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Un primo passo per ridare dignità a chi è detenuto e per dare una prospettiva di vita diversa a chi esce dal carcere
Relazione per l'incontro - dibattito del 14 febbraio 2003 a Mestre, di Francesco Morelli
Prendendo spunto dal dibattito sull’opportunità dell’indulto, in corso a livello politico e tra gli operatori della giustizia, l’EURES (Istituto di ricerche economiche e sociali) ha realizzato un’indagine sulla "certezza della pena" nel nostro Paese. Secondo l’EURES, nel decennio 1991-2001, solo il 40 % delle pene comminate si sono poi tradotte in detenzione carceraria. Nello stesso periodo è risultato recidivo il 61 % dei condannati. Quindi in Italia le pene sono tutt’altro che certe e, quando pure vengono applicate, falliscono l’obiettivo della rieducazione dei condannati. Questa interpretazione, ripresa da vari giornali e da alcune trasmissioni televisive, è servita a rafforzare l’idea della inutilità e pericolosità di un provvedimento di indulto. Adesso che tutti in Iraq stanno cercando queste fantomatiche "armi di distruzione", mi verrebbe da dire che, in Italia, i sondaggi di opinione e le indagini statistiche sono usate proprio come armi, per demolire la coscienza civile del paese, per falsare la realtà. Cerchiamo di rimettere le cose al loro posto.
Esiste la certezza della pena? Se non consideriamo l’indulto (manca da 13 anni) e la grazia (intervento rarissimo e a carattere individuale) in Italia c’è un solo strumento giuridico che consente di evitare la pena: la sospensione condizionale. Può averla soltanto chi è incensurato, per condanne fino a due anni, e poi riga dritto per un pezzo, altrimenti gli viene revocata. E non tutti gli incensurati la ottengono, gli stranieri quasi mai. Nella stragrande maggioranza dei casi, quindi, le pene sono certe, cioè vengono scontate per intero. Chi usa i numeri come armi non può soffermarsi sui dettagli… naturalmente, ma questi dicono che nelle carceri italiane ci sono 58.000 persone (circa), altre 30.000 circa stanno scontando la pena attraverso una misura alternativa e ben 50.000 sono "in coda" :aspettano le decisioni del tribunale, in libertà provvisoria, o in sospensione pena. Magari saranno chiamati a "pagare il loro debito" dopo 10 o 15 anni dal reato, però senza un indulto o un’amnistia nessuno sfuggirà alla condanna. E qui non stiamo parlando di reati gravi, perché la grande maggioranza dei "giudizi sospesi" riguarda persone non eccessivamente compromesse, persone che hanno vita relativamente normale e non danno eccessivo disturbo. Gli altri entrano diretti in carcere e ci rimangono per un bel pezzo … nonostante il sistema dei benefici e delle misure alternative. Questo sistema serve, sostanzialmente, da moderatore per un regime sanzionatorio molto severo che prevede pene doppie, in media, rispetto ai paesi europei a noi vicini. In pratica, al processo spesso ti infliggono una pena più alta di quella che sarebbe ragionevolmente comminabile, calcolando che comunque ne trascorrerai in carcere soltanto una parte. Ma questo ragionamento è sbagliato per due motivi: il primo è che l’altra parte della condanna dovrai comunque scontarla, sia pure in misura alternativa; il secondo che l’accesso alle alternative è molto selettivo e chi è socialmente, economicamente, culturalmente più debole "rischia" di non avere alcuna chance, di fare tutta la sua "doppia pena" in carcere. L’indulto serve soprattutto per riequilibrare lo svantaggio di quanti sono esclusi dai benefici e dalle misure alternative, non per cause di legge, ma nei fatti. Tanto più se consideriamo il cosiddetto "indultino", che in sostanza è una misura alternativa alla quale si viene ammessi obbligatoriamente, fatte salve le esclusioni oggettive e soggettive, che vedremo più avanti. L’indulto non genera ulteriore "perdonismo", può essere invece un’occasione di riscatto per chi non ne ha ancora avute. E qui troviamo la seconda cosa da rimettere a posto.
La pena rieduca, visto che 6 condannati su 10 sono recidivi? Io non credo che la pena (ed in particolare il carcere) abbia virtù miracolose. Credo invece siano fondamentali le condizioni "ambientali" nelle quali facciamo vivere una persona condannata, da esse dipenderà se al termine della pena questa persona sarà migliore o peggiore. E certamente il carcere che conosciamo oggi non aiuta molto la crescita umana, a parte qualche eccezione. Piuttosto abitua all’inutilità e alla invisibilità sociale, diseduca alle relazioni affettive, al lavoro, alla responsabilità. Da più parti, questa situazione è imputata al sovraffollamento, quindi l’indulto diventa il primo passo, necessario per restituire un poco di decenza alla vita del carcere. Diciamo che concordo, anche se mi pare ci siano altri problemi di fondo, di carattere marcatamente culturale, che contribuiscono a ridurre il livello di civiltà all’interno delle carceri. Io credo che manchi una sufficiente cultura della cittadinanza che, in una visione forse utopica, dovrebbe portare il carcere ad essere una cosa diversa da quello che è adesso, cioè veramente uno strumento di servizio per l’intera collettività, a cominciare dalle persone che vi sono ristrette. Quindi gli utenti diretti della struttura che eroga un servizio di riabilitazione sociale dovrebbero sfruttarlo al meglio e chiedere, al contempo, l’efficienza e la prontezza degli interventi di natura sociale volti al loro recupero, che oggi non vengono realizzati. Non è possibile arrivarci subito e neanche con tutte le persone detenute, però penso che la strada sia questa. E già vi sono tanti compagni che riescono, pur nelle condizioni quasi proibitive che ben conosciamo, a sfruttare le opportunità offerte dal carcere, in termini di istruzione, di formazione professionale, di inserimento lavorativo attraverso la semilibertà. Se i dati complessivi sulla recidiva sono quelli riscontrati dall’EURES, noi possiamo darvi alcune indicazioni sui percorsi di reinserimento che passano attraverso il lavoro esterno, nelle cooperative sociali prevalentemente. Dalle interviste ai responsabili di queste cooperative è emerso che quasi tutte le persone entrate da loro si sono comportate bene, che il tasso di recidiva è crollato al 10 % e anche meno. Non mi illudo che, solo favorendo questi percorsi di inserimento, ridurremmo la recidiva del 50 %. Sia perché avviene comunque una selezione "a monte" e, quindi, le persone ammesse alle alternative sono le più affidabili. Sia perché molti ex detenuti lasciano il lavoro nelle cooperative e, uscendo da questo ambiente, in qualche modo "protetto", per qualcuno aumenta la probabilità di una "ricaduta". Penso però che un obiettivo ragionevole possa essere quello di dimezzare il numero dei recidivi, che tradotto in cifre significherebbe 15.000 detenuti in meno, l’eccedenza (rispetto alla normale capienza) di cui soffre il sistema penitenziario italiano. Questo è anche il numero di coloro che, se tutto funzionasse al meglio, dovrebbero uscire per effetto dell’indulto. Non credo che ciò avvenga, tuttavia qualche cosa, alla fine, verrà data e qualcuno lascerà il carcere un po’ prima del previsto (e gli sembrerà sempre troppo tardi…). Come vi ho detto all’inizio, il mio punto di vista è diverso dal vostro… di persone libere. Quando un compagno esce, perché ha terminato la sua pena o perché prende l’indulto, io faccio fatica a preoccuparmi dell’eventuale pericolo per la società che è tornato a rappresentare. Io mi preoccupo innanzitutto per lui, perché l’ho visto soffrire assieme a me e non vorrei succedesse più. Poi mi preoccupo per tutti noi detenuti, perché ogni volta che una persona entra (o, peggio, rientra) per noi diventa un po’ più difficile tornare a vivere fuori, in una società sempre più allarmata e diffidente. Comunque, anche partendo da posizioni diverse, vedete che alla fine l’obiettivo è il medesimo: fare il possibile perché il reinserimento sociale sia effettivo. Spesso si tratta di un "primo inserimento": se consideriamo i dati raccolti dal D.A.P. nel 2002 vediamo che appena il 25 % dei detenuti svolgeva un lavoro regolare prima dell’arresto. Va pure detto che quasi il 40 % aveva una situazione lavorativa "un po’ intricata", diciamo così, e tra questi ci sono probabilmente molte persone occupate in nero, soprattutto straniere. (Fonte: sito internet www.giustizia.it). Quindi ci sono professionalità da recuperare e altre da formare partendo da zero, ma bisogna anche sostenere all’esterno i percorsi di inserimento e sottolineo "sostenere" perché mi sembra che troppo spesso l’attenzione vada tutta al controllo della persona, anziché ad attutire l’impatto con le difficoltà che incontra uscendo dal carcere. Lo stesso inserimento in una cooperativa di lavoro, in una struttura di accoglienza, etc., dai detenuti è percepito a volte come un prolungamento indebito del controllo carcerario e subentra il desiderio di "fare da soli", a qualsiasi costo. C’è chi da solo ce la fa e chi non ce la può fare… L’ipotesi "indultino", rispetto al tradizionale indulto, a mio parere presenta un vantaggio, da questo punto di vista, prevedendo una forma di "sistemazione" per le persone scarcerate. Ma questa previsione potrebbe penalizzare quanti sono privi, all’esterno, di una rete di relazioni significativa e, pertanto, la battaglia deve essere quella per assicurare un alloggio e un lavoro a chi non li ha. Per fare questo ci sono tanti strumenti, dal rifinzianamento delle legge Smuraglia, all’utilizzo del Fondo Nazionale per le Politiche sulle droghe e dei Fondi Sociali Europei per la lotta alla disoccupazione, fino alla chiamata in causa degli enti locali, della Chiesa e delle associazioni di volontariato.
Cosa succederà ai detenuti stranieri? Un discorso particolare va fatto per i detenuti stranieri, sui quali troppo spesso la retorica viene spesa senza risparmio. Il testo dell’indultino prevede che ottengano la sospensione della pena e, nel contempo, siano espulsi dall’Italia. Tranne nel caso non sia possibile identificarli con certezza. Straniera è la metà dei detenuti che potrebbero uscire con l’indultino (quindi con pene inferiori ai tre anni e condanne per reati non gravi). Solo in Veneto sono 400-450 persone. Ma quanti di loro sono identificati con certezza? Quanti sono disposti a farsi espellere e, quindi, a dare la loro collaborazione nel recupero dei documenti d’indentità? In entrambi i casi, credo siano molto pochi. Del resto gran parte dei detenuti stranieri con pene brevi è già soggetta ad un tipo di espulsione, quella prevista, obbligatoriamente, come sanzione alternativa per le condanne fino a due anni. È nell’articolo 16 del Testo Unico sull’Immigrazione, dopo le modifiche apportate dalla legge Bossi – Fini. E si tratta di una norma sostanzialmente inapplicabile appunto per l’impossibilità di identificare la maggior parte degli stranieri detenuti che, evidentemente, preferiscono scontare tutta la pena residua piuttosto che essere rimpatriati con il "marchio" del criminale. Con questo stato di cose, quale sarà il destino degli stranieri che potrebbero avere la sospensione della pena prevista dall’indultino ma non possono essere espulsi a causa dell’incertezza sulla loro identità? Con ogni probabilità dovranno rimanere in carcere. Siamo in tempo, forse, per proporre una diversa soluzione, visto che la discussione del provvedimento al Senato deve essere ancora calendarizzata e, tra i parlamentari, qualche persona di buon senso c’è ancora. L’articolo 8 del testo approvato dalla Camera prevede già che la sospensione della pena sia considerata "misura alternativa" ai fini della applicazione degli sgravi fiscali per le cooperative sociali che assumono le persone scarcerate. Basterebbe aggiungere un comma che contempli la possibilità di assumere anche i detenuti stranieri indultiabili nei confronti dei quali l’espulsione non possa essere eseguita. Ricordo che i detenuti stranieri, anche se privi di permesso di soggiorno, possono essere ammessi alle misure alternative alla detenzione, sia per svolgere un’attività lavorativa (Circolare n° 27/93 del Ministero del lavoro e della Previdenza sociale), sia per sottoporsi a trattamenti terapeutici e riabilitativi, se tossicodipendenti (Decreto del Ministero della Sanità n° 5/2000). Non ha importanza se sono identificati con certezza, o meno, per il Ministero della Giustizia hanno un nome, viene loro attribuito un numero di codice fiscale quindi, fintanto che scontano una pena, possono lavorare, dentro o fuori dal carcere, ed hanno diritto di essere accolti in una comunità terapeutica per tossicodipendenti o alcooldipendenti quando ve ne sia la necessità. Poi, magari, ci sarà l’espulsione, ma la possibilità di lavorare per alcuni mesi, o anni, vorrebbe dire poter rientrare in patria con qualche soldo in tasca e, magari, anche con qualche competenza professionale in più. Avrebbe anche un significato per la società italiana che vedrebbe queste persone, almeno per un periodo, attive e produttive al suo interno. Se volete, può essere vista come una forma di riparazione del danno causato con il reato.
Alcune osservazioni "tecniche" sul testo dell’indultino approvato dalla Camera
Le esclusioni oggettive (articolo 2), che comprendono i reati associativi e quelli di maggiore gravità, vanno a rafforzare una disciplina che già è discriminante, per quanto riguardo l’accesso alle misure alternative delle persone condannate per questi reati: i condannati per reati "comuni" possono chiedere i permessi dopo aver scontato un quarto di pena e la semilibertà dopo averne scontata metà; i condannati per reati gravi possono chiedere i permessi dopo aver scontato metà pena e la semilibertà dopo averne scontata due terzi. Inoltre ad un reato grave corrisponde, ovviamente, una condanna più severa, quindi l’eventuale sospensione della pena (negli ultimi tre anni) arriverebbe a seguito di un lungo periodo di detenzione. Peraltro negli ultimi tre anni esiste la possibilità di essere ammessi all’affidamento in prova ai servizi sociali, quale che sia la gravità del reato (tranne per quelli associativi). Quindi, perché precludere l’accesso alla sospensione della pena, misura simile all’affidamento e non cumulabile con esso: non si può avere sia l’indultino sia l’affidamento, o si ottiene l’uno, o l’altro.
La competenza per la sospensione della pena (art. 4), attribuita al magistrato di sorveglianza, potrebbe benissimo essere assegnata a un P.M., visto che questi ultimi sono più numerosi e conoscono esattamente la posizione giuridica di ciascuno dei condannati dei quali curano l’esecuzione della pena. Non vi è da esercitare alcuna decisione discrezionale e le prescrizioni sono già stabilite dalla legge (art. 7), quindi non vedo motivo di aggiungere un nuovo carico di lavoro agli uffici di sorveglianza, già oberati del loro. Ci vorrebbero mesi per il disbrigo di tutte le pratiche, quando un provvedimento di emergenza richiederebbe, appunto, una rapida applicazione.
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