ha visto fare un accordo che è diventato un punto di riferimento a livello nazionale ed è stato acquisito anche dalla regione. Questa capacità finalmente in vari settori, in vari ambiti ma con precisi obiettivi che sono quelli di operare e lavorare per l’inclusione sociale e garantire una maggiore e diversa qualità della nostra comunità, che eviti certi percorsi pericolosi. Lo stiamo facendo con strumenti che in parte già esistevano, io credo che in particolare, anche per quanto riguarda questo tipo di problema, quello delle persone che hanno subito una condanna e che quindi cercano di essere reintegrati nel contesto sociale, nelle comunità, devono essere utilizzati, perché secondo me sono utilizzati molto poco e anche qui credo che dobbiamo fare un salto di qualità proprio nell’ambito di costruire patti, accordi che ci permettano di costruire un’azione anche individualizzata, di percorsi individualizzati che portino anche all’inserimento lavorativo. Ci sono le condizioni, io credo che anche Equal nel momento in cui esploderà dal punto di vista della sua azione, il suo obiettivo è quello di creare non tanto e non solo una buona prassi, non tanto e solo un’esemplificazione, ma è quella di utilizzare i presidi che già esistono, in maniera tale che i presidi siano come degli ingranaggi che finalmente cominciano a ruotare insieme e i loro tempi si possono incastrare. Il che vuol dire entrare nella normalità, quando certe persone hanno certe problematiche, sanno già qual è il percorso che possono fare, ci sono persone competenti e capaci che li aiutano ad inserirsi in questi percorsi, il che vuol dire centri per l’impiego che funzionano, del resto stanno funzionando e io dico bene per tutta una serie di altri aspetti, vuol dire una camera di commercio che sappia qual è il suo lavoro e ci produca tutti gli aspetti necessari per conoscere bene in maniera puntuale tutto il terzo settore, tutto il mondo della cooperazione sociale, del no profit, che emerga anche sul piano della qualità, anche dei valori, anche economici su questo territorio. Vuol dire comuni capaci di fare una azione vera e forte di un inserimento lavorativo di queste persone, cioè vuol dire tutta una serie di meccanismi, vuol dire Ausl capace di conoscere questi processi e di orientare queste persone nel modo giusto, come loro ritengono anche sulla base del lavoro che hanno fatto sulla persona. Credo che ancora in questo settore particolare non si faccia molto. Noi abbiamo da una parte un’azione che viene fatta dai centri territoriali permanenti, cioè la formazione per gli adulti che noi finanziamo, che in parte finanzia il ministero e devo dire, oggi non ho portato i dati con me, si sta lavorando molto bene nel centro territoriale permanente a Rimini è in capo alla scuola media Bertola con il dirigente Tommassoni, col quale farò subito dopo le feste un incontro proprio per verificare più attentamente i bisogni che lui ha espresso per poter dare una risposta più confacente. Abbiamo una legge che è la 45 del ‘96 regionale, che è una legge sull’inclusione sociale che in questo settore particolare non viene utilizzata, che di fatto da contributi alle aziende per abbattere i contributi sociali e comunque da degli incentivi alle cooperative sociali per l’inserimento lavorativo di persone, anche di detenuti ed ex detenuti, viene utilizzata molto poco, io avrei piacere di utilizzarla di più rispetto a quella che finanziamo ogni anno, purtroppo mi rimangono delle risorse lì, quindi vuol dire che non siamo stati capaci ancora di fare sistema in questo senso. Dall’altra io credo che possiamo operare perché anche l’asse D1 che è quella della formazione legata anche a queste categorie, possa vedere processi e patti con percorsi anche individualizzati che aiutano anche questo processo, ma in questo senso è chiaro che è una cultura più di tipo generale che deve passare. Ho sentito parlare anche di strutture quali il nostro carcere che sono fuori dal territorio, io credo che non sia solo un problema di carcere, la mia esperienza anche sul sociale all’interno di un comune mi ha portato a gestire strutture protette per anziani e anche queste sono fuori dal contesto territoriale e non vengono riconosciute dal contesto territoriale, quindi anche in questa direzione credo che uno sforzo maggiore deve essere fatto affinché si possano davvero costruire azioni di un certo tipo. Dall’altra parte poi ci sono azioni dell’asse D1 che vengono fatte per quanto riguarda alcune professionalizzazioni nell’ambito del carcere e anche in questo caso Enaip le sta seguendo direttamente da anni, pensiamo solamente alla ceramica con le esposizioni che non so se inaugura oggi pomeriggio o comunque sotto Natale, ormai da anni viene inaugurata e porta anche l’espressione delle cose che vengono realizzate all’interno del carcere per quanto riguarda appunto la professionalizzazione legata ad alcuni temi specifici. Vorrei solamente dire che la cultura dell’inclusione è un qualche cosa che dobbiamo tenere molto caldo e molto attento perché su questo si gioca il futuro della nostra comunità. Pensate solo a quello che sta accadendo nel nostro territorio per quello che riguarda l’immigrazione, sono circa 5000 le persone regolarizzate sulla base dell’ultima legge, quanto questo incide in tutti i contesti che sono quelli della scuola, ormai abbiamo delle percentuali che sono sopra il 10%, mi dicono che sulla scuola abbiamo addirittura un 30% di stranieri ma questo vuol dire problemi di lingua molto spesso, vuol dire problemi culturali. Oso immaginare, lo conosco solamente superficialmente, cosa vuol dire questo problema anche all’interno delle carceri, quanto ad esempio incide il problema della tossicodipendenza e quanto inciderà di più con questa legge che non so dove andrà a finire. Nei confronti degli assuntori di stupefacenti, questi sono temi molto forti che hanno bisogno di grossi interlocutori, con una capacità di comunicazione e collaborazione molto stretta e su questo io do la mia piena disponibilità e anche quella dei miei uffici a trovare punti di riferimento e soprattutto anche altre strade da costruirle insieme come vorrebbe una vera puntuale integrazione. Cooperare e co-progettare, di mettere sul tavolo ognuno di noi quello che abbiamo a disposizione, ragionare insieme.

 

Edoardo Albinati

 

Io cercherei di capire fin dall’inizio quelli che sono le esigenze di questo auditorio, da quello che mi è stato detto qui si replica un po’ la situazione di quello che un insegnante quando entra in carcere si trova davanti, cioè un pubblico molto eterogeneo, mi scuso se, le persone che conoscono già la realtà del carcere, che ci lavorano, che ci entrano quotidianamente, andrò a dire delle cose che già conoscono però forse questo mio intervento potrebbe riuscire, se riuscisse almeno a sgombrare qualche equivoco, a dare un quadro più realistico più vicino a quella che effettivamente è la vita all’interno del carcere e che normalmente viene raffigurata o in chiave romanzesca o giornalistica piuttosto infedele. Io personalmente mi metto molto spesso le mani nei capelli quando leggo le cose sui giornali, insomma di che mondo stanno parlando? Anzi l’unica, spero anche ultima volta che ho scritto una lettera al giornale dopo che era apparso sulla Repubblica un lungo articolo, una paginona intera che voleva dimostrare che le scuole dei carceri in realtà servono ai mafiosi per riciclare le loro attività, questo appunto non su Libero, ma sulla Repubblica e lì il prurito è stato troppo forte e ho dovuto scrivere questa lettera che almeno in parte correggesse questa idea che l’istituto tecnico commerciale servisse ai boss della mafia per imparare ad usare i computer e come gestire i loro affari mafiosi in maniera più efficace. Vedendo la quantità di luoghi comuni o anche di bene intenzionato a curiosità di fronte al mondo carcerario che però di fatto si scontra con un muro, con le mura, che questo mondo rimane sconosciuto e in un certo senso è anche bene così che la maggior parte delle persone non abbiano occasione di varcare quelle soglie. Qualche indicazione potrebbe essere utile appunto introdurre anche la mia personale esperienza il lavoro dell’insegnamento nel carcere, fra l’altro diciamo così, a posteriori posso dire che questi dieci anni che io insegno, mi hanno, a mia volta, insegnato qualche cosa che ha a che fare con l’insegnamento in generale. Quindi l’insegnamento nel carcere poi probabilmente è una forma di esperimento generale sui criteri dell’insegnamento anche nelle scuole esterne, insegnando nel carcere dove c’è una situazione emergenziale, dove i materiali, le risorse, sono scarse, le provenienze degli studenti sono le più diverse così via. La presenza degli stranieri è molto elevata, è come se tutti i problemi della scuola normale si presentasse qui alla massima potenza e dunque in qualche modo finisca per rappresentare anche una sorta di avanguardia di quello che normalmente gli insegnanti si trovano ad affrontare nei licei, nelle medie, negli istituti tecnici, quindi in un certo senso credo possa esserci una ricaduta del metodo che si acquisisce all’interno del carcere sulla scuola, anche fuori dal carcere. Per fare un esempio io sono professore di lettere, per la pensata dei cambiamenti dei programmi ministeriali con cui poi all’ultimo anno di scuola si fa soltanto il novecento di letteratura in storia, si è dimostrata lì impraticabile, come del resto è impraticabile anche nella scuola all’esterno, segno che un tipo di riforma è stato fatto senza tenere minimamente conto delle realtà effettive, dell’insegnante e dello studente. Naturalmente in una situazione come la galera questo è esacerbato, la galera in generale è un luogo dove la distinzione fra utile ed inutile, fra efficace ed inefficace diventa molto palmare, molto evidente. A proposito di spese sociali quello che non è mai detto chiaramente è che la spesa, l’investimento che si fa sul carcere, un investimento particolarmente utile sulla società, perché poi, cosa di cui ci si scorda e lo scorda chi vorrebbe un carcere mediamente più afflittivo. Ma poi i detenuti escono, prima o poi escono, usciranno dopo un anno, dopo cinque, dopo venti, però queste persone tornano nel mondo quindi fare sì che queste persone tornando nel mondo non cadano nelle recidive criminali è un interesse primario della società stessa. Bisognerebbe spendere molto più quattrini di quelli a cui si sta pensando e che se questi soldi non vengono spesi forse ne dovranno spendere molti di più, in sistemi repressivi, giudiziari. C’è una contraddizione di fondo che regge tutto il discorso che adesso si potrebbe andare a fare, pare che è un po’ nella radice stessa dell’istituzione carceraria, cercherò di metterla nel modo più semplice possibile, chiarire per primo a me stesso che vivo quotidianamente questa contraddizione. Una contraddizione che chi lavora nel volontariato potrà benissimo capire perché è la medesima stessa situazione, cioè il fatto che nel carcere si scontrano principalmente due visioni, e vedremo come l’insegnamento si trova poi palleggiato tra questi due poli, due visioni contrapposte, una è una visione di tipo, diciamo è quello che viene detto nel linguaggio scientifico, di paradigma del deficit, ne parlo brevemente nel mio libro ma solo perché è un po’ teorico e dice nella sostanza che le persone devianti non sono dei devianti perché hanno un deficit, che hanno avuto nella loro storia, nella loro infanzia, nella loro vita, mancanza di qualche cosa, mancanza di denaro, mancanza di educazione, mancanza di affettività, insomma gli è mancato qualcosa, perché il deviante è tale? Perché ha un buco dentro e allora ovviamente il modo più semplice per ovviare a questo è riempirlo questo buco è dare più istruzione, più sicurezza, più affettività. Il paradigma, che non ha nulla a che vedere con la realtà, in carcere invece nella sua buona sostanza è una pena afflittiva perché riduce ulteriormente l’affettività, le possibilità lavorative, comunicative, la libertà. L’aspetto affettivo invece di surrogare, invece che supplire alle carenze che il deviante ha avuto, il carcere ulteriormente diminuisce l’apporto di queste sostanze vitali o facoltà vitali. L’altro paradigma di segno totalmente opposto eppure altrettanto comprensibile ma più vicino a quello che di fatto è la realtà carceraria, è il paradigma di cui ho sentito per la prima volta illustrare dal professor Pavarini, di cui parlava prima Barbara Bovelacci, il così detto criterio del, c’è un termine inglese per definirlo, in inglese è less eligibility in italiano potrebbe trovare come la minore scindibilità, allora che cosa vuol dire questo? Vuol dire che il carcere per presentare una forma efficace di deterrente sociale deve ovviamente fornire a chi sarà detenuto una serie di servizi che devono essere peggiori della realtà esterna altrimenti il carcere sarebbe preferibile al mondo reale. Quindi il detenuto deve avere meno assistenza sanitaria, deve avere un posto dove dorme, cibo che mangia e anche l’istruzione che riceve deve essere di serie B rispetto a quelle del cittadino libero, altrimenti non si vede perché sarebbe preferibile stare libero. Il carcere deve essere peggio della realtà esterna quindi esattamente il contrario del primo principio che invece al detenuto avrebbe servito un supplemento un’integrazione, un surplus. Questi due poli diciamo teorici fra l’altro, l’ho visto accadere molte volte e capisco anche il principio in base al quale ragionare sui denari investiti dentro il carcere sia sempre molto pericoloso, quando per esempio si devono formare le classi, vi dico solo le classi all’interno del carcere. Io lavoro nel carcere giudiziario di Rebibbia, il nuovo complesso con all’incirca tra i 1.400-1.500 detenuti a seconda degli ingressi, dei momenti, delle fluttuazioni, dei trasferimenti, noi abbiamo varie sezioni a seconda dei reparti in cui operiamo, ci sono fondamentalmente tre sezioni: una per i cosiddetti comuni cioè quelle classi a cui possono accedere detenuti che non hanno trattamenti particolari, una sezione all’interno dell’alta sicurezza dove sono ristretti i detenuti sottoposti a regime della 41bis cioè dei reati associativi, mafia, camorra e compagnia bella, e poi una sezione presso i detenuti così detti protetti, i protetti sono quei detenuti che per la particolarità del reato che hanno commesso non possono essere messi insieme agli altri detenuti perché i reati sono infamanti. In particolare i due reati più infamanti, diciamo all’interno del codice carcerario, sono i reati sessuali e i delatori, gli informatori, questi detenuti devono essere protetti, devono stare in un reparto a parte e non potendo appunto accedere alla scuola comune, noi siamo riusciti con una certa fatica a creare delle classi dentro i reparti, altrimenti sarebbero stati tagliati fuori. Io insegno in un Istituto tecnico, quindi in una scuola superiore, ora in Italia gli istituti tecnici o comunque superiori, c’è anche un liceo scientifico-tecnologico, in Italia ce n’è una decina all’incirca quindi di fatto l’istruzione superiore è garantita solo in certi istituti d’Italia sia questo, uno dice, ma perché certi costi ci sono e altri no? Per dire a Milano, San Vittore, grande carcere storico non c’è una scuola superiore statale, quindi vengono fatti dei corsi ma vengono fatti da volontari, mentre in carceri molto più piccoli che hanno una popolazione molto più esigua questo tipo di scuola c’è perché i provveditori locali sono più sensibili ma vengono anche sottoposti essi stessi a un ragionamento di tipo numerico. Quanti studenti produce questa scuola, quanti diplomi, quindi è vero che nelle classi all’interno di un corso di cinque anni, c’è questo fenomeno inevitabile della riduzione degli studenti che man mano che si va avanti verso gli ultimi anni, questo per ragioni che sono fisiologiche all’interno del carcere che sono: l’abbandono scolastico che ha naturalmente percentuali immaginabili e dovuto al fatto, non dimentichiamo che nessun operatore all’interno del carcere deve mai dimenticare che l’adesione del detenuto a qualsiasi iniziativa fatta all’interno del carcere sia essa professionale, formazione, ceramica, pallavolo, chitarra elettrica, disegno o una scuola, è sempre in una qualche misura giustamente strumentale, comprensibilmente strumentale cioè il detenuto si iscrive al corso x o al corso y, perché non ha altro da fare, quindi quando arriva quel bando, quel poter, quel pezzo di carta appiccicato al reparto, una serie di persone, una certa quota, che poi dovrà rapidamente identificare all’interno del suo auditorio si capisce già dopo la prima, la seconda lezione che c’è un certo numero di persone che si sono iscritte diciamo per disperazione, dal libro è uscita questa frase dal romanzo di Clodette che chiedono a Claudine: le piace ballare? No, allora perché balla? Non ho niente di meglio da fare, di fatto la condizione del detenuto è un po’ questa, il detenuto passa venti ore rinchiuso dentro una cella. Nel carcere giudiziario è così, l’altro paradosso che è inconcepibile, ma chi è detenuto in attesa di giudizio, la cui posizione è ancora quella di un possibile innocente, è sottoposto a un regime molto più restrittivo del detenuto che ha avuto la condanna definita perché in qualche modo si considera che si debba sottoporre a una restrizione speciale in vista del fatto che non essendo ancora giudicato in modo definitivo potrebbe inquinare le prove. Nei carceri dove ci sono gli innocenti o almeno i presunti tali la vita si svolge per venti ore al giorno all’interno della cella quindi qualsiasi cosa spinga il detenuto, permetta al detenuto di uscire dalla cella, dal detenuto è vista come una cosa positiva, poi dopo il vero interesse, la vera identificazione con il progetto proposto, con il programma, col disegno come concorso di piastrellista potrà essere una conquista seguente. Del resto la seconda ragione di questa adesione, diciamo così che il detenuto tenda a sfruttare le poche occasioni che gli vengono fornite è la questione che il detenuto sa che frequentando questi corsi potrà forse avere il merito di ottenere benefici, quindi anche questo, fra l’altro è una strumentalità che per me è umana e lecita, è giusto. Io so benissimo che alcuni miei studenti vengono a scuola prima di tutti perché avere alla fine dell’anno promozione vuol dire avere un foglio che viene allegato quando viene fatta l’equipe per decidere della semilibertà o i permessi. Il fatto di essere andato a scuola è un titolo di merito, quindi anche in questo chi va ad operare nel carcere, poi soprattutto i volontari, deve sapere che il carcere di rapporti umani non sono rapporti liberi e disinteressati, sono rapporti necessariamente strumentali, giustamente strumentali. Anche la frequentazione scolastica rientra in questi casi, però dicevo prima accade che ci siano delle classi poco numerose alla fine, per esempio la quinta classe spesso è formata da due, tre, cinque studenti, per cui certe volte io ho una vertigine come cittadino nel dire che mio figlio che va a scuola pubblica sono in venti, venticinque, poi appunto dopo le riforme degli ultimi anni dove abbiamo delle classi ottocentesche ormai, brulicanti di persone, e quindi potrà avere attenzione, istruzione da parte del suo corpo docente in un tot diviso per venti. Io qui ho davanti due criminali incalliti che hanno a disposizione un intero corpo docente solo per loro, allora certe volte ho un brivido nel pensare al provveditore che quando si troverà quei numeri davanti e dirà: questa è una scuola che non avrà rendita o una rendita assolutamente incompatibile quindi la cancelliamo. Del resto, questo mi sembrerebbe giusto che avvenisse se non ci fossero le situazioni che dicevo prima, cioè del fatto che comunque l’investimento se riuscirà a tenere lontano queste persone dalla recidiva criminale comunque si dimostrerebbe positivo. Questo per far capire che certe volte anche lo stesso insegnante, che è al tempo stesso anche un cittadino che paga le tasse e compagnia bella, si trova di fronte a delle considerazioni di tipo veramente economico, noi avevamo per esempio nel complesso del carcere di Rebibbia la così detta custodia attenuata che è un regime particolare che alcuni carcere hanno in alcune situazioni, in cui vengono ristretti i detenuti a bassa pericolosità sociale a pene relativamente brevi e bisognosi di particolari regimi, quasi tutti in sostanza, ex tossicodipendenti che hanno pene brevi da scontare, che vanno scontate nel modo meno afflittivo possibile. La custodia attenuata è un regime che a Roma viene chiamata ironicamente il club méditerranné del carcere perché si sta bene, si sta aperti durante il giorno, la custodia è molto meno restrittiva e afflittiva del solito, noi avevamo aperto una classe lì col fine di un anno scolastico, forse proprio per il fatto di avere delle pene molto brevi, una aspettativa molto vicina alla liberazione questa classe era poco frequentata. Io ero uno di quelli che ha votato per la richiesta della sua chiusura, non possiamo per moralità diciamo, di avere delle classi fantasma, questo no, se poi alla fine c’è uno, due studenti, una prima classe, la classe di ingresso, quella che dovrebbe avere trenta, quaranta, cinquanta iscritti, se ce ne sono solo un paio, secondo me non è giusto investire soldi in questo. E qui vengo magari proprio al tema della funzione dell’insegnamento e del suo legame possibile con la realtà post carceraria, mi vorrei soffermare su due punti in particolare, uno è quello legato più in generale alla così detta istruzione alla legalità, cioè in che modo l’insegnamento nel carcere possa essere un qualche modo, c’è anche una richiesta da parte dell’istituzione carceraria che lo sia, una educazione alla legalità. Il secondo invece è relativo a quanto l’educazione sia una preparazione a qualcosa che avverrà in un secondo momento, per quanto invece sia un valore in sé.

Chi viene condannato a dieci anni poi se ne farà quattro, cinque, sette... appunto con un regime come quello degli sconti delle pene, si fa si che il giudizio non sia avuto una volta per tutte a livello processuale ma di fatto continui, quindi il detenuto è sottoposto a micro giudizi che purtroppo poi sono quasi tutti demandati alla custodia, agli agenti carcerari, che poi saranno loro a decidere in definita se uscirai o no per cui se tu mandi a quel paese una guardia, nei fatti puoi fare un anno, due anni in più. Quindi non è assolutamente commisurato alla realtà del reato eventualmente commesso, ma il fatto semplice che non potendo utilizzare i benefici ecco che la pena improvvisamente si riallunga, infatti quando io chiedo il fine pena ai detenuti, parliamo sempre di fine pena teorici, di fine pena virtuali, poi vediamo cosa succede. Io personalmente sono per l’accorciamento delle pene e la loro esecuzione totale, completa, però questa è una scuola molto pericolosa. Non mi interessa sapere se tu sei diventato un buono oppure no, sono fatti tuoi non voglio entrare nella tua anima, non è appunto una mentalità dove si chiede al detenuto che lui si ravveda, poi se si ravvede tanto meglio. Oggi invece di fatto questo tipo di approccio è quello prevalente, il che aumenta ancora e lo dicevo all’inizio il pericolo della strumentalità, cioè voi sapete benissimo che per avere certi benefici, il detenuto è pronto a qualsiasi mascheramento ipocrisiaco, finzione, perché sa benissimo che può avere un ritorno che è molto forte, quello appunto di avere uno, due, dieci anni di pena in meno, questo lo dico, già chi lavora in carcere lo sa, però chi ci andrà mai a lavorare o chi ci entrerà mai deve tenere conto appunto di questo fatto che può pesantemente influire sui rapporti interumani, nei rapporti interpersonali. Cioè il fatto che il detenuto sa perfettamente che nel comportarsi bene, il comportarsi bene poi è sempre in qualche misura simulato, lo è tra tutti, l’educazione, la convenzione del rapporto interpersonale fa si che noi in qualche modo simuliamo una natura buona che non necessariamente sempre abbiamo. Il detenuto è costretto dai fatti a farlo ventiquattro ore al giorno, non soltanto con gli esterni ma anche con i detenuti stessi, questa educazione o rieducazione alla legalità secondo me può avvenire esclusivamente, deve avvenire esclusivamente come una educazione alla legalità attraverso le discipline, attraverso le singole discipline, cioè se io sono il professore di matematica, io sono il professore di fisica o di disegno o sono il professore di italiano io devo educare alla legalità della mia scienza, della mia disciplina. Devo semplicemente mostrare che la mia disciplina, la materia che io insegno possiede dei protocolli di costruzione del sapere, di raggiungimento di un risultato che hanno un valore formale, ciò che molto spesso al detenuto manca, perché la devianza nella sua sostanza è molto spesso una forma di clamorosa scorciatoia, di sostanzialismo brutale, c’è denaro vado e lo prendo, senza dover passare attraverso il lavoro, la formazione. Esattamente come diceva brutalmente Adorno nel fatto che il massimo sostanzialismo possibile è lo stupro, c’è desiderio, c’è l’oggetto del piacere sessuale io lo prendo senza dover passare attraverso tutta quella complicata fase del corteggiamento, del fidanzamento, esiste un bene io me ne approprio senza pensare che ci sono dei protocolli per conquistarlo. L’educazione alla legalità può essere l’idea che la risoluzione di un teorema, una pagina di analisi logica, un progetto grafico per un appartamento siano procedure che hanno dei tempi, dei costi formali, dei tempi di elaborazione ma che poi alla fine conducono ad un risultato effettivo, cioè alla fine il teorema viene risolto. La frase strutturata nell’analisi del periodo, nell’analisi logica si scopre che effettivamente è legata a un senso, cioè il mondo ha un senso, ha una legge, ci sono molte leggi nel mondo, questi leggi se sono state affrontate è perché hanno un loro valore, quindi non è valida la legge dello stato, cosa che i detenuti tendono a percepire in maniera, i cittadini italiani in generale, i detenuti in maniera ancora maggiore, il livello di astrazione del codice, delle leggi dello stato è solo l’ultimo livello possibile, forse il più astratto di tutti di una serie di procedure che hanno una forte struttura formale e che richiede sforzo, pazienza, elaborazione, soprattutto tempo. Io ho dato un esempio di questa logica sostanziale, voglio leggervela, questo non ha nessun connotato né negativo, né positivo nei confronti dei soggetti a cui mi riferisco È un tipo di mentalità che se si riscontra in certi reati, in particolare appunto nei rapinatori, non è una mentalità condivisa universalmente da tutti i devianti, però è una mentalità molto tipica dei rapinatori e molto legata poi alla presenza molto forte nella società oggi, del valore del denaro. Non che il denaro non sia stato importante, però trovo che moltissimi ragazzi soprattutto ragazzi giovani, rapinatori romani poi hanno agito in realtà non per una assenza di valori ma al contrario perché avevano dei valori molto forti. Il valore centrale era appunto il valore del denaro, in loro molto spesso agisce una sorta di comparazione con il mondo del lavoro, vedi mio padre ha lavorato tutta la vita è rimasto povero in canna io voglio sbrigarmi, voglio raggiungere più rapidamente quella cosa che mio padre comunque in una onesta vita di lavoro. Molto spesso si pensa che colui che è deviante provenga necessariamente da un ambiente dove la devianza era quotidiana, normale, ci sono moltissimi, soprattutto fra i rapinatori, che vengono da famiglie semplicemente e onestamente povere e che non possono sopportare l’idea di ripercorrere il percorso che è stato dei genitori. In alcuni miei studenti detenuti, non necessariamente i più primitivi, ho ritrovato questo tipo di logica sostanziale specialmente nei rapinatori: il mondo è pieno zeppo di oggetti, io ne voglio uno e me lo prendo, oppure l’oggetto base che poi servirà ad avere tutti gli altri: il denaro, semplice no? È una logica come un’altra, mettiamola così ci sono luoghi speciali in cui il denaro è ammassato in grandi quantità, dove il denaro trabocca, si sente per strada l’odore pungente del denaro, dicono che non ha più odore invece ce l’ha eccome. Basta andare lì ed esibire qualche arma automatica perché il denaro sia subito consegnato, le armi funzionano più o meno come assegni circolari, il percorso del lavoro è cento volte più lento, tortuoso e insegna che essendo onesti si rimane sempre al punto di partenza cioè senza una lira, perché dovrebbe essere diversamente? Già i confini della proprietà sono labili, astratti disegnati a matita, sarebbe difficile rubare ad ognuno il suo sangue o le mura di casa sua, ma la sua Opel Corsa, i suoi gioielli, il suo denaro questi si che fanno presto a cambiare il proprietario. Ancora di più si avverte l’indistinzione nei depositi dove il denaro ruota dentro grandi vasche virtuali e persino ai legittimi proprietari occorre continuamente rammentare qual è il loro con estratti mensili, anche uffici postali. La storia che segue non so se me le sono inventata, è accaduta in qualche paese ricco dove dei poveracci immigrati restavano a bocca aperta entrando nei supermercati zeppi di merci, non gli sembrava vero vedere tanto ben di Dio a portata di tutti e prendevano a piene mani dagli scaffali, roba da mangiare, vestiti, scarpe, giocattoli ma poi venivano bloccati alle casse senza capire cosa mai volevano da loro. Racconta qualcosa del genere nel pensiero primitivo: in Nuova Guinea i portatori venivano ricompensati al termine della giornata con la consegna di un coltello, un’ascia o un altro prezioso utensile per ritirare il quale dovevano presentare un foglio firmato dai datori di lavoro, alcuni uomini del villaggio quando videro i loro amici ricevere un coltello o un’ascia presentando semplicemente un pezzo di carta all’uomo che aveva la guardia del campo a Parimao, pensarono di poter ottenere senza difficoltà la stessa ricompensa e furono stupidissimi quando i pezzetti di carta da loro presentati, non procurarono alcun risultato. Ora diciamo che a differenza degli ingenui Papuasi, i veri rapinatori sanno benissimo cosa e chi gli aspetta all’uscita del negozio: sirene e uomini armati pagati per difendere il denaro a costo di rimetterci la vita, eppure calcolano che gli conviene questo rischio piuttosto che passare per la trafila formale dell’impiego, dei risparmi. La vista onesta ha secondo la loro contabilità, costi molto più alti, lo ripeto è proprio un calcolo appurato e preciso, con il resto giusto fino al centesimo, o per essere più preciso fino a spaccare il minuto, ore di galera eventuale contro ore di fatica certa, la libertà totale contro quella diluita in dosi quotidiane, ignoro come venga calcolato il rischio, con quali coefficienti si tenga conto dell’eventualità di finire dentro, ma evidentemente le percentuali sono ancora attraenti, i margini di profitto incoraggiano a tentare. Come gli speculatori di borsa che invece dei soldi puntino la propria libertà, broker di se stessi, ma un giorno voglio riprendere sul serio il tema, quale tema? La scarsa percezione della norma astratta, è passato qualche giorno, rileggo la pagina precedente dove ho scritto che la fatica del lavorare è una punizione certa, ma solo se un lavoro lo si trova il che oggi non è facile, ma per completezza devo aggiungere che non sono convinto che il crimine cesserebbe se tutti avessero un lavoro cominciamo a dire: quale lavoro? Penso ai miei rapinatori, specie a uno sveglio, buffo, tozzo e nervoso e dubito che lui si scambierebbe mai con gli impiegati postali che rapinava spaccando i vetri con la mazza o penso a un altro mio studente, Matteo, di famiglia facoltosa, uno sempre vestito di Lacoste e Clark tortora o belle maglie da rugby comprate a Picadilly. Nemmeno il carcere gli aveva spettinato la compostezza da pariolino alto e secco, il quale dopo un mese dopo essere uscito era di nuovo dentro per aver ricominciato tale e quale gli stessi colpi negli stessi posti con la stessa tecnica, vuoi che il padre giornalista non gli avrebbe trovato un posto dietro a una scrivania? Parlando con Ornella Favero che so che ha partecipato a questi incontri, mi faceva notare che il lavoro per gli ex detenuti o per quelli che poi escono dal carcere è doppiamente o triplamente problematico anche perché a: si tratta di persone che normalmente il lavoro lo hanno rifiutato in alcuni casi quasi ideologicamente, in altri casi di fatto, cioè gente che non ha mai lavorato se di fatto intendiamo il lavoro onesto; b: che nel carcere nemmeno, cioè quando soggiornavano all’interno del carcere, stava il più delle volte per, anni senza fare nulla; c: molto spesso il lavoro proposto, siccome viene proposto a un detenuto si dice tu lo farai per forza perché essendo un detenuto cosa vuoi di più dalla vita? Molte volte, all’insegnante in carcere o chi opera nel carcere, quindi anche il volontariato, viene richiesta una funzione, sia quella di educazione o rieducazione alla legalità, questo perché malgrado la laicizzazione del carcere, il carcere mantiene tuttora un’impronta, soprattutto nel nostro paese, anche perché il carcere va detto, ha come sua origine, proprio quando è stato inventato, quando è stata inventata l’idea della reclusione, della pena corporale, ha come suo modello, lontano nel tempo, ma piuttosto presente nel modo in cui è strutturato e gestito il modello conventuale. Di fatto quando si è pensato al carcere, il modello di vita reclusa, di vita comunitaria reclusa, presente nella convenzione occidentale, cristiana, era quello del convento, cioè di un luogo chiuso dove si lavora, si studia e si prega in sostanza, quindi in qualche modo questo modello rimane. A parte che fino a qualche anno fa la struttura stessa dei carceri nei centri urbani era quella della fortezza, del convento, anche fisicamente, gli ambienti riconducevano questa situazione. Il carcere ha mantenuto fortemente l’idea che da li si debba uscire migliori, cambiati, che quindi uno degli scopi sia quello rieducativo. Io personalmente, laicamente sono piuttosto avverso a questa idea rieducativa, sono per la riduzione della pena, oggi di fatto il detenuto vive nell’incertezza della pena, viene condannato a dieci anni poi se ne farà quattro, cinque, nove.

25 Chi conosce o frequenta detenuti in regime di semilibertà, il regime di semilibertà è il regime più difficile al mondo da sostenere, perché della vita reale all’individuo viene diluita la parte peggiore, diciamo così, cioè lui esce la mattina, va a lavorare, di solito lavori noiosi e ripetitivi come sono quasi tutti intendiamoci, adesso non voglio fare la lagna sui lavori, e poi rientra in carcere quindi in pratica dell’interezza dell’esistenza si becca la parte più difficile e normalmente a soggetti che questo tipo di vita lo hanno in qualche modo o rifiutato, per cui hanno una doppia difficoltà. Penso al tossicodipendente per esempio, che tende a sentire proprio questi meccanismi oppressivi della vita quotidiana, per cui, molte volte questi regimi di libertà sono poi così chiusi, oppressivi, con percorsi urbani, voi sapete che chi esce in regime di semilibertà deve per forza presentarsi entro certi orari al posto di lavoro, deve poi in certi orari rientrare, ad esempio a Roma in una realtà urbana molto caotica talvolta provoca dei problemi, delle angosce infinite. Saper di dovere rientrare e sapere di non riuscire a farcela proprio perché c’è lo sciopero del tram, perché c’è questo o altro, se tu arrivi dieci minuti dopo, ecco che viene revocato il beneficio, quindi è un tipo di vita veramente molto oppressivo. Con la Favero ragionavo sul fatto che non è il lavoro a essere una specie di balsamo, perché non lo è nemmeno per le persone libere, non lo è per noi intendiamoci, tanto più difficile potrebbe essere per un detenuto o ex detenuto che comunque non ha un’educazione, una capacità di applicazione costante e quotidiana, da cui poi rientra il discorso che facevo prima sull’insegnamento, come effettivamente educazione alla pazienza, l’educazione per esempio allo scorrere del tempo. Ci teniamo, io particolarmente, poi anche i miei colleghi, a fare la scuola nel carcere veramente e astrattamente come la scuola esterna, proprio con l’ora che dura fino a una certa, come lo psicanalista insomma, poi quando è finita basta, non voglio più parlare, perché molto spesso poi con gli insegnanti si stabilisce, giustamente, un rapporto intimo, personale, affettivo, no io sono il tuo professore, non sono n’è il tuo confessore, n’è il tuo amico del cuore, n’è la tua fidanzata, n’è la tua mamma perché poi con gli insegnanti c’è questo rapporto pseudo famigliare. Il surrogato famigliare ovviamente è ancora più frequente, oltre al cameratismo virile, ma questa è proprio una scuola, una cosa formale, con i voti, con le pagelle, non c’è la campanella perché non ci può essere, ma insomma tutto deve essere il più possibile simile a quella struttura, fra l’altro io penso, infatti questo lo dico molto spesso a quelli che non sono mai stati nel carcere, noi tutti abbiamo sperimentato un regime simile, analogo al carcere, cioè noi siamo stati in qualche misura tutti carcerati per cinque ore al giorno, per anni e anni, per cui sappiamo benissimo. Poi andando a studiare in carcere io mi dicevo: già sono carcerati, già sono reclusi e io qui recludo, faccio una reclusione dentro la reclusione, perché faccio fare a loro uno sforzo, una fatica ulteriore, poi ho pensato che questa fatica aveva la finalità che dicevo prima.

E vengo al secondo punto che è quello problematico, soprattutto rispetto a ciò che deve avvenire una volta che le conoscenze acquisite nel carcere devono essere spese all’esterno del carcere, esattamente, questo lo dico agli studenti ma me ne sono convinto quando ero studente, diventando professore me ne sono arciconvinto, di più, la scuola, non solo quella nel carcere, non deve esclusivamente preparare a un tempo migliore, la scuola è nient’altro che una cosa che viene fatta per poi spedirti nel mondo del lavoro, l’unico scopo della scuola è che tu quando uscirai a quattordici, sedici, diciotto anni vai direttamente in officina, in banca, in fabbrica, l’università.

27Cioè la scuola non è null’altro che un lunghissimo, straziante prologo all’ingresso nel mondo del lavoro, cosa che secondo me è orribile da pensare, perché vorrebbe dire che per uno studente normale dodici anni della vita non hanno nessun altra funzione che preparare a quella parte che sarà poi l’ingresso nel mondo del lavoro. Questo è tanto più vero nella realtà carceraria, per due ragioni: primo perché il tempo va riscattato nel momento in cui esso accade cioè la conquista principale dell’insegnante, cosa che fa si che l’insegnante molto spesso non capisca questa entità, tutti i livelli di scuola che la prima cosa che deve fare è che quello che deve avvenire deve avvenire oggi, non deve avvenire fra cinque anni, cioè io non ti sto facendo una lezione sul Leopardi perché poi fra cinque anni entri in banca, perché se no non ha nessun senso farlo. Altrimenti sarebbe meglio abolire tutte le cose che non mirano esclusivamente all’ingresso nel mondo del lavoro, poi questo tempo è tempo della vita, tanto quanto sarà il tempo della vita del mondo del lavoro, questa è più vera nel carcere dove il primo scopo non è quello del mondo che sarà da liberi, ma è quello della vivificazione del mondo attuale, della vita attuale. Questo diventa tanto più vero, cosa che gli insegnanti non tengono conto, loro dicono è stata una mattina noiosa a scuola, io penso che una mattina noiosa a scuola sia una sconfitta in sé, sia una perdita in sé, una perdita secca di capitale umano, questo è tanto più vero nel carcere in quanto pochi sono poi i detenuti che arriveranno a ultimare il percorso scolastico. In realtà diplomati nel senso vero e proprio del termine sono pochi rispetto alla grande massa degli studenti che frequentano i corsi scolastici, allora bisogna ragionare sempre su un doppio binario, uno è il binario che guarda fra cinque anni, fra dieci anni o tra un anno, l’altro è il binario dell’immediatezza. È nell’immediatezza che l’insegnante deve di fatto agire, quando parlo del riscatto del tempo uso questo vecchio termine forse paleomarxista, però di fatto parlo proprio del tempo che viene vissuto nel rapporto interpersonale fra l’insegnante e lo studente, è quello la materia prima, non è soltanto la sua finalizzazione.

Questo secondo me è tenuto pochissimo in conto nella scuola in generale e anche molto poco nella scuola carceraria. Un’ultima osservazione, proprio per la diversità delle ragioni per cui uno può partecipare a un incontro come questo, sarebbe molto interessante sapere cosa uno chiede, quale é la sua ignoranza, poi è dall’ignoranza che nasce tutto no? Rispetto al carcere, un ultima cosa che è legata a chi opera come volontario all’interno, magari provenendo da esperienze di volontariato di altro tipo, sono i detenuti stessi ad averlo più volte sottolineato, fatto notare, il detenuto non appartiene alla categoria canonica del soggetto debole, o non vi appartiene per intero, o vi appartiene temporaneamente per il fatto stesso di essere recluso ma in sé il detenuto non è l’orfano, non è l’anziano, non è la persona debole, anzi molte volte il detenuto è umanamente parlando una persona che è più forte di te, che ha un carisma, una personalità, un fisico che possono essere addirittura assai più forti della persona che si trova a lavorargli vicino per aiutarlo. Il paradosso è che si vada ad aiutare una persona che molte volte sono più forti di te per molte buone ragioni. Di questo ne ridiamo molto spesso con gli amici volontari o con i detenuti che scherzano sul fatto che arrivano i volontari e cominciano loro a confessarsi e a piangere sulla spalla del detenuto per il fatto che il marito non le capisce, che i figli non vanno bene e i detenuti dicono mi tocca fare la consulenza, questo è un dato di fatto. C’è stato un anno in cui io avevo la seconda classe e ricordo che i detenuti della prima venivano da me dopo un mese, due mesi di scuola e dicevano: "a professor, non se ne può più. Questa ogni volta che entra si mette a piangere, non ce la facciamo perché vorremmo fare scuola invece c’è questa nuova professoressa di italiano, molto sensibile, con dei suoi problemi", che ovviamente al contatto ruvido con la realtà, emotivamente sconvolgente del carcere, quando diceva non so al detenuto cosa hai fatto stamattina? Ho visto mia figlia e lei si metteva a piangere per empatia, una cosa nobilissima intendiamoci non voglio essere antipatico, però chiaramente questa disponibilità emotiva, questa fragilità emotiva stupiva i detenuti. Fra l’altro anche fare rientrare automaticamente il detenuto, in quanto detenuto, come individuo svantaggiato, bisogna sempre ricordarsi che questo è soltanto per la sua temporanea condizione di detenuto. Poi ci sono dei casi e soprattutto parlo di detenuti stranieri e dei detenuti malati, perché poi la grossa e vera peste della condizione carceraria è quella della condizione sanitaria e della condizione degli stranieri, questo è una specie di un pozzo senza fondo, ma non è il momento di parlarne, ma in tutti gli altri casi insomma, nel volontariato occorre tenere presente questo fatto, insomma, in che modo poi questo volontariato si esplica veramente. Quale é la sua funzione, nel carcere questo non è definito una volta per tutte, fra l’altro un’ultima cosa, anche parlando di carceri, io ingenuamente lo pensavo prima che cominciassi a lavorare, tutti più o meno vedono il carcere come un luogo, i carceri italiani come dei luoghi più o meno equivalenti gli uni con gli altri, dove ci sono delle persone con il pigiama a strisce che più o meno vivono tutti nello stesso modo. In realtà le realtà effettive dei vari istituti penitenziari sono assolutamente diverse, come potrebbe essere per gli ospedali italiani. No nei carceri non capiti mai in posti veramente belli, però ci sono delle realtà che funzionano molto meglio di altre, ci sono dei luoghi assolutamente infernali dimenticati da Dio e dagli uomini, poi fra l’altro la presenza, io credo, degli esterni, è sempre positiva, sempre e comunque perché in questo modo l’istituzione carceraria sa di non essere extra territoriale. Se ci sono persone che entrano nel carcere con una certa continuità, allora l’istituzione carceraria di per se non può garantirsi quella extra territorialità che è quella che poi porta ai soprusi, alla malasanità, ecc.. cioè si sa che ci sono occhi esterni che in qualche modo vedono, vedono e fanno la spola con l’esterno. Chiudo proprio su questa figura ulteriore che il volontario e l’insegnante possono rappresentare in carcere che è quello proprio di messaggero, di collegamento fra le realtà interne e la realtà esterna, una cosa che aveva scritto in questo libro, l’aveva scritto Adriano Sofri che sembrava molto calzante, dovuta al fatto che molto spesso i detenuti non possono o non sanno o non vogliono raccontare in prima persona la loro realtà, che sono impossibilitati a farlo, questo per quale ragione? Perché vivendo immersi dentro la realtà, non possono poi in qualche modo testimoniarla da esterni, oppure non vogliono farlo, oppure non gli conviene farlo, per le ragioni che ho detto prima. Allora è necessario che esistano queste figure intermedie che in qualche modo non sono ne dentro ne fuori, l’insegnante e il volontario è questa figura che è contemporaneamente dentro e fuori, allora Sofri scriveva una cosa che è esattamente corrispondente a quello che io provo cioè, sono come quelli che si chiamavano gli uomini sandwich, che io in realtà non ho mai visto nella mia vita, non so chi siano queste persone, persino nelle barzellette che giravano una volta, una cosa pubblicitaria americana con questi cartelli avanti e dietro appesi, allora quando l’esterno entra nel carcere sta portando il mondo all’esterno e quindi porta dentro il fuori, quando poi alla fine della sua giornata esce ecco che rovescia questi pannelli e sta portando la realtà che ha visto, che ha vissuto all’interno, la sta portando fuori. Questa funzione, è una funzione molto importante, un po’ anche di impollinamento, come l’ape che porta a spasso questa cosa, poi il fatto che noi siamo le uniche persone a lavorare dentro il carcere che non fanno parte dell’istituzione carceraria, perché gli psicologi, gli assistenti sociali, personale medico, personale carcerario, poi di fatto andranno tutti quanti a decidere del destino stesso del detenuto.

30Voglio dire un ultima cosa. Questo è un altro di quei punti contraddittori che sottopongo alla vostra critica, attenzione, perché non sono ancora convinto di quale sia la cosa giusta. Siccome l’insegnante passa, più di ogni altra persona, all’interno del carcere, del tempo con il detenuto, non solo del tempo nella giornata quindi può passare due, tre, quattro ore al giorno, e lo può passare, come è successo con gli studenti che ho avuto negli ultimi cinque anni, per un lungo periodo, finisce per essere di gran lunga la persona che meglio conosce il detenuto all’interno del carcere, solo gli agenti di custodia possono dire altrettanto. Ebbene quando poi si tratta di fare l’equipe per decidere se il detenuto potrà accedere al regime di semilibertà o meno, la persona che meglio conosce il detenuto, non è chiamata a partecipare a questa decisione. Meglio, sono stato massacrato quando ho detto questo, perché tutti gli insegnanti un po’ per frustrazione un po’ per qualche altra ragione di rivendicazione del loro profilo professionale; dicevo dobbiamo chiedere che la nostra figura entri a far parte di quel pool di persone che decidono della libertà del detenuto, dei permessi. Se facciamo così è la fine, siamo fritti, allora noi diventeremo anche noi dei guardiani a tutti gli effetti, quindi perderemmo totalmente questa possibilità di neutralità, neutralità fittizia d’accordo, però che è molto preziosa, e diventeremo funzionari del carcere. Quando feci osservare questa cosa, molti mi guardavano un poco scandalizzati, come se io dicessi: noi insegnanti dobbiamo contare di meno, loro ingenuamente volevano contare di più, cioè diventare decisivi all’interno del percorso trattamentale, io mi sono opposto poi fortunatamente la proposta si è scontrata con la realtà, poi noi siamo dipendenti del Ministero dell’istruzione quindi avrebbe comportato anche un conflitto ministeriale talmente difficile da risolvere che fortunatamente si è spenta questa rivendicazione. Però ancora una volta a dire come nella stessa azione occorre poi valutare molto bene quelli che sono gli effettivi, l’effettiva efficacia no? Indipendentemente dalla posizione che si rappresenta nel carcere, io penso che queste siano delle osservazioni su cui credo si possa poi discutere, poi sempre alla luce di quelli che sono gli interessi concreti.

 

Silvia Bernardi

 

Volevo far notare che questa iniziativa viene proposta proprio nell’ottica della inclusione, nel recupero dell’individuo carcerato e del suo inserimento nel lavoro, non c’è nessun riferimento all’interazione, educazione del carcerato. Io penso che il discorso della redenzione, del comportamento, il carcerato esce, figlio del signorotto, il giornalista e arriva a fare gli stessi scassinamenti, negli stessi posti con gli stessi metodi, per me nel comportamento deviante, la grande problematica dell’individuo che non ha maturato procedimenti e processi di socializzazione, perché questo? Cosa chiede la società ad un individuo? Cosa ha chiesto all’individuo per armonizzare col suo contesto sociale? Quindi per me il nostro comportamento è un processo mentale, cosa è successo? La scuola cosa ha dato a questo individuo? Perché il carcerato è il primo e più grande fallimento dell’istruzione di base, questa Moratti che vuole gettare nel mondo del lavoro, questa mania che vuole preparare alla professionalità e preparare al lavoro, questo discorso qui che cosa ha prodotto e cosa può produrre nella formazione di un individuo? Per me la stereotipia, da anni la sto studiando, è un meccanismo meccanico che porta alla ripetizione, abitudini acquisite, nella prima infanzia, nella seconda infanzia, conflitti coi genitori, incapacità di incrementare le regole, incapacità di farsi dare la reciprocità e quindi la incapacità di interiorizzare le regole, che potremmo chiamare anche incapacità totale di superego, sarebbe visto poi generare questo individuo. Per me poi la scuola come dice lei non significa imparare la regola e il comportamento, la regola è anche lo schema di matematica, la regola è anche il processo logico deduttivo, per me l’educazione è veramente il problema centrale e l’individuo, la tragedia è che ci hanno portato all’avviamento a quattordici anni invece di, come Brocca voleva, elevare l’obbligo al biennio e poi al triennio.

 

Pubblico

 

Volevo appunto fare riferimento all’intervento, secondo me l’approccio che viene utilizzato è proprio quello che ha a che fare con l’educazione, del trattamento, percorsi trattamentali, in cui è possibile educare alla legalità, quanto poi la procedura ti da, nel senso che se si studia il percorso attraverso cui si risolve il teorema o si risolve un’equazione o si acquisisce un metodo di ricerca o altro, si realizza una sequenza procedurale si posticipa in qualche modo il riflettore nel tempo della soddisfazione immediata, del piacere, viene in qualche modo destrutturato in questa regressione al tutto e subito. Si innesca molto facilmente in progetti, nella realtà ci sono delle sequenze logiche da realizzare, il poter raggiungere un obiettivo, una meta, non come nello stupro che si consuma immediatamente il proprio desiderio, ma occorre sedurre, negoziare.

 

Pubblico

 

Quando si dice che il carcerato ha tempo circolare, non è come per noi che avviene in modo lineare, perché il carcerato ha tutto il tempo di pensare quando uscirà cosa farà, quando uscirà farà le stesse cose, poi rientrerà in carcere, sistematicamente viene come a modificarsi da solo, come se esiste un momento per quello che può essere presa la scuola come tante altre cose, in modo strumentale. Il risultato finale lo vedi nella frequenza che i ragazzi hanno per cui quando sei nelle classi finali ed hai tre o quattro persone vuol dire che qualifica e ti da delle cose, per cui in una situazione dove il tempo è circolare, in qualcosa che modifica questo concetto, perché l’apprendimento o per le lingue, o tutte una serie di cose che per la persona in quel momento sono importanti per modificare la sua condizione, per non essere più quello che può pensare malamente, definisce anche la partecipazione a questo discorso parziale, che può essere il discorso dello studio, viene la continuità che può avere nel tempo fino alla fine dell’uscita. Credo che una classe che va esaurendosi, è anche il segnale che l’insegnante non è stato capace di inserire una serie di elementi che poi sono diversi e acquisiti dalla persona gli dessero la possibilità di apprendere una serie di cose che gli servono e quindi acquisisce come esempio che gli servirà. L’altro discorso sul quale non sono molto d’accordo è quello dell’attenti alla affettività, allora noi abbiamo fatto esperienze alla Settimini? Che era molto particolare, dove le regole erano ridefinite, insieme al discorso della custodia, dove il discorso dell’affettività era forte, se noi pensiamo.. è vero che poi il governo ha dato credito a gente normale, ma nessuno ci dice se in quelle famiglie normali c’era delle cose che mancavano, io credo che siano frutto di una serie di mancanze. Allora giocare con loro e immettere elementi che non hanno mai vissuto, rompe anche il discorso della strumentalità e nell’arco del tempo, sono passati decine e decine di ragazzi, abbiamo visto molti di loro che erano delinquentoni, che sono usciti e subito ritornati in carcere, uno degli elementi che hanno sempre contestato alla nostra esperienza di Rimini era ma ci sono poche persone c’erano dieci dodici ragazzi, con i quali mi chiamavano a lavorare ma che nell’arco del tempo, dopo dieci anni di lavoro sono moltissimi di loro che ancora mi chiamano, che non sono più entrati in carcere, evidentemente qualcosa ha funzionato in queste situazioni di attesa del fuori, invece il dentro è diventato un momento di crescita, di prospettiva diversa. Questi sono elementi, il tempo, le regole che sono interessanti.

 

Edoardo Albinati

 

Molto brevemente, sull’affettività io intendevo questo: forse ho bruciato le tappe del mio discorso, in qualche modo anche la figura professionale dell’insegnante va preservata e non va confusa con quello che viene a parlare con te. L’insegnante non è quello che viene a risolvere i tuoi problemi, ma viene proprio per preservare lo specifico disciplinare che generalmente oggi nella scuola, io tendo continuamente a stabilire queste analogie, fra la scuola carceraria e la scuola esterna si va perdendo, anche la specificità disciplinare, di cui invece vado orgoglioso, nel senso che io voglio insegnare la poesia del Petrarca cioè non voglio parlarvi del problema del mondo o dell’anima. Anche all’interno del carcere, salvaguardare la propria figura professionale di insegnante è importante perché se no ho visto che si confondono i ruoli, si comincia a sbarcare, scusatemi l’espressione, allora poi i detenuti li consideri quelli con cui ci fai delle chiacchiere. Ragazzo mio non è questo che stiamo a fare, poi è chiaro il giorno prima di Natale lo facciamo. È un costo molto elevato anche per me in qualche misura, però sento che in qualche misura va anche mantenuta questa salutare distanza, cosa che talvolta nella figura del volontario che va li soltanto per portare conforto, non si riesce a raggiungere, porta poi allo sfruttamento dei volontari. Ci sono stati molto spesso casi di grande strumentalizzazione dei volontari, e i volontari sono diventati di fatto, proprio per il fatto di avere a che fare con detenuti di forte personalità e anche dei grandi furbacchioni, ci sono i volontari messi nei guai per il fatto di venire incontro, hanno cominciato a fare delle telefonate, fammi questo, fammi quello, vammi a prendere quella cosa, cose che assolutamente va evitata. Quindi quando parlavo di questa affettività intendo dire un modo umano ma anche professionale di gestirla, che ti permetta poi di tornare il giorno dopo con una faccia, evitando collusioni e ricatto che può essere sentimentale.

35Ricorro a questa immagine perché più volte ho notato quelli come momenti cruciali dell’insegnamento, io ora sto parlando dell’insegnamento non di altre attività, e cioè quelli in cui piuttosto che guardarci negli occhi, piuttosto che avere i nostri volti rivolti l’uno verso l’altro, sia gli insegnanti che gli studenti, eravamo rivolti tutti verso una terza cosa che è l’oggetto disciplinare. Questa è la specificità disciplinare che io difendo, cioè il momento in cui l’insegnante non sta comunicando col detenuto e il detenuto non sta comunicando con l’insegnante ma entrambi sono rivolti verso una cosa che è terza rispetto a loro, che è la materia, il quadro, il teorema, la società italiana, quello che volete, cioè io e il mio studente dobbiamo trovare questo terreno comune in cui io devo incontrare il nigeriano, il calabrese, il rapinatore e quello che ha ammazzato la moglie col coltello, terreno comune che è molto difficile da trovare per cui se dovessimo trovarlo in mezzo a noi sarebbe molto difficile trovarlo: Molto spesso sono arrivato a degli inevitabili scontri con delle concezioni che erano assolutamente irriducibili l’una all’altra, lo dico nel libro ad esempio parlando del sequestro di persona, io ho parlato e riparlato, mi sono avvicinato il più possibile ma la concezione del sequestro di persona da parte di alcuni banditi sardi con cui ho lavorato, si arriva a un punto in cui non ci si capisce, cioè si appartiene a modalità di pensiero che sono inconciliabili fra loro. Piuttosto di cercare questo punto intermedio tra di noi, giriamoci tutti e due, adesso sto parlando come se io avessi un solo studente e guardiamo una cosa che è terza, non è mia e non è tua ma è terza, allora li avviene una comunione, io personalmente lo vedo con gli amici, con gli individui, non tanto quando io mi vedo con l’amico, ma quando io e l’amico stiamo facendo una cosa che sta fuori da noi, bisogna trovare una possibile terzietà che io personalmente ho visto accadere, per esempio mi ha dato un grosso conforto nella mia disciplina che è la letteratura italiana, cioè talvolta vedo che il racconto di Edgar Allan Poe mi è lontano a me quanto al detenuto, non è che è più vicino a me perché io sono insegnante e li ci incontriamo, li si soggiorna, li si forma una comunità. La comunità non si deve per forza formare qui, si può formare in un progetto in cui angolo terminale è esterno. Può essere vero il fallimento nelle classi poco numerose ma in realtà purtroppo non avviene per questo, avviene per una cosa positiva, i detenuti escono, positiva intendo che sono ben contento quando non ce l’ho più perché se ne sono andati, una cosa negativa? Vengono trasferiti, il fatto che frequentano una scuola non conta nulla, quindi la persona che sta frequentando la scuola viene sbattuta a Viterbo, a Cagliari. Il "ma come frequentavo la scuola" non importa nulla. La terza scuola è che muoiono, io ho avuto detenuti che non sono arrivati in fondo perché hanno tirato le cuoia, quindi questa descrizione altamente drammatica in alcuni casi è dovuto all’abbandono, ma l’abbandono avviene quasi subito, ma se uno è già arrivato alla terza, se molla, non è che molla perché si è stufato, molla perché o esce o è trasferito o muore quindi non lo puoi più avere con te. Sulla recidiva ci sono dati in percentuali molto significative, dicono che esistono recidive nell’ordine del sessanta, settanta percento quindi quando tu stai davanti a dieci persone sai che sei o sette di queste persone torneranno a delinquere se questo è il trend, se continua così, cose di cui tenere conto, assolutamente tenere conto. Il livello della consapevolezza che può impedire la recidiva da una parte è quello della crescita personale, dall’altra parte anche per non sembrare disfattisti o negativi nei confronti di questo fatto dell’inserimento del lavoro, in alcuni casi avviene proprio per le ragioni della mancanza di un impiego, di un lavoro, di una opportunità. Io ho avuto dei miei studenti che sono usciti, hanno sbattuto la testa contro le porte chiuse e poi nel giro di sei mesi, un anno, sono tornati a fare il criminale come facevano prima. In quei casi si può dire che è stato per quello, non perché la loro mente non fosse cresciuta, ma perché non sapevano come mettere insieme la giornata. Io cito uno dei casi più drammatici per noi come insegnanti, un vero fallimento, il nostro miglior studente in assoluto, nigeriano, fra l’altro di estrazione sociale elevata, spacciatore di droga per l’ambiente diciamo diplomatico in cui si muoveva, bravissimo studente, diplomato col massimo dei voti, iscritto a teologia. È andato in semilibertà, ha sperimentato la semilibertà che è quel regime di cui parlavo prima, dopo un anno l’hanno ribeccato all’aeroporto con carichi ingenti di droga, si è fatto un paio di anni di galera ed è tornato da noi, ce lo siamo ritrovato davanti, quello è stato un grande momento di emozione, soprattutto da parte di questa professoressa, pianti, ma come, e allora? E lui ha detto, avevo bisogno di soldi per ricominciare, alla fine la nuda radice economica, io che ho dovuto poi consolare tutte le professoresse che si sbattevano il petto, hai visto, proprio lui, no avete fatto quello che dovevate fare, l’avete fatto benissimo, avete fatto un grande studente, che poi questo sia la garanzia che quello non commette più crimini, io sinceramente non lo garantirei nemmeno per mio fratello, figurarsi per ex spacciatore. Anche questo un po’ umanamente, un certo realismo, io devo fare quello che faccio poi se questo garantisce un recupero, una riabilitazione, io sono il primo ad essere felice, se questo non avviene non sono Dio.

 

Werther Mussoni

 

Vado schematicamente. La prima cosa è questa: io rappresento il consorzio sociale romagnolo che è un consorzio di cooperative sociali di tipo B, che sono quelle che si interessano e operano per creare opportunità lavorative per le aree disagiate in generale. A Rimini questo consorzio è in piedi da sei, sette anni e raccoglie questo tipo di cooperative sociali. La prima cosa che mi viene da pensare è perché pensare al lavoro, lavorare è, per molti, per moltissimi una difficoltà, molte volte chi ce lo fa fare? Il lavoro spesso è dignità, qualunque lavoro, cioè un lavoro che ti permetta di essere autonomo e indipendente, camminare a testa alta perché non devi chiedere favori a nessuno, sei in un ambiente dove hai dei diritti, non hai bisogno di chiedere favori, soprattutto in queste aree di disagio siamo abituati a sentire queste, persone a chiedere favori e vediamo anche che la dignità è persa in questo, cioè da chi pretende ancora di creare una società dove il diritto viene messo da parte e il favore è quello che poi ti permette di mantenere il potere. Questa qui è una storia molto vecchia ma che si ripete, questa idea di continuare a vivere all’interno di una mentalità dove si chiedono favori per noi è normale anche se veramente poco dignitosa. Il fatto di lavorare, io ho visto molte volte, spessissimo, anche in giovani o in persone che hanno passato una parte della loro vita in carcere che lavorare e avere la possibilità di non chiedere favori ha portato al cambiamento. Allora soprattutto per quanto riguarda l’evolversi dei giovani, delle persone che hanno un passato dentro un carcere mi sembra importante creare opportunità lavorative, qualunque siano, anche se sono brutte, però mi permettono di camminare a testa alta. Noi non abbiamo molte di queste possibilità, in quindici cooperative ce ne sono due o tre che si sono un po’ aperte più di altre a questa problematica, sta cercando di creare o allargare una certa attività a queste persone che vivono in carcere, soprattutto nel carcere di Rimini, per un morivo molto semplice, organizzare il lavoro. Perché da una parte c’è la semilibertà con degli orari rigidi e quindi sulla semilibertà sei costretto a proporre lavori che hanno un inizio e una fine molto definito, che non è facile oggi come oggi con questa esigenza di elasticità nel lavoro e poi c’è l’altra parte che sono le misure alternative che è molto più facile anche se poi anche lì se cambiano gli orari, se c’è bisogno di fare lo straordinario, cambiare orario di lavoro, c’è da fare tutta una serie di domande e domandine, l’apparato burocratico che non permette di muoversi liberamente come occorrerebbe. Le cooperative sociali dicevo. Sono soprattutto le cooperative sociali che fanno questa cosa, primo perché hanno la possibilità per queste persone di ridurre, anzi azzerare i contributi sociali cioè l’Inps viene pagata dallo stato, la Legge 381 del ‘91 nell’articolo quattro, elenca una serie di figure per le quali l’assunzione da diritto alla cooperativa di non pagare niente, di demandare allo stato il versamento degli oneri sociali, non parliamo di poco, parliamo di grosso modo, di un trenta, trentacinque percento del costo totale. Non è poco, dall’altra parte poi ci sono tutti una serie di problemi da risolvere. Però questo c’è, su questo si allaccia tutta una serie di problematiche legate ai lavori con i comuni o con gli enti pubblici che da una parte pretendono, visto che spendete meno dovete farci pagare meno, un marchingegno poco dignitoso perché si torna sempre al discorso di prima. Per creare opportunità lavorative cosa stiamo facendo? Perché poi la difficoltà è quella, il momento dove si dice che è aumentata la disoccupazione, io ho le mie perplessità, che fosse aumentata per quelli che fanno il part time, quelli che fanno due ore al giorno, rispetto a quella di due anni fa che ne faceva otto, probabilmente è quella, che il lavoro effettivamente è difficile da trovare. Abbiamo cominciato a discutere e ad approfondire coi comuni o gli enti pubblici di queste problematiche ed inserimenti lavorativi da diversi anni e stiamo arrivando a dei protocolli d’intesa, siamo arrivati ad approvare un protocollo di intesa con la Ausl di Rimini, la quale riconosce nella cooperazione sociale di Rimini un valido interlocutore per gli inserimenti lavorativi per tanto una serie di lavori che in qualche modo ha intenzione di instaurare le passa direttamente alle cooperative sociali, in questo caso il consorzio era referente della quasi totalità delle cooperative sociali di Rimini e referente anche per l’Ausl. Pensate solamente che per quanto riguarda i posti di lavoro creati con rapporti creati con la Agna, ex Agna era a Rimini, si aggira intorno ai centoventi posti di lavoro, non sono pochi se poi consideriamo che il cinquanta percento grosso modo di questi posti di lavoro sono dell’area disabili, di quell’elenco di caratteristiche riportate nell’articolo quattro della trentuno, non è effettivamente poco, si sta allargando questa possibilità proprio perché gli enti pubblici stanno cercando di risparmiare, personale da una parte e dall’altra e pensano, credo sbagliando, speriamo, che con le cooperative sociali risparmiano, un discorso molto freddo, anche trucido di un dirigente di una di queste aziende diceva: affinché noi spendiamo meno della metà di un nostro operaio il lavoro ve lo diamo a voi, se spendiamo di più allora cominciamo a fare gare d’appalto, questo ha messo in allarme il consorzio che si sta adoperando affinché, non solo l’Ausl che ha già fatto un protocollo d’intesa, ma i comuni della provincia di Rimini, adottino un protocollo d’intesa che se non altro faccia riacquistare dignità alle cooperative sociali e soprattutto gli allarghi le possibilità di lavoro, io non è che ho molto altro da dire, poi se rimane un po’ di tempo per discutere o parlare di questioni tecniche di questa cosa sono a disposizione.

40Un altro punto importante è il bilancio sociale non è altro che, lo dico perché è una cosa importante soprattutto per le cooperative sociali, la cooperativa non ha lo scopo di lucro, tutte le cooperative, poi quelle sociali hanno un altro scopo che è quello di creare il benessere della società scritto nello statuto, è chiaro che il bilancio non può essere un mero bilancio o un bilancio con numeri, perché non è questo. Il nostro scopo sociale, quindi è un bilancio che va ad approfondire in che modo o come si stanno

approfondendo gli scopi sociali della cooperativa. Se la cooperativa ha lo scopo sociale di creare benessere nella società dovrà mettere per iscritto che cosa ha creato di benessere in questa società, che rapporti umani ha creato, come ha distribuito i soldi e quale occupazione ha creato e questo è il bilancio sociale detto in due parole, noi lo abbiamo fatto, altre lo fanno, sto aspettando che l’Ausl di Rimini lo faccia, così sembra che finalmente l’Ausl faccia il bilancio sociale.

 

Guido Fontana

 

La formazione professionale è rivolta a detenuti all’interno del carcere, io faccio parte di un centro di formazione professionale che da dieci anni all’interno di una rete territoriale. Cerchiamo di fare dei tentativi di formazione professionale rivolti a giovani detenuti. Io penso che l’esperienza che abbiamo fatto in questi anni sia valida, prima di tutto per una ragione, perché è stata un’esperienza calata dall’alto di sola e pura formazione professionale, si è cercato di costruire all’inizio degli anni novanta, una rete che si occupasse di questi, tra virgolette, soggetti svantaggiati, si era cominciato a parlare negli anni novanta di lavorare con i detenuti, di progettare soggetti di prevenzione giornaliera, di disagio giovanile, di devianza così via e penso che c’era nella provincia di Rimini delle persone pensanti che appartenevano a diverse istituzioni, questo lo dico perché mi voglio collegare alla fine a Equal. Sono riusciti a creare delle sinergie attraverso queste persone, per esempio nel carcere di Rimini, che è totalmente diverso dall’idea di carcere che ho sentito descrivere stamattina, in fondo è un piccolo carcere dove mi sembra che cinquantacinque percento sono extracomunitari come si dice in gergo nelle nostre campagne la maggior parte sono ladri di polli no? In confronto a quello che ho sentito dire, già in una realtà piccola come Rimini, all’interno del carcere uno dei fatti innovativi è stato la creazione di questa struttura chiamata Seaf che era al di fuori del cancello, dal blocco, però era sempre dentro le mura del carcere.

Comunque una struttura che accoglieva giovani tossicodipendenti, una realtà carceraria legata alle problematiche della tossicodipendenza, giovani tossici che avevano accettato di fare un percorso terapeutico ed era stata costruita una struttura apposita per questo tipo di intervento. È chiaro che parecchi giovani tossicodipendenti accettavano di passare, tra virgolette, dal carcere centrale, a questa struttura, per una questione di interesse, per tornare al discorso che lui faceva stamattina. Noi abbiamo iniziato i nostri primi interventi di formazione professionale all’interno di questa struttura perciò con un tentativo di formazione professionale, poi vado a spiegare che cosa intendo all’interno di una struttura che comunque aveva trovato una sua mediazione con la sua struttura del carcere centrale. Chi lavorava in questa struttura erano diversi soggetti, c’erano soggetti all’interno del carcere e c’erano soggetti sul territorio, noi facevamo parte di una rete di un anello che era molto più complesso, il Ser.T. ad esempio si era occupato, si sarebbe occupato di tutto l’aspetto terapeutico, di recupero di questi giovani tossicodipendenti, le cooperative sociali di cui parlava prima Werther si è resa disponibile per esperienze sul territorio, quando potevano uscire e noi come centro di formazione professionale ci eravamo occupati di fare formazione lavoro. La provincia aveva accettato di aderire a questa idea progettuale stanziando dei finanziamenti verso questa realtà carceraria, cioè per la prima volta la formazione professionale, decise di stanziare finanziamenti che fino ad ora erano stati destinati a nostri cittadini o anche a extra comunitari, però a coloro che avevano problemi di natura carceraria. C’è una rete, dove ognuno faceva il proprio gioco, noi come centro di formazione professionale ci eravamo anche resi disponibili, una volta che il ragazzo fosse uscito dalla struttura carceraria a fare un progetto per un inserimento lavorativo successivo. Dentro a questa rete poi c’erano anche le comunità terapeutiche e dopo un periodo che erano all’interno di questa struttura potevano finire in comunità terapeutica sul territorio. Fatta questa breve carrellata, io penso che a Rimini vada ricostruita una capacità ideale di progettare, perché costruire una rete è molto facile, oggi se non sei in rete non puoi accedere a nessun tipo di finanziamento, perciò potrebbe essere solo una necessità, una tattica, un’idea che ci permetta di arrivare a certi finanziamenti. Quella rete aveva una idea differente, aveva anche la voglia di capire, aveva la curiosità e aveva la voglia di progettare , penso che per parecchi anni la storia di diverse politiche sociali fatte a Rimini sia stata dentro a questa idea, dove delle persone hanno pensato, si sono confrontati, hanno creato nuovi servizi, hanno creato nuovi progetti perché non è sufficiente parlare solo di rete, di comodità, perché non si accede a nessun tipo di finanziamento oggi se non si è in rete con qualche d’uno, o se non sei in rete con altre istituzioni, o sei in rete con un altro stato europeo, con un’altra associazione e così via. Parecchie volte si parla di rete ma si parla in maniera impropria, si parla per comodità, lavorare con soggetti svantaggiati, soprattutto penso ai detenuti che io conosco pochissimo, perché all’interno del carcere sarò entrato, grazie a Dio, una quindicina di volte, vengo dalla campagna per cui del carcerato, per stereotipo, ho sempre avuto timore da quando ero ragazzino, per me rete significa anche avere la passione di pensare attraverso delle idealità e avere la passione di progettare insieme in funzione di qualche cosa. La formazione professionale che abbiamo pensato su questa rete qui è stata molto semplice, prima di tutto l’abbiamo pensata come supporto e integrazione al programma, al percorso terapeutico presente all’interno delle strutture, ci siamo pensati come integrazione di un lavoro che altri facevano all’interno di quelle strutture, non come azione primaria, azione di completamento e integrazione. L’altra idea che penso abbiamo avuto in quel periodo è che comunque attraverso la formazione professionale recuperare una relazione, io parlo di giovani tossicodipendenti, recuperare una relazione e attraverso questa relazione rifare innamorare il giovane detenuto al lavoro, attraverso lezioni con maestri significativi. Abbiamo sempre inserito per le attività interne non degli insegnanti qualsiasi ma degli artigiani, cioè delle persone che conoscevano il mondo del lavoro e allo stesso tempo erano in grado di trasmettere una passione, di trasmettere una idea che il lavoro tutto sommato può avere un valore. Questo è stato un po’ il movimento che abbiamo fatto, inoltre abbiamo lavorato sulle potenzialità, , per esempio noi nella formazione professionale le chiamiamo le competenze trasversali, io penso che i nostri ragazzi "normali", nessuno di loro ha le competenze trasversali che io ho visto in questi giovani detenuti, o questi giovani tossicodipendenti, o questi giovani a rischio, perché lavoriamo con centri di aggregazione giovanile. Per esempio la capacità di autonomia, questa bella parola che piace molto alla formazione professionale, io credo siano artisti da questo punto di vista, come risolvere i problemi, loro sono molto più potenti di noi, dopo è la droga che li indebolisce, il discorso della capacità di relazionarsi con gli altri, la conoscenza che loro avevano dell’organizzazione sociale, ecco tutte queste competenze trasversali, che oggi la scuola sta rincorrendo a destra e a sinistra per certificarle addirittura, sono delle potenzialità reali presenti in questi soggetti. Il fare leva sulle potenzialità che loro hanno per ricostruire una relazione, non una relazione astratta affettiva come si diceva stamattina, è chiaro che io devo lavorare su una relazione che mi permetta di ricostruire una fiducia, questa è stata una strada, ma anche le competenze professionali, anche un giovane tossicodipendente ha una miriade di esperienze professionali e se il dubbio era lo facciamo il curriculum o non lo facciamo? Perché se mi presento in quel posto di lavoro capiscono subito che io sono stato in una storia particolare, lo facciamo o non lo facciamo il curriculum? Però è anche vero che tante competenze professionali, tanti lavori che loro hanno fatto, hanno comunque acquisito delle competenze professionali, l’abilità dove sta? Sta nel scegliere insieme a loro la competenza di cui si sono innamorati di più per poi professionalizzarla in un momento successivo o all’interno della comunità, oppure nel nostro centro di formazione professionale. Un altro punto che credo sia importante dire, è la fase di accompagno nelle scelte future, sembra una parola moralistica ma non lo è se la si fa in maniera scientifica, cioè la fase di accompagno è comunque un lavoro di sportello che può essere fatto anche all’interno del carcere, ma può essere fatto anche all’interno del nostro centro, in altre realtà, dove all’interno di questa fase di accompagno viene tentato di costruire un progetto, all’interno di queste dinamiche di rapporti per far si che il giovane detenuto uscito dal carcere possa essere inserito con un minimo di paracadute nel modo del lavoro, nella realtà produttiva che possibilmente lui abbia scelto. Quando dico accompagno alle scelte future, noi intendiamo affiancamento, orientamento e gestione, io credo che questa sia una di quelle azioni che noi dobbiamo riprendere e inserire in una eventuale rete sociale, quando dico persone svantaggiate non intendo solo giovani detenuti, o solo i giovani tossicodipendenti, intendo i giovani svantaggiati, lo sportello di accompagno alle scelte future potrebbe essere, tra l’altro non richiede particolari finanziamenti, uno di quegli strumenti che ci possono permettere di stabilire delle relazioni, di valutarle e di conseguenza favorirle in questo senso. Quale formazione professionale? Spesso la nostra idea è di offrire una formazione professionale, per andare a ricoprire posti di lavoro che i nostri giovani oggi non vogliono più fare e questo è un problema abbastanza serio. Io penso che nell’immaginario nostro ma anche nella politica riminese ci stia un po’ questo, è un discorso moralistico, io penso che nei confronti di un giovane detenuto, di uno svantaggiato va alzato il livello di opportunità, è chiaro che se io lo formo a diventare un bravo saldatore il lavoro lo trova domani, questa può essere una tattica cioè uno dice esco dalla comunità terapeutica, esco dal carcere, per il momento faccio questo, però l’agire pedagogico o l’agire sociale verso questo tipo di utenza è anche andare a capire i sogni e l’idea di prospettiva reale che il giovane vorrebbe investire e che non ha avuto come opportunità. Spesso i giovani fanno queste scelte, parecchi extracomunitari finiscono in queste storie perché non hanno avuto delle opportunità che altri hanno avuto, è vero il discorso che si faceva stamattina, ma penso che la mancanza di opportunità parecchie volte è alla base di un comportamento deviante, l’offerta di una opportunità semplificata o di basso profilo non sempre riesce a livello mentale a ricostruire una strada autonome e di scelta. Parecchie volte questa formazione professionale che noi facciamo viene accettata come scelta tattica, ma non come scelta di vita, penso che ci debba essere anche la scelta tattica perché noi siamo in grado di offrire, perché le competenze sono date. A mio avviso dobbiamo fare un salto di qualità, di reti future, cioè arrivare anche a formare delle persone per delle scelte tattiche perché comunque ho bisogno di essere autonomo, ho bisogno di avere un lavoro. Però secondo me bisogna andare di là, se questa società non ha offerto opportunità è giusto che noi ragioniamo anche sulla scelta strategica della sua vita e questo è un problema di rete, non di comunità. Una rete che è in grado di integrare, una rete in grado di dare voce ai soggetti. L’altro problema di criticità che devo dire riguarda le regole della formazione professionale, io non posso se voglio fare un intervento serio, utilizzare le stesse regole della formazione professionale che utilizzo per ragazzi post diploma, perciò per ragazzi che hanno già avuto opportunità dalla vita, che hanno fatto le scuole superiori, che hanno fatto tutto quello che volete, l’università, le stesse regole della formazione professionale vengono utilizzate in un mini corso delle comunità terapeutiche che io sto facendo adesso, dove ci sono i ragazzi che sono in terapia, alcuni hanno anche la doppia diagnosi, ci sono altri termini, ci sono altre modalità, ci sono altri percorsi. È vero che ci sono regole che vengono infrante anche da giovani che hanno già avuto opportunità quando fanno il percorso di formazione professionale, però devo avere nei confronti di questi soggetti più attenzione per favorire l’integrazione sociale, perché prima che un ragazzo si affidi o cominci una relazione abbastanza libera ci vuole un po’ di tempo, ad esempio il ragazzo sta calando il metadone in comunità terapeutica faccio fatica a chiedergli di fare il settanta percento delle ore, è importante stabilire con quel ragazzo oggi puoi venire un’ora? Ok viene un’ora non ti posso chiedere di fare quattro ore, quell’ora lì io l’ho investita nel tentativo di formazione professionale, poi è chiaro ci sono altre strade per fare la formazione professionale. Altra esperienza che mi sono trovato a fare in questi dieci anni che faccio questo lavoro, percepisco abbastanza quando ci sono i movimenti giusti o di tattica, come dicevo prima, ad esempio abbiamo un ottimo rapporto col carcere minorile di Bologna attraverso un progetto di prevenzione che il comune di Rimini attraverso la regione Emilia Romagna, il progetto Millenium, nel carcere minorile di Bologna abbiamo trovato un interlocutore, loro poi per la verità hanno trovato un interlocutore e dove abbiamo messo progetti di formazione professionale, di recupero scolastico, dove si gioca molto sulla relazione, sui patti tra le persone anche perché il coltello dalla parte del manico ce lo abbiamo noi, perché se non ti comporti bene poi te lo dico. È chiaro che lui sceglie di inserirsi in un percorso di integrazione per una questione tattica, il novanta percento dei giovani, piuttosto che restare dentro sceglie questo percorso, l’abilità dove sta? Nel passare da una scelta tattica reciproca, perché io ho bisogno di fare attività, lui ha bisogno di uscire dal carcere, da passare da queste due specifiche tattiche ad un incontro che passi sempre attraverso una relazione. Quando parlo di relazione non intendo mai morale, intendo il cominciare a fidarsi, a pianificare insieme, incominciare a progettare a scartare le cose che non potranno mai avvenire e cominciare a lavorare seriamente sulle cose che io posso realizzare. Mi ha colpito molto il discorso degli aspetti tattici, ma io credo che si possa uscire dalla staticità, dalle convenienze, in un lavoro sociale impegnativo, in fondo il problema è riuscire a vedere i punti di forza, la maggior parte di questi ragazzi che siano in carcere, in comunità, nei tribunali dei minori. Se noi andiamo a scavare, hanno tutti delle competenze, dei grandi punti di forza, dobbiamo iniziare da li, ma bisogna essere degli osservatori, bisogna aver voglia di perdere tempo, bisogna iniziare a costruire sui punti di forza. Un ultima cosa, l’ultima attività che abbiamo tentato di fare come Enaip, all’interno del carcere centrale, si chiamava "custodia di cani e felini" il corso è venuto bene, i carcerati hanno tutti partecipato fino alla fine, uno ha trovato anche un lavoro vicino a Firenze, al suo paese, però è stato un corso che è finito li, questa parte di gente doveva forse andare a lavorare al canile, poi non si era capito, però effettivamente non eravamo attrezzati per dare una risposta, forse per dare una risposta di gestione alle attività di questo tipo, bisognava avere consolidato altri tipi di sinergie con altri tipi di soggetti, intendo i comuni, i canili. Anche perché i termini sono molto diversi: uno esce oggi, uno fra un mese, un altro fra sei mesi, formare una figura professionale con un finanziamento venuto dal ministero su cani e canili, a volte bisogna stare attenti a non calare la formazione professionale, se ce la facciamo a farla, a progettarla attraverso un lavoro di rete, ma a partire da loro indicazioni.

 

Edoardo Albinati

 

Molte volte, all’insegnante in carcere o chi opera nel carcere, quindi anche il volontariato, viene richiesta una funzione, sia quella di educazione o rieducazione alla legalità, questo perché malgrado la laicizzazione del carcere, il carcere mantiene tuttora un’impronta, soprattutto nel nostro paese, anche perché il carcere va detto, ha come sua origine, proprio quando è stato inventato, quando è stata inventata l’idea della reclusione, della pena corporale, ha come suo modello, lontano nel tempo, ma piuttosto presente nel modo in cui è strutturato e gestito il modello conventuale. Di fatto quando si è pensato al carcere, il modello di vita reclusa, di vita comunitaria reclusa, presente nella convenzione occidentale, cristiana, era quello del convento, cioè di un luogo chiuso dove si lavoro si studia e si prega in sostanza, quindi in qualche modo questo modello rimane. A parte che fino a qualche anno fa la struttura stessa dei carceri nei centri urbani era quella della fortezza, del convento, anche fisicamente, gli ambienti riconducevano questa situazione. Il carcere ha mantenuto fortemente l’idea che da li si debba uscire migliori, cambiati, che quindi uno degli scopi sia quello rieducativo. Io personalmente, laicamente sono piuttosto avverso a questa idea rieducativa, sono per la riduzione della pena, oggi di fatto il detenuto vive nell’incertezza della pena, viene condannato a dieci anni poi se ne farà quattro cinque, nove.

 

Partecipanti

 

01) Acosta Raquel Enaip Progetto Equal RN

02) Bagli Valentina Liceo Valgimigli Studente RN

03) Bernardi Silvia Ass. Scuola e società Operatrice RN

04) Bologna Marica Enaip Progetto Equal RN

05) Borgognoni Michele Enaip Progetto Equal RN

06) Canotti Saverio - Volontario RN

07) Carrano Carlo Enaio Progetto Equal RN

08) Casadei Monia Liceo Valgimigli Studente RN

09) Crescentini Alice Liceo Valgimigli Studente RN

10) D’Alonzo Simona Enaip Progetto Equal RN

11) Fontana Guido Enaip Progetto Equal RN

12) Gabriele Bonora Consorzio Noicon Tutor BO

13) Grassi Gabriele Consorzio servizi sociali Ass.sociale BO

14) Grassi Raffaella Liceo Valgimigli Studente RN

15) Ioli Alessandro Enaip Progetto Equal RN

16) Irene Tartagli Liceo Valgimigli Studente RN

17) La Motta Serena Liceo Valgimigli Studente RN

18) Lanzoni Erica Coop. Millepiedi Operatrice RN

19) Librera Carlo Enaip Progetto Equal RN

20) Maggioni Maurizio Volontarimini Presidente RN

21) Mariglem Pergega Liceo Valgimigli Studente RN

22) Mazzocchi Michele Enaip Progetto Equal RN

23) Menoq Lasia Liceo Valgimigli Studente RN

24) Migale Patrizia Liceo Valgimigli Studente RN

25) Missoni Gilberto Ausl Operatore RN

26) Ohanyan Narine Ass. Todo Color Mediatrice culturale RN

27) Olivares Gloria Ass. Todo Color Mediatrice culturale RN

28) Pagliarani Mirca Liceo Valgimigli Studente RN

29) Parma Elisa Liceo Valgimigli Studente RN

30) Pellegrini Primo Ausl Sert Educatore RN

31) Pierich Cecilia Rosa Liceo Valgimigli Studente RN

32) Pizzaioli Francesco Liceo Valgimigli Studente RN

33) Poukh Hanna Ass. Speranza Ucraina Operatrice RN

34) Randi Saverio Ausl Sert Psicologo RN

35) Re Anna Provincia Ravenna Dirigente RA

36) Renzetti Mirca Liceo Valgimigli Studente RN

37) Romualdi Luana Liceo Valgimigli Studente RN

38) Ruggeri Elisa Ist. Oncologico Romagnolo Psicologa RN

39) Ugolini Marco Enaip Progetto Equal RN

40) Utizi Lilia Università Bologna Studente RN

41) Vannucci Graziano Centro culturale sociale ric. Vice Presidente RN

42) Zanotti Annalena Università Bologna Studente BO

43) Zavatti Giorgia Liceo Valgimigli Studente RN

44) Zeppi Dea Liceo Valgimigli Studente RN

 

 

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