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Sistema penitenziario e lavoro di rete
Un lavoro di rete è un tema ormai ampiamente dibattuto e la letteratura che è stata prodotta su questo argomento ne è una prova, cosi come ne sono testimonianza le pratiche operative che vengono esercitate in diversi settori del lavoro sociale; quasi tutti i progetti sociali indicano nel lavoro di rete uno dei metodi imprescindibili e utilizzano strumenti tipici di questo orientamento (mappatura, lavoro in equipe integrate, sviluppo di comunità, ecc.). A fronte di tanto interesse per il lavoro di rete, si ha tuttavia l’impressione che spesso, nei fatti, lo stesso costituisca un nodo debole dell’azione sociale e ci si limiti il più delle volte ad una affermazione di principio, ad una dichiarazione di intenti o ad una operatività che non riesce ad andare oltre 1’uso di strumenti di base. In ogni caso lavorare in rete si dimostra il più delle volte come estremamente difficile perché difficile è costruire senso di appartenenza su obiettivi e progetti e non su appartenenze istituzionali, organizzative, associative. Difficile è passare da un lavoro strutturato su competenze specializzate ad un lavoro integrato sui processi. Difficile è operare su contesti differenziati che restituiscano 1’unità della persona. Difficile è l’assunzione di responsabilità condivise che conducano ad effettive azioni di cooperativa di progettazione e co-gestione delle azioni sociali. Si è dunque tutti consapevoli della necessità di lavorare in rete, ma molte sono ancora le difficoltà rispetto al come lavorarci. Se questo è vero per tutte le attività del sociale, ancora più vero lo è rispetto al sistema penitenziario che, cornice che contiene 1’ultima istituzione totalizzante esistente in Italia (il carcere appunto), è stato da sempre caratterizzato da chiusura e autoreferenzialità. II carcere, in quanto luogo che si occupa di difesa sociale, è innanzitutto un luogo di esclusione e quindi agisce come contesto che necessariamente allontana la persona che ha compiuto un reato dalla propria rete naturale. La valenza rieducativa della pena, costituzionalmente prevista, dovrebbe garantire dopo un periodo di esclusione un effettivo re-inserimento della persona e proprio a questo scopo il carcere in Italia è strutturato sul concetto di osservazione trattamento. Estremamente vivo e ricco è il dibattito su questo tema (si rimanda necessariamente alla letteratura specifica) che oscilla tra sostenitori del carattere rieducativo della pena detentiva e invece i detrattori che ne hanno dichiarato da tempo la impossibilità, individuando nella carcerazione una situazione che produce più problemi di quanti ne risolva. Chi scrive si colloca idealmente in questa seconda fascia; tuttavia ritiene che, almeno fino a quando il carcere non sarà reso residuale ( e tutto fa pensare che i tempi in Italia siano , ben lontani da questo obiettivo...), sia necessario interrogarsi e impegnarsi affinché quanto oggi viene fatto da chi opera in carcere sia fortemente orientato alla logica del reinserimento. Proprio per questa ragione il lavoro di rete costituisce un argomento forte, l’unica possibilità, forse, di operare per limitare l’autoreferenzialità del sistema e ridurre cosi i danni provocati dalla detenzione. Gli ultimi venti anni di storia indicano che questo processo si è avviato e si sta consolidando: la quantità di soggetti che entrano in carcere ( operatori esterni, cooperative, associazioni di volontariato, ecc.) era sicuramente impensabile fino a qualche anno fa, cosi come era impensabile lo sviluppo del terzo settore che oggi offre anche occasioni per percorsi di reinserimento lavorativo. Si tratta allora di cogliere questa occasione storica con attenzione, evidenziandone anche gli elementi critici, per fare in modo che quanto si sta facendo dentro e fuori dal carcere non conduca inconsapevolmente a legittimare il sistema della esclusione, ma funga veramente da promozione di opportunità per chi è detenuto. Offrire opportunità alla popolazione detenuta significa infatti garantire anche alla comunità civile una possibile riduzione della recidiva e dunque maggiore sicurezza. li taglio di questo contributo, tratto dalle docenze condotte nel corso di formazione tenuto presso 1’Iref di Milano (Ente di formazione regionale), è volutamente operativo e chi scrive si scusa fin da ora per il mancato approfondimento dei temi che saranno messi in rilievo. Si tratta di una sistematizzazione che può essere intesa come una cornice generale dentro la quale il lettore potrà orientarsi per approfondire successivamente, attraverso la bibliografia proposta, i temi di maggiore rilievo. Si esplicita in premessa che il concetto di rete a cui si fa riferimento in questa sede è quello dell’insieme degli interlocutori coinvolti nell’esecuzione penale entro ed extra muraria, individuati come risorsa utile ai fini dei processi di reinserimento sociale. L’insieme dunque delle risorse, fonDali e informali, che concorrono al conseguimento dell’obiettivo rieducativi della pena a diverso titolo e di cui in questa sede si cercherà di individuare il sistema comunicativo, i livelli di responsabilità, le metodologie di lavoro possibili. In questa prospettiva si darà rilievo alla rete interna al sistema della giustizia penale, alla rete esterna formale e informale, al sistema istituzionale delle connessioni tra interno ed esterno. A partire da questa analisi sarà possibile offrire alcuni spunti metodologici per coloro che intendono operare in una prospettiva di rete all’interno di questo settore, con particolare riferimento ai percorsi di reinserimento lavorativo. La rete interna. Chiunque si appresti ad operare nell’ambito della esecuzione penale, deve acquisire competenze per entrare in contatto con una rete che ha regole proprie, ruoli definiti, reticoli comunicativi specifici, obiettivi istituzionali complessi. La prima rete con cui si ha a che fare è proprio quella del mondo penitenziario il cui sistema costituisce una cornice imprescindibile e di non facile comprensione per chi accede dall’esterno. Una non adeguata conoscenza di questa rete rischia di inficiare molte delle possibilità che si possono costruire e di condurre a comunicazioni di storte tra interno ed esterno: le conseguenze di queste difficoltà hanno un peso diretto sulla vita dei detenuti perché da esse dipende anche L’efficacia dei progetti che vengono realizzati dall’esterno. Va dunque speso del tempo per comprendere il sistema interno che si compone di più aree: dal Ministero della Giustizia che sta a monte, al Dipartimento della amministrazione penitenziaria, al Provveditorato regionale della amministrazione penitenziaria, agli Istituti di pena, ai Centri di Servizio Sociale per adulti, alla Magistratura di sorveglianza. In questo macro sistema si collocano i singoli sottoinsiemi con la loro organizzazione interna che costituisce un vero e proprio mondo. È sufficiente elencare gli interlocutori istituzionali che si incontrano in un carcere per comprendere di che rete stiamo parlando: il sistema direttivo ( composto da direttori e vicedirettori) il sistema del personale civile (tutta l’area amministrativa che serve per reggere un istituto) una prospettiva di rete all’interno di questo settore, con particolare riferimento ai percorsi di reinserimento lavorativo. La rete interna Chiunque si appresti ad operare nell’ambito della esecuzione penale, deve acquisire competenze per entrare in contatto con una rete che ha regole proprie, ruoli definiti, reticoli comunicativi specifici, obiettivi istituzionali complessi. La prima rete con cui si ha a che fare è proprio quella del mondo penitenziario il cui sistema costituisce una cornice imprescindibile e di non facile comprensione per chi accede dall’esterno. Una non adeguata conoscenza di questa rete rischia di inficiare molte delle possibilità che si possono costruire e di condurre a comunicazioni di storte tra interno ed esterno: le conseguenze di queste difficoltà hanno un peso diretto sulla vita dei detenuti perché da esse dipende anche L’efficacia dei progetti che vengono realizzati dall’esterno. Va dunque speso del tempo per comprendere il sistema interno che si compone di più aree: dal Ministero della Giustizia che sta a monte, al Dipartimento della amministrazione penitenziaria, al Provveditorato regionale della amministrazione penitenziaria, agli Istituti di pena, ai Centri di Servizio Sociale per adulti, alla Magistratura di sorveglianza. In questo macro sistema si collocano i singoli sottoinsiemi con la loro organizzazione interna che costituisce un vero e proprio mondo. È sufficiente elencare gli interlocutori istituzionali che si incontrano in un carcere per comprendere di che rete stiamo parlando: il sistema direttivo ( composto da direttori e vicedirettori) il sistema del personale civile (tutta l’area amministrativa che serve per reggere un istituto) il personale della custodia (gli agenti di polizia penitenziaria) l’area pedagogica (composta dagli educatori del Ministero della Giustizia) l’area psico-criminologica ( che vede la presenza di esperti psicologi e criminologi convenzionati con il Ministero della Giustizia) l’area del personale sanitario il mondo religioso (attraverso la figura del cappellano) Se alla rete istituzionale aggiungiamo anche gli interlocutori che si integrano con la stessa per le attività trattamentali interne possiamo citare: il mondo della scuola (dalle elementari alla università) il mondo della formazione professionale ( centri di formazione e organizzazioni esterne) il sistema dei servizi sanitari dell’ente pubblico (in particolare i servizi per le tossicodipendenze ) il mondo del volontariato (organizzato e non) il terzo settore ( con le cooperative sociali che operano all’interno) la comunità civile (attraverso le iniziative che la vedono coinvolta in modo più o meno diretto ) Il mondo interno al carcere è dunque di per se rappresentativo di una rete molto vasta che si amplia ancora di più quando si pensa alla fase dell’esecuzione penale alL’esterno nella quale rientra a pieno titolo il sistema del Servizio Sociale del Ministero della Giustizia. È dunque con questa rete che è indispensabile agire se si vuole collaborare come interni ed esterni agli obiettivi rieducativi della pena ed è da questa rete che il detenuto dipende interamente, sia per la sua vita quotidiana che per l’intero percorso dell’esecuzione penale. Chi scrive ha già esaminato in altra sede i ruoli e i compiti che vengono svolti nella rete interna; in questo contributo ci limitiamo quindi a mettere in rilievo alcuni nodi problematici che possono verificarsi nella interazione con questo primo livello della rete. Una prima questione di fondo risiede proprio nel connubio tra aiuto e controllo. In carcere coesistono due obiettivi: quello della difesa sociale e quello della rieducazione. Benché tutti gli operatori concorrano all’azione trattamentale ( come tutte le circolari ministeriali prescrivono) devono tuttavia essere salvaguardate le esigenze della custodia che sono appannaggio specifico del personale di polizia penitenziaria. Una adeguata integrazione con questo personale è allora un’esigenza strutturale di chi voglia operare efficacemente. Proprio su questa prima connessione esistono diverse difficoltà. Solitamente la percezione del personale di custodia, dal punto di vista di chi opera per il trattamento, non è delle più felici; l’immagine dell’agente di polizia penitenziaria come semplice "custode" è ancora molto diffusa. Dall’altro lato, la percezione che gli agenti hanno di coloro che operano in chiave trattamentale è altrettanto discutibile. Spesso il mondo degli agenti lamenta una eccessiva attenzione ai detenuti, un eccessivo impiego di risorse economiche e umane per un’azione rieducativi i cui risultati appaiono miseri. Da entrambe le parti esistono dunque resistenze, muri non semplici da abbattere. Se si considerasse che le attività trattamentali costituiscono anche un fattore di sicurezza (perché occupano il tempo del detenuto, perché caricano il tempo di progettualità, perché allentano le tensioni dovute ad una forzata convivenza in spazi angusti, ecc. ) e se si considerasse che una sicurezza bene esercitata facilita il lavoro di chi opera sul versante del trattamento, allora sarebbe più semplice individuare un’area di interesse comune sulla quale sperimentare diversi livelli di integrazione. Un secondo livello di connessione interna che si presenta come problematica è quella legata all’area pedagogica. li numero irrisorio di educatori e l’evoluzione (meglio dire l’involuzione) di questo ruolo dalla riforma penitenziaria ad oggi, non consente certo di operare al meglio per un effettivo processo di integrazione con chi viene dall’esterno. Si tratta di un problema strutturale sul quale è necessario intervenire anche e in primo luogo in termini organizzativi e non soltanto nei termini dell’aumento di risorse, quanto su un diverso uso di quelle esistenti. Non secondario è inoltre il problema di far incontrare una cultura pedagogica istituzionale con metodi di intervento psico socio educativo più vicini alle prassi usate al di fuori dell’istituzione chiusa. Un terzo livello della connessione è quello interno all’area sanitaria nella quale già oggi si assiste alla coesistenza di operatori del Ministero della Giustizia e operatori dell’ente pubblico esterno. È il caso del personale dei servizi per le tossicodipendenze che operano attraverso il protocollo di Intesa tra Stato e Regioni ormai da più di 15 anni. In ciascun carcere il livello di applicazione del protocollo è stato attivato in modo autonomo ma gli orientamenti sono sostanzialmente due: istituti in cui gli operatori dei Ser.t di competenza dei detenuti entrano per esercitare la loro attività in modo pressoché autonomo e istituti dove invece sono funzionanti vere e proprie Unità Operative con equipe stabili all’interno. Si tratta di modelli che si sono andati costruendo nel tempo, sulla base delle specifiche esigenze dei servizi e degli istituti. Al momento non esistono ricerche che possano aiutarci a valutare l’efficacia dei due modelli, ma è certo che l’introduzione dei servizi per le tossicodipendenze negli istituti penitenziari ha rappresentato il primo ingresso massiccio di operatori provenienti dall’esterno e quindi anche la introduzione di pratiche operative e metodologie non strettamente connesse al carcere. La mancata applicazione della riforma sulla medicina penitenziaria, secondo la quale la salute in carcere doveva passare come competenze all’ente locale, è un segnale di come la connessione fin qui costruita, per quanto consolidata, è lungi dall’aver costruito una reale integrazione tra interno ed esterno. È probabile che il settore delle tossicodipendenze si sia potuto sviluppare in modo mirato perché questo ha rappresentato anche un interesse preciso della amministrazione penitenziaria dopo l’entrata in vigore della Legge 309 ( oggi Legge 45), mentre le altre aree sanitarie siano ancora considerate meglio gestibili se accentrate. L’impressione di chi scrive è, in ogni caso, che la realizzazione delle riforme di qualunque tipo inerenti il carcere, necessitino in precedenza di un’analisi di fattibilità per non risultare pura demagogia e che sia dunque necessario un preventivo lavoro di rete, tra istituzioni, per giungere a risultati concreti. Sarebbe inoltre necessario riflettere anche sul sistema stesso dei servizi: l’esperienza stessa dei Ser.t che operano con il carcere indica una pluralità di punti di vista, una diversità di procedure, grandi differenze nell’investimento rispetto ai tossicodipendenti detenuti, culture difformi anche sul piano dell’intervento clinico. Tutto questo, sicuramente rispondente anche all’esigenza originaria di sperimentare e di contestualizzare gli interventi, dovrebbe oggi tradursi in una pratica trasparente, in indicazioni trasversali, in maggiore omogeneità di intervento. La rete dei servizi per le tossicodipendenze, per essere tale, dovrebbe oggi interrogarsi sulla propria operatività per essere comprensibile anche agli occhi dei detenuti e per non essere strumentalizzabile. Un ulteriore problema relativo alla rete interna è l’assoluta mancanza di coordinamento delle attività trattamentali. Soprattutto negli istituti medio grandi non si riesce ad avere il polso della situazione su quanto viene realizzato, ne tanto meno sugli esiti dei vari interventi. La funzione di coordinamento spetterebbe al personale dell’area pedagogica, ma per i problemi sopra citati sembra molto improbabile che possa essere assunta concretamente. Questo tuttavia non spiega come mai non sia possibile istituire un metodo di lavoro di semplice mantenimento della informazione sull’esistente anche solo attraverso l’uso di un sistema informatico di base. L’impressione è che la scarsità di attenzione agli aspetti della comunicazione interna, sia una specie di "abito", di "costume" del sistema carcerario. In una dimensione spazio temporale che perde di significato (il tempo si dilata accanto allo spazio che si restringe e il tutto diventa abitudine), occuparsi della comunicazione significherebbe stravolgere il primo elemento simbolico dell’esclusione. In un contesto di contenimento i significati delle cose e delle relazioni mutano inesorabilmente e il carcere può diventare il luogo dove si può fare molto ma che vive anche senza farci niente, tanto la vita dei detenuti e di chi li custodisce è scandita dalle regole dell’istituzione. Regole che definiscono anche le azioni trattamentali e non viceversa. Ogni intervento interno al carcere deve fare i conti con gli orari di apertura e chiusura delle celle, con gli orari dei cambi di turno degli agenti, con gli orari di lavoro degli operatori. Per chi lavora da tempo in questo settore è chiara L’impossibilità di agire su questi elementi strutturali che costringono tutti in una logica di mediazione non semplice da accettare e tuttavia giustificabile se si riconosce che il carcere è in prima istanza un luogo di pena, al di là delle indicazioni più o meno retoriche sull’importanza del trattamento. Una volta accettata con un Po , di disincanto questa realtà, diventa possibile far parte del gioco contrattando e negoziando regole rispondenti anche alle esigenze trattamentali. La negoziazione dei vincoli è dunque una fase del lavoro di rete imprescindibile e tuttavia è quella che, ancora oggi, viene poco esercitata. Ciò costituisce un enorme problema se prendiamo in considerazione un ulteriore nodo critico che è proprio quella degli interlocutori esterni che entrano a lavorare in carcere pur non ricoprendo ruoli istituzionali. Mi riferisco al mondo dell’associazionismo, del volontariato, della cooperazione, che dall’esterno entrano per realizzare progetti e interventi. La vastità di questo mondo è ormai conosciuta, l’entità del lavoro che svolge è consistente e dunque la realtà di questo settore è oggi indiscutibile e che, forse proprio perché cosi consistente, viene data per scontata. In realtà, questo "movimento" è molto giovane e ha messo piede nel mondo degli istituti senza particolari competenze iniziali; le cose sono nate dalle prime esperienze, da tentativi che hanno prodotti successi e insuccessi, da un fare propositivo ma non sempre metodologicamente attento. In ogni caso chi ha iniziato a lavorare negli istituti si è costruito una competenza sul campo e questo ha comportato fatiche, un dispendio di energie a volte immane, difficoltà che sono costate anche cari prezzi nella vita personale di molti operatori, volontari, ecc. Proprio sulla base di queste prime esperienze si è sentita l’esigenza via di predisporre momenti formativi (sia per volontari che per operatori professionali) che facilitassero 1’ingresso in questo sistema e che sviluppassero competenze mirate. li fiorire di percorsi formativi, più o meno formalizzati, testimonia l’importanza di inserirsi in modo competente in questo sistema e proprio 1’acquisizione di conoscenze può essere visto come un passaggio fondamentale del lavoro di rete. Per lavorare in rete è infatti indispensabile in primo luogo "conoscersi"; l’affermazione può sembrare banale, ma la curiosità sembra essere una delle qualità a mio avviso meno sviluppate nel mondo degli operatori sociali. Solo sulla base della conoscenza reciproca è invece possibile comprendere su quali livelli si può davvero collaborare e su quali è importante salvaguardare le rispettive differenze ed anche l’eventuale dimensione conflittuale che ne deriva. Va infatti sottolineato che il lavoro di rete non è teso a negare il conflitto, quanto invece a gestirlo attraverso strategie di mediazione esplicita. Un’ultima questione ha a che fare con le persone detenute e con la loro connessione con la rete interna. Nel momento stesso in cui una persona acquisisce il ruolo di detenuto, la sua vita è strutturata sulla base dei rapporti che instaura sia con i suoi compagni, sia con il mondo dei "custodi" ( e con questa parola mi riferisco a tutti coloro che non sono custoditi). Rete interna, per un detenuto, vuoI dire allora il sistema di relazioni che vive dentro la cella e fuori dalla cella all’interno di un contesto basato su premi e punizioni e dunque, per sua natura, infantilizzante e deresponsabilizzante. Sulla negatività del processo di adattamento al carcere si sono espressi numerosi autoril6 e non si può che concordare con loro quando sostengono che la sopravvivenza in carcere è frutto della adozione di strategie manipolatorie. Diventa allora fondamentale, per operatori e volontari che intendano lavorare in carcere, conoscere i meccanismi di costruzione dell’identità deviante prodotti dalla detenzione, sia per rispondere in modo adeguato ai bisogni relazionali delle persone detenute, sia per favorire meccanismi di collaborazione tra tutti che coloro che con il detenuto operano. Non sono rari i casi in cui si assiste a ridondanza degli interventi di fronte a detenuti che riescono a far muovere intorno a se più operatori o, al contrario, l’assoluta assenza di intervento in situazioni che restano nascoste perché i detenuti sono meno "competenti". Ciò che sembra di poter dire, al termine di questa breve disamina della rete interna, è che l’innegabile interesse che si è andato costruendo nel tempo circa la finalità rieducativi della pena, dovrebbe trovare oggi meccanismi culturali e organizzativi maggiormente integrati e dunque maggiormente orientati ad un effettivo lavoro di rete. I livelli necessari, ad avviso di chi scrive, sono quelli tipici del lavoro di rete. L’informazione in primo luogo. Informazione per chi viene dall’esterno circa il contesto in cui va ad operare; informazione per chi lavora istituzionalmente all’interno su quanto vi esiste e su chi lo realizza. a sensibilizzazione-secondo luogo. Sensibilizzazione intesa o affiliazione di interessi comuni e avvicinamento culturale per cui sia possibile comprendere i "significati" di quanto si va facendo. La progettazione in terzo luogo. Partecipare alla definizione del bisogno, dominare insieme degli obiettivi e negoziare sulle azioni sono tre operazioni che, realizzate in modo congiunto, garantirebbero una migliore corrispondenza di quanto viene proposto dall’esterno con quanto viene realizzato dal personale interno. La co-gestione è un ulteriore livello del lavoro di rete che in ambito penitenziario richiederebbe maggiore attenzione dal momento che tutte le azioni di coloro che entrano dall’esterno, sono strettamente connesse alle dinamiche organizzative e ai ruoli interni. Infine, la valutazione. Tema sul quale si potrebbe aprire un dibattito che non può certo essere costretto in queste pagine e che tuttavia rappresenta in modo sostanzioso un effettivo lavoro di rete. È quando siamo chiamati a valutare ciò che facciamo e quando questo avviene in modo partecipato, che costruiamo nessi "forti" nella rete. Ciò che sembra di poter dire, al termine di questa breve disamina della rete interna, è che l’innegabile interesse che si è andato costruendo nel tempo circa la finalità rieducativi della pena, dovrebbe trovare oggi meccanismi culturali e organizzativi maggiormente integrati e dunque maggiormente orientati ad un effettivo lavoro di rete. I livelli necessari, ad avviso di chi scrive, sono quelli tipici del lavoro di rete. L’informazione in primo luogo. Informazione per chi viene dall’esterno circa il contesto in cui va ad operare; informazione per chi lavora istituzionalmente all’interno su quanto vi esiste e su chi lo realizza. La sensibilizzazione in secondo luogo. Sensibilizzazione intesa come affiliazione di interessi comuni e avvicinamento culturale per cui sia possibile comprendere i "significati" di quanto si va facendo. La progettazione in terzo luogo. Partecipare alla definizione del bisogno, dominare insieme degli obiettivi e negoziare sulle azioni sono tre operazioni che, realizzate in modo congiunto, garantirebbero una migliore corrispondenza di quanto viene proposto dall’esterno con quanto viene realizzato dal personale interno. La co-gestione è un ulteriore livello del lavoro di rete che in ambito penitenziario richiederebbe maggiore attenzione dal momento che tutte le azioni di coloro che entrano dall’esterno, sono strettamente connesse alle dinamiche organizzative e ai ruoli interni. Infine, la valutazione. Tema sul quale si potrebbe aprire un dibattito che non può certo essere costretto in queste pagine e che tuttavia rappresenta in modo sostanzioso un effettivo lavoro di rete. È quando siamo chiamati a valutare ciò che facciamo e quando questo avviene in modo partecipato, che costruiamo nessi "forti" nella rete. La rete esterna Parlare di rete esterna ci costringe a fare una prima distinzione che vede da un lato il detenuto e la sua rete naturale e dall’altro le risorse territoriali che si occupano del detenuto una volta uscito dal carcere o nel momento in cui sta scontando la pena in misura alternativa. In ogni caso facciamo riferimento in questa sede, con il termine rete esterna, a tutti gli interlocutori che non operano all’interno del carcere anche se operano comunque nella cornice dell’esecuzione penale. Il detenuto e la sua rete naturale in primo luogo: famiglia, amici, conoscenti, relazioni significative, ecc. La cosiddetta "rete informale" di cui ciascuno di noi dispone in misura più o meno allargata e che può fungere da supporto nei momenti di difficoltà ( ed è indubbio che 1’uscita dal carcere rappresenta un momento di difficoltà). Nel caso di persone che attraversano l’esperienza detentiva la rete informale può essere anche quella in cui si sono costruite le azioni devianti e che, non è un caso, spesso offre supporto alla persona (basta pensare alle regole mafiose che prevedono di occuparsi dei familiari di chi entra in carcere). Ma la rete naturale può essere anche quella che può mobilitarsi per dare opportunità di reinserimento concrete (ne sono un esempio le attività lavorative offerte da parenti, amici, ecc., senza le quali un inserimento lavorativo non sarebbe pensabile). Si tratta di un sistema relazionale che andrebbe comunque conosciuto e sapientemente utilizzato, nonché supportato quando si dimostra una effettiva risorsa per il reinserimento. Resta tuttavia il più delle volte non conosciuto, non valutato, non identificato come interlocutore fondamentale. E tuttavia balza subito agli occhi di chi lavora attivamente nei processi di reinserimento che questo livello della rete è il più importante e che senza questa dimensione relazionale informale anche i percorsi progettati dagli operatori rischiano il più delle volte di essere fallimentari. Anche quando si riesce a trovare un’attività lavorativa, anche quando si attivano momenti di accompagnamento da parte dei servizi, diventa infatti difficile coprire il bisogno di relazione delle persone che escono dal carcere. Chi opera con persone tossicodipendenti, per esempio, sa che i momenti più difficili per la persona sono proprio quelli del tempo libero, quando mancano relazioni significative, quando il tempo è vuoto, quando la solitudine si fa più pesante. La rete informale copre infatti il bisogno di relazione umana che la rete formale non può strutturalmente offrire. Lavorare su questa dimensione sarebbe allora fondamentale per garantire solidità ai percorsi delle persone. Benché questo tipo di esigenza sia oggi parte delle consapevolezze degli operatori, mancano azioni mirate a questo scopo e la valorizzazione della rete naturale non viene ancora vista come un’azione strategica del lavoro di rete. Si tende ancora a dare corpo soprattutto alla rete formale, quella dei servizi, delle risorse territoriali organizzate che, peraltro, dopo una fase iniziale di "distanza" dall’idea di occuparsi di detenuti, sono oggi molto impegnate in questo settore. Mi riferisco in particolare alle comunità per tossicodipendenti che da diverso tempo accolgono persone provenienti dal carcere e che costituiscono un’interessante realtà che oggi è testimone di come la detenzione rappresenta un’esperienza specifica, con la quale bisogna fare i conti anche dal punto di vista dei modelli riabilitativi. Nei primi anni della loro attività, le comunità che accoglievano persone dal carcere, si occupavano delle stesse in quanto tossicodipendenti, ma ben presto gli operatori si sono accorti che un tossicodipendente che è stato in carcere non è uguale agli altri ospiti di una comunità. Insieme ai tipici problemi della dipendenza, questi presenta anche i problemi di chi ha "respirato" la sottocultura carceraria. Comportamenti prevaricatori, minore accettazione delle regole, più difficoltà nel processo di responsabilizzazione, atteggiamenti rivendicativi, sintomi clinici da personalizzazione, tutte manifestazioni legate all’esperienza detentiva che hanno richiesto agli operatori delle comunità lo sviluppo di competenze più specifiche. La stessa esigenza nasce da coloro che si occupano in modo specifico di reinserimento lavorativo. La rete esterna si trova dunque a dover affrontare in modo concreto le difficoltà connesse alL’esperienza detentiva in se che lascia segni anche profondi nella vita delle persone e questo è un primo nodo problematico che richiede sicuramente una maggiore attenzione. Tuttavia la rete esterna si trova a dover affrontare anche la dimensione del controllo sociale formale che all’esterno del carcere si concretizza su almeno due livelli. Il primo è la norma giuridica rappresentata dalle regole che governano le misure alternative e il secondo è la connessione con i servizi istituzionalmente preposti ad esercitare il controllo (le Forze dell’Ordine da un lato e i Centri di Servizio Sociale dall’altro ). Occuparsi di reinserimento significa in primo luogo entrare in una cornice giuridica che è di "non libertà"; la persona è sottoposta a prescrizioni ed è all’interno di queste che tutti possono muoversi per il suo reinserimento. Nella prassi può succedere che le regole possano anche essere "concertate" con la magistratura ai fini trattamentali ma si tratta di situazioni sporadiche e legate essenzialmente alla cultura operativa del singolo tribunale di sorveglianza; nella maggior parte dei casi le prescrizioni sono pre-definite e molto spesso non sono compatibili con programmi di reinserimento flessibili. Questo potrebbe essere il primo livello di un lavoro di rete esterna che prevede il coinvolgimento formale e sostanziale dei Centri di Servizio Sociale per adulti (CSSA), titolari della cosiddetta area penale esterna e chiamati a svolgere un lavoro di aiuto/controllo particolarmente difficile. In altra sede si è già trattato di questo argomento e dei nodi critici che presenta al suo interno. Nodi critici che aumentano di fronte all’estensione della rete esterna e alle necessità di collegamento che sono sempre più consistenti a fronte di un numero abbastanza scarso di assistenti sociali dedicate, che diventa un problema tanto più pesante quanto più è difficile il coinvolgimento dei servizi territoriali. La sensazione è che la questione non sia tanto legata ad una scarsità di risorse quanto, piuttosto, ad una effettiva mancanza di competenze da parte degli operatori sul lavoro di rete e dalla mancanza di premesse organizzative dei singoli servizi che conducano nella direzione del lavoro integrato. Il settore delle tossicodipendenze è sicuramente quello che maggiormente si è sperimentato nei processi di reinserimento dal carcere ma al momento non si sono ancora strutturate prassi condivise che possano funzionare come modello vero e proprio di intervento: la gestione del singolo caso si struttura secondo la logica voluta dai singoli operatori o dai singoli servizi e questo comporta una varietà di metodi non verificabili e poco trasmissibili. Questo non significa che non si faccia esperienza, significa soltanto che manca il livello della sua elaborazione che consentirebbe di sistemare il sapere che si sta acquisendo. Il corso di formazione di cui si tratta in questa sede è sicuramente un primo passo e tuttavia non rappresenta certo un modello di lavoro in rete: l’aula è rappresentativa unicamente di un sistema e le elaborazioni che si fanno al suo interno rischiano di essere il prodotto di un solo punto di vista che presto o tardi dovrà comunque confrontarsi con quello degli altri. Ecco allora che la formazione (uno degli strumenti possibili del lavoro di rete) diventa uno strumento utile, ma non rispondente alla logica dell’integrazione operativa. Uscendo dal mondo delle tossicodipendenze, la rete dei servizi esterna al carcere si fa molto più debole. Di fatto non esistono servizi territoriali specificamente dedicati al reinserimento dei detenuti. Si tratta di una politica che ha una sua logica nel senso che tutti i servizi sociali esistenti sul territorio dovrebbero avere automaticamente questa competenza in virtù del DPR 616/77. Il detenuto che esce dal carcere potrebbe quindi rivolgersi potenzialmente a tutte le risorse dell’ente locale. Tuttavia la realtà è un’altra. Gli operatori che lavorano sul territorio non hanno una formazione ad hoc relativamente al sistema penitenziario e questo impedisce spesso una presa in carico mirata; il risultato è che chi proviene da un’esperienza detentiva non trova facilmente un supporto esterno. Il circuito dentro il quale la persona detenuta solitamente entra è quello dei Servizi di inserimento lavorativo che, a loro volta, sono connessi ad una rete di risorse locali (il più delle volte appartenenti al Terzo Settore) che offrono opportunità lavorative. Dedicheremo uno spazio specifico alle questioni del reinserimento lavorativo; per il momento preme sottolineare come le esperienze realizzate dalla rete esterna siano al momento poco sistemare e tuttavia mettano in evidenza alcuni nodi specifici connessi al sistema del controllo. Li riportiamo in questa sede per come vengono rilevati nei percorsi di formazione, supervisione, accompagnamento progettuale e valutazione. Accanto ai vincoli giuridici e alle difficoltà di integrazione con i CSSA, i percorsi di reinserimento si connettono anche alle azioni di controllo formale delle forze dell’ordine. Azioni sovente molto "visibili", esercitate in orari poco ortodossi (i controlli dei carabinieri avvengono spesso all’alba), suscettibili di maggiore o minore pervasività a seconda dei singoli operatori. Si tratta di un problema strutturale sul quale la questione non è tanto determinare come le cose dovrebbero andare, ma piuttosto avviare processi comunicativi tra il mondo del sociale e il mondo del controllo istituzionale nel tentativo di comprendere se e come è possibile avviare strategie di controllo orientate alla mediazione. I pochissimi tentativi in questa direzione stanno dando risultati interessanti sui quali varrebbe la pena di riflettere per ipotizzare nuovi percorsi. La possibilità di agire in questo senso si può tuttavia sviluppare se nel mondo del sociale si riconosce l’esigenza di interagire con il sistema del controllo senza temere di perdere la propria identità di rete supporto. La scommessa e il rischio che il lavoro connesso al sistema penitenziario comporta è infatti quello di essere in qualche modo fagocitati dalle esigenze del controllo formale se non si riesce a introdurre un concetto di "controllo" alternativo. Tuttavia pur sempre di controllo si deve parlare e questo risponde anche ad un elemento costitutivo della rete che, pur venendo letta sempre in chiave di social supporto, svolge comunque funzioni di controllo. La rete può essere infatti metafora che rappresenta sia l’aiuto, sia l’imbrigliamento. Bisognerebbe chiedersi se la classica dicotomia controllo/aiuto ha ancora ragione di esistere anche solo sul piano concettuale e gli studi classici sul controllo sociale potrebbero essere individuati come un punto di partenza indispensabile ancora oggi per ridefinire correttamente la questione. Il sistema istituzionale delle connessioni tra interno ed esterno Volutamente analizzata a questo punto, la questione di quali siano le premesse istituzionali che possono garantire lo sviluppo di un effettivo lavoro di rete in ambito penitenziario, è un tema fondamentale. Si tratta infatti di comprendere entro quale cornice i diversi sistemi si possono davvero muovere in questa direzione perché, al di là della volontà e delle competenze degli operatori di base e anche al di là delle disposizioni normative, un anello fondamentale del discorso è proprio rappresentato dai vertici dei diversi sistemi istituzionali (funzionari dell’ente pubblico, vertici aziendali, responsabili di servizi, funzioni direttive, ecc.) Quelli che in ambito organizzativo sono definiti come i dirigenti e i quadri intermedi (le strutture di management) che, al di là di prese di posizione ideologiche sulla connessione tra sistema pubblico e sistema privato aziendale, sono una realtà. Le politiche e le linee guida organizzative sono infatti compito e responsabilità di questi livelli e non certo un’attribuzione degli operatori sociali. Molto poco si è analizzato questo livello della rete e la sua incisività sull’operatività diretta e dunque anche sulla costruzione delle premesse che possono rendere effettivo il lavoro di rete. Sembra invece interessante tentare una prima analisi, seppur provvisoria, di questo nodo che è fondante nei meccanismi decisionali. Gli strumenti e i momenti operativi concreti di questo livello della rete sono rappresentati dalle diverse "commissioni" che ciclicamente si costituiscono, dall’insediamento ufficiale di sottogruppi di lavoro interistituzionali, dall’emanazione di protocolli di intesa, linee guida, ecc. Non esistendo niente di scritto su questo tema, nessuna ricerca dedicata su questi livelli del sistema, risulta necessario partire da alcune suggestioni che sono necessariamente parziali, frutto di esperienza diretta o indiretta come formatrice e consulente. Ci si assume dunque interamente la responsabilità di quanto viene qui riportato con l’intenzione di aprire un campo di analisi fino ad oggi a nostro parere poco analizzato. Una prima riflessione parte dall’indubbio maggiore coinvolgimento concreto che in questi ultimi dieci anni c’è stato nel settore penitenziario proprio da parte di questi livelli della rete formale/istituzionale. Ne sono testimonianza proprio il fiorire delle strutture organizzative di cui sopra. I livelli dirigenziali, appartenenti ai diversi sistemi del Ministero della Giustizia e dell’Ente Locale, si trovano oggi più frequentemente di prima a confrontarsi su tavoli integrati. È sicuramente un grande passo avanti e, senza voler sembrare polemica, un atto dovuto nei confronti della popolazione detenuta fin dal 1975; la Riforma penitenziaria fin da allora richiamava alle responsabilità istituzionali circa la funzione rieducativa della pena. Siamo dunque finalmente giunti ad un maggiore interesse su questo tema e anche all’investimento di risorse economiche e umane da parte delle istituzioni locali stesse. Questa dinamica ha potuto svilupparsi anche grazie alle pressioni messe in atto dalla base che iniziando a produrre progetti e realizzare interventi sempre più consistenti, ha richiesto una maggiore attenzione da parte dei propri vertici. Ora la questione è quella di definire con più rigore metodologico di quanto non si stia facendo, quali sono i livelli di responsabilità da attribuire al sistema di management, quali sono gli obiettivi specifici e le procedure dei tavoli e delle commissioni che via fioriscono, quali i livelli di connessione interna ed esterna. Si tratta, nella sostanza, di comprendere che il processo decisionale richiede trasparenza e dunque modalità organizzative esplicite e condivise. Non ci sembra di essere in questa fase e numerosi sono i nodi critici che si stanno presentando. Li elenchiamo per come l’esperienza fin qui condotta ci permette di fare e riteniamo che quanto contenuto in questa righe (assolutamente opinabile) possa e debba essere oggetto di discussione. Un primo nodo sta proprio nell’attribuzione delle responsabilità interne ai singoli sistemi. La titolarità e la successiva conduzione di commissioni e tavoli è decisa sulla base di definizioni istituzionali che spesso hanno poco a che fare con le competenze di settore. Si tratta di un problema strutturale dell’ente pubblico che vede il doppio livello di dirigenza (quello politico e quello tecnico) coesistente. Sebbene questa sia una necessità, non si può non cogliere la discrasia che spesso esiste tra i due livelli e le conseguenze che questo spesso comporta: la sostanziale staticità del sistema, l’adozione di strategie esasperatamente mediate e dunque poco incisive, la necessità di attribuire compiti e ruoli secondo dinamiche connesse più alle dinamiche interne che non alle esigenze del settore e dunque la dispersione di tempi ed energie per "spiegare" a chi non ha conoscenza diretta o, al contrario, l’adozione di decisioni molto distanti dalla realtà operativa che vengono fatte da chi non conosce ma ritiene di essere comunque sufficientemente esperto (una sostanziale "supponenza istituzionale"). Non riteniamo che questo problema sia risolvibile tout court ma riteniamo che alcuni "aggiustamenti" potrebbero ridurre i danni prodotti da questo stato di cose. Un secondo nodo critico è relativo alla rappresentatività del sistema e al livello di comunicazione attivato tra base e vertici. Si tratta non solo di un problema strutturale ma anche di un problema di metodo. I tavoli interistituzionali, le commissioni, sono spesso poco rappresentative dei problemi operativi e i tentativi che si fanno in questa direzione sfociano nell’errore opposto: un allargamento indiscriminato dei livelli di rappresentatività per cui i tavoli diventano consessi e assemblee. Non è ovviamente semplice trovare modalità partecipate e contemporaneamente efficaci, ma uno sforzo in questo senso va fatto se si vuole realizzare una strategia reale di connessione tra la rete interna e la rete esterna. Comprendiamo che la prima questione nasce proprio dal decidere "chi" debba occuparsi della costruzione di una "strategia" vera e propria, ma ad oggi non mancherebbero certo le risorse economiche per avviare questo processo (il sistema dei finanziamenti europei è in gran parte dedicato proprio a questo fine ), non mancherebbero nemmeno le competenze tecniche che alcuni professionisti hanno costruito nel tempo ne mancherebbe la collaborazione attiva della rete locale (nella sola Regione Lombardia, per esempio, si contano oggi circa 500 organizzazioni del Terzo settore e del Volontariato e 9 Comitati carcere-territorio pronti a collaborare). La questione è allora se e quanto la costruzione di una strategia di rete è considerata un obiettivo primario delle istituzioni stesse e dai loro vertici e su questo punto ci sembra di poter rilevare che siamo ancora abbastanza distanti dal concepire la connessione carcere-territorio come la chiave di volta per una gestione intelligente del sistema stesso della esecuzione penale anche in termini di reale "difesa sociale" della comunità civile. Se si comprendesse che i percorsi di reinserimento sono 1’unica garanzia possibile anche per la cittadinanza, probabilmente la comunità civile stessa appoggerebbe una seria e organica politica di intervento pubblico che punta su questo aspetto. Ma si tratta di un meta, non di una premessa. Chi fa politica oggi echi ne costituisce il sistema manageriale e organizzativo deve assumersi la responsabilità di andare in questa direzione sapendo che il consenso culturale non è una precondizione indispensabile. Da ciò consegue anche la necessità, per i vertici e per i quadri intermedi, di acquisire le competenze necessarie per operare in questa direzione e dunque accanto alla proliferante attività formativa destinata agli operatori di base, andrebbe pensata un’attività formativa specifica per i manager che dimostrano di averne un gran bisogno rispetto a processi che si stanno sviluppando a partire dalla base stessa. È proprio questo, infatti, il terzo nodo critico di questo livello della rete formale: la non scontata competenza tecnica nel lavorare in gruppo, nel costruire percorsi di combinazione di progettazione, nel definire processi valutativi, nell’avvalersi di ruoli consulenza. Tutte competenze indispensabili per la gestione del management che non fanno parte della cultura dell’Ente pubblico se non come adozione pedissequa di logiche importate dal mondo profit che, se da un lato sono comunque un’opportunità interessante e imprescindibile, non possono essere automaticamente introdotte nel sistema pubblico. Si tratta di questioni che non hanno certo a che fare con il solo sistema penitenziario (sono questioni presenti anche nel sistema sanitario e dei servizi alla persona in genere) ma l’occasione particolare che il sistema penitenziario offre è la possibilità di sperimentare un modello in cui il lavoro di rete può disporre di una cornice che, paradossalmente, offre molte garanzie. Il fatto stesso di essere fortemente normalizzato, di essere inserito in dinamiche di controllo gerarchizzate, di poter ricorrere ad un’autorità esterna (la magistratura e le forze dell’ordine ) lo fa diventare infatti come una sorta di "palestra" dove è possibile sperimentarsi all’interno di vincoli più chiari e, come afferma Musil, nel vincolo è compresa anche la possibilità. Le basi normative per lavorare in questo senso ci sono, ma la possibilità di dare corpo ai principi che vi sono contenuti deve necessariamente passare attraverso un effettivo dialogo istituzionale che al momento non sembra ancora consolidato. Proprio a tale proposito è fondamentale poter leggere l’esperienza fin qui condotta da coloro che stanno attivamente sperimentando i percorsi di reinserimento e che evidenziano chiaramente i punti di debolezza e i punti di forza dell’attuale lavoro di rete e pongono ai livelli istituzionali interessanti quesiti. Dalle istituzioni derivano infatti le politiche sociali per l’inserimento lavorativo delle fasce "deboli" e i principi della formazione professionale entro ed extra muraria che restano i due strumenti fondamentali del trattamento carcerario. Uno sguardo a questa realtà può dunque fornire indicazioni utili rispetto ad un sapiente utilizzo della rete. I percorsi di reinserimento lavorativo Le persone detenute sono considerate una fascia debole del mercato e proprio per questo fanno parte delle aree fortemente promosse dalle politiche dei finanziamenti nazionali ed europei finalizzati all’inclusione sociale. Mai come in questi ultimi dieci anni si è assistito ad un investimento forte su progetti centrati sull’inserimento lavorativo. Che il lavoro sia 10 strumento trattamentale per eccellenza è indiscutibile: qualunque fondo di reinserimento nella comunità civile non può prescindere dal fatto di avere un lavoro che consenta alla persona di non ricorrere all’attività illecita. Tuttavia le esperienze fin qui condotte dimostrano che il lavoro di per se non è risolutivo. Chi ha alle spalle una esperienza detentiva nella maggior parte dei casi non riesce a "tenere" rispetto alL’esperienza lavorativa sia che si realizzi nell’ambito del terzo settore ( ed è la maggior parte dei casi), sia che si realizzi nel mondo profit. Molte sono le interpretazioni e le letture che si possono dare di questo fenomeno. La mancanza di una cultura del lavoro che, agli occhi del detenuto, renda l’attività lecita più "interessante" di quella illecita; il carattere protetto della esperienza lavorativa per cui sovente non rappresenta un lavoro vero (il sistema degli stages e delle borse lavoro comporta spesso questa contraddizione), la mancanza di una rete di supporto che accompagni effettivamente la persona (le azioni di tutor non sono sempre garantite), l’importazione della sottocultura carceraria nei luoghi di lavoro (dove vengono inserite più persone provenienti dal carcere fenomeno sembra avverarsi frequentemente ). Stante dunque la consapevolezza che il lavoro non è la panacea di tutti i mali, è necessario interrogarsi su quali possono essere i presupposti operativi che possano consentire di farne un uso più significativo. Uno dei nodi a mio avviso rilevanti è che solo molto recentemente si è compreso che il processo di reinserimento inizia fin dalla fase detentiva. Il periodo di permanenza in carcere può essere infatti saggiamente utilizzato per indurre processi di responsabilizzazione del detenuto in questa direzione. Si tratta cioè di dare modo alla persona di sperimentarsi in percorsi di orientamento, ri-motivazione, formazione professionale e inserimento lavorativo. In questo modo la ricerca del lavoro sarebbe solo uno dei tasselli dell’intero percorso, quello finale e, potendosi basare su motivazioni effettive della persona e sull’acquisizione di competenze specifiche, ha più probabilità di riuscita e consolidamento nel tempo. Proprio in questi ultimi due anni si è assistito, soprattutto in Lombardia, ad un aumento di occasioni di orientamento interno agli istituti (sportelli, attività di consulenza, ecc.) che prima non erano pensabili. Si tratta di esperienze interessanti anche se per ora si realizzano attraverso interventi di operatori non sempre specificamente qualificati nelle azioni di orientamento e dunque in questo concetto oggi si concentrano metodi tra loro molto diversi e anche molto artigianali. Tuttavia oggi si assiste all’inizio di un disegno complessivo che ha un suo senso. Proprio in esperienze di questo tipo il ruolo delle istituzioni preposte (Regione, Provincia e Comune) ha un forte peso sia nella definizione delle politiche, sia nell’assegnazione dei fondi, sia nella valutazione dei percorsi ed è noto, a chi ha modo di seguire queste dinamiche, che la definizione delle competenze, la costruzione dei confini istituzionali, l’attribuzione delle responsabilità, non è ancora cosi chiara. Questo comporta non poche difficoltà. C’è dunque un primo nodo critico proprio nella rete istituzionale che deve governare l’intero sistema. Un secondo nodo critico è rappresentato dalla scarsità di occasioni lavorative offerte dal mondo profit pur in presenza di leggi che favoriscono le aziende stesse nell’assunzione di persone svantaggiate (la legge Smuraglia nello specifico dei detenuti). È un nodo ormai risaputo sul quale tuttavia non è semplice agire se non si decide di impostare una vera e propria strategia che, a nostro avviso, non può e non deve essere attivata solo da chi opera nel terzo settore. Si assiste infatti, oggi, ad una sorta di paradosso: le cooperative sociali costituiscono luoghi di lavoro effettivo per i detenuti e sono anche quelle che realizzano progetti complessivi di promozione e inserimento lavorativo. Gli operatori che lavorano in questi progetti si occupano anche della cosiddetta "ricerca aziende" nel mondo del profit. Questo però avviene in assenza totale di azioni istituzionali che fungano da supporto. C’è da chiedersi per quale ragione le istituzioni non siano esse stesse, in prima persona, promotrici di azioni strategiche, di accordi con le confederazioni del mondo del lavoro, responsabili di interventi mirati di sensibilizzazione. Perché dunque le istituzioni non si impegnano nella costruzione delle premesse che renderebbero il lavoro degli operatori del terzo settore più incisivo. O ancora, perché non sono le istituzioni stesse a provvedere alla strutturazione di servizi di supporto alle imprese (consulenze, interventi su richiesta dei datori di lavoro, azioni formative ad hoc) che facilitino le stesse nell’assunzione di persone svantaggiate. C’è infine da chiedersi perché le istituzioni non garantiscono esse stesse la messa in rete delle risorse imprenditoriali in modo da disporre di banche dati "intelligenti" utilizzabili dagli operatori; il paradosso in questo momento è che ciascuno di coloro che si occupa di inserimento lavorativo si è costruito la propria banca dati e si guarda bene dal metterla in comune con gli altri. Perché insomma, le istituzioni non si fanno in prima persona carico della promozione e del consolidamento della rete esterna. Il terzo nodo critico che emerge dalle esperienze di inserimento lavorativo è la connessione tra il lavoro (bisogno primario) e le altre esigenze delle persone che provengono dal carcere come l’abitazione e il supporto psico sociale in senso lato. Molti dei percorsi di reinserimento presentano infatti come urgente il problema della casa e la ricostruzione del sistema relazionale della persona; in assenza di queste due condizioni anche il lavoro si presenta come un’opportunità non sufficiente. Non volendo ricadere nella logica assistenziale per cui chi esce dal carcere deve entrare tout court nel circuito dei servizi che se ne facciano carico globalmente, riteniamo tuttavia di dover trovare modalità operative che siano rispondenti alle effettive esigenze delle persone e magari che questo avvenga in una logica di tipo contrattuale con la persona stessa. Si tratta cioè di lavorare su progetti di reinserimento articolati in cui il lavoro sia una delle opportunità ma non venga considerato l’equivalente dell’intero progetto della persona. Ciò significherebbe l’assunzione del problema da parte di più interlocutori della rete responsabili ciascuno di una parte del progetto che però rimane unico; introdurre dunque una logica di case-management confacente alla singola situazione superando il concetto della "titolarità " del caso sulla base di competenze istituzionali. L’introduzione dello strumento del contratto formale ( che non è tra il singolo operatore e 1’utente ma tra l’equipe di progetto e lo stesso) consentirebbe l’esplicitazione dei reciproci impegni e, conseguentemente, le conseguenze dell’eventuale inadempimento. Si tratta di ridefinire operativamente e concretamente (non dunque sul piano dell’affermazione di principio) la logica della presa in carico di rete orientata all’empowerment che fa parte dei metodi di lavoro sociale applicati in altri Paesi. Considerazioni conclusive Sistema penitenziario e lavoro di rete, questo il tema che si voleva affrontare in queste pagine. Non sappiamo se ci siamo riusciti. Ridurre i danni della detenzione introducendo la società esterna tra le mura di un carcere e con determinazione lavorare perché chi vi è ristretto ne possa uscire con qualche opportunità in più, è l’obiettivo che può accomunare gli operatori dell’ente pubblico e del privato sociale che lavorano alla base del sistema. Gestire consapevolmente ed eticamente le risorse economiche destinate a questo scopo e promuovere una cultura della pena più civile è l’obiettivo delle istituzioni. Far emergere le contraddizioni, non smettere di ricercare e supportare il sistema complessivo è il compito di coloro che, come chi scrive, vengono chiamati a trasmettere competenze. Il lavoro di rete nasce allora in primo luogo dalla consapevolezze che ciascuno ha della propria parte di responsabilità e dalla conseguente capacità di assumerla esercitando la propria area di "potere" inteso come la capacità di incidere sulla propria vita individuale e collettiva
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