Misure alternative

 

Parte prima

 

La legislazione penitenziaria dei primi anni novanta

Uno sguardo retrospettivo al contesto storico

L'ingresso del termine "criminalità organizzata" nell'ordinamento penitenziario

L'inasprimento della normativa relativa ai permessi premio

Uno sguardo d'insieme alla legislazione d'emergenza del biennio 1991/1992

L'art. 4 bis della legge penitenziaria

L'ingerenza delle Procure antimafia nel settore delle misure rieducative

La nuova disciplina dei permessi premio

Ulteriori divieti di concessione di benefici

La sospensione delle normali regole del trattamento penitenziario

Segnali di una rinnovata attenzione per il "trattamento"

Considerazioni finali

La legislazione penitenziaria dei primi anni Novanta

 

Se si considera l'attuale fisionomia del nostro ordinamento penitenziario e la si confronta con quella da esso assunta dopo la riforma del 1986 (Legge 10 ottobre 1986 n. 663) si rischia di rimanere vittime di un singolare effetto ottico. Nonostante il tempo trascorso sia relativamente breve (almeno da un punto di vista della legislazione: si pensi, a tal proposito, che il codice penale vigente risale al 1931!) lo "scarto" tra passato (prossimo) e presente è infatti assai accentuato, così che la Legge Gozzini appare come qualcosa di stranamente lontano, prodotto di un'altra epoca e di un'altra cultura.

Per convalidare questa constatazione è sufficiente considerare alcuni dei caratteri peculiari di quel testo normativo, artefice, secondo una chiave di lettura ampiamente diffusa, di un vero e proprio rilancio degli ideali della legge penitenziaria del 1975.

Basta pensare al progetto (sogno?) di un carcere meno segregante, e meno segregato dal contesto sociale; disegno che è stato alla base della introduzione dell'istituto del permesso premio, nonché, più in generale, della decarcerizzazione realizzata attraverso l'ampliamento delle misure alternative. Basta pensare alla valorizzazione della magistratura di sorveglianza nella sua duplice veste di organo di controllo sull'operato della amministrazione penitenziaria e di giudice chiamato a dare il suo placet alle varie forme di trattamento extramurario; oppure, ancora, l'accantonamento del concetto di delinquente "non risocializzabile", con il conseguente venir meno di qualsiasi aprioristica preclusione, incentrata vuoi sul carattere perpetuo della pena inflitta, vuoi sul tipo di reato commesso.

Nell'attuale contesto, contrassegnato dalle innovazioni introdotte principalmente con il d.l. 13 maggio 1991 (convertito dalla L. 12 luglio 1991 n. 203) e con il d.l.8 giugno 1992 n. 306 (convertito dalla L. 7 agosto 1992 n.356), le suddette coordinate, costituenti altrettanti punti cardine dell'ordinamento penitenziario scaturito dalla somma delle due "grandi" leggi di riforma, sono state capovolte (o quanto meno compromesse nella loro originaria linearità).

Alla luce della legislazione di emergenza, infatti, può fondatamente sostenersi che la pena detentiva ha, per certi aspetti, recuperato una funzione neutralizzatrice; che i poteri della magistratura di sorveglianza sono stati ridimensionati, tanto sul versante del giudice monocratico, quanto su quello del tribunale di sorveglianza; che il tipo di reato commesso non è affatto ininfluente, dal momento che, come vedremo, la condanna concernente determinate fattispecie criminose rende problematica - e, in alcuni casi, impossibile - la fruibilità della maggior parte delle misure rieducative.

A queste differenze di contenuto si accompagnano differenze "di metodo", attinenti, cioè, all'iter seguito per realizzare, di volta in volta, le nuove linee di politica penitenziaria. Anche da questo punto di vista, infatti, emerge un dato di primaria importanza: mentre la novella del 1986 ha costituito l'atto finale di un processo legislativo caratterizzato da adeguati tempi di maturazione e alimentato da un ricco dibattito parlamentare, i provvedimenti della legislazione d'emergenza, al contrario, si caratterizzano per essere stati assunti ex abrupto sotto la spinta degli avvenimenti e non sulla base di un adeguato processo di maturazione.

Non a caso lo strumento prescelto è stato quello del decreto legge, il quale, per sua natura, costituisce, almeno tendenzialmente, l'espressione di una visione dei problemi su cui è destinato ad incidere che non si "arricchisce" in sede di dibattito parlamentare.

Tanto più che, con particolare riferimento alla normativa varata nel 1992 gli accadimenti esterni (il 19 luglio di quell'anno veniva ucciso il magistrato Paolo Borsellino, proprio mentre la commissione giustizia del Senato aveva da poco iniziato l'esame del d.l. 306/96) hanno condizionato la relativa procedura di conversione costringendola in tempi insolitamente contenuti.

 

Uno sguardo retrospettivo al contesto storico della legge 10 ottobre 1986 n. 663

 

Gli entusiasmi iniziali

 

Sull'ordinamento penitenziario rinnovato dalla riforma del 1986, quindi, sono stati operati alcuni successivi "trapianti" tra loro sostanzialmente omogenei. Tuttavia, prima di analizzare le trasformazioni intervenute, può essere utile considerare preliminarmente il processo di revisione critica culminato, poi, nella decretazione d'urgenza, al fine di cogliere le ragioni del rapido "invecchiamento" di una riforma che, non fosse altro era stata concepita in modo tutt'altro che improvvisato, poteva ritenersi adeguatamente protetta da un così repentino invecchiamento.

Per la verità, si deve riconoscere che già all'indomani dell'approvazione della "Legge Gozzini" erano affiorate in una parte della dottrina delle perplessità circa le eventuali distorsioni che si sarebbero potute verificare in sede applicativa. In particolare, muovendo dalla constatazione che la nuova e accresciuta premialità "portata" dalla legge di riforma risultava ancorata a parametri di incerta e generica tipizzazione, si era espresso il timore di una possibile deformazione delle misure finalizzate ad assicurare la flessibilità della fase esecutiva, le quali avrebbero potuto trasformarsi "da strumento di rieducazione in strumento di buon governo del carcere".

Altra parte della dottrina sottolineava che l'abolizione della categoria dei "reati ostativi" e di altri filtri anteriormente operanti nel settore delle misure alternative, avrebbe richiesto una più ricca dotazione di strumenti conoscitivi in capo alla Magistratura di sorveglianza, onde permetterle di pervenire a decisioni fondate su un criterio di effettiva meritevolezza, e si lamentava che il legislatore si fosse, invece, sottratto a questa sorta di "compensazione". Altri sempre nella stessa ottica, sottolineavano che, come conseguenza della diminuita adesione del legislatore all'ideale rieducativo, la magistratura di sorveglianza sarebbe risultata ancor più vincolata alle valutazioni -inevitabilmente calibrate, a quel punto, su di un metro disciplinare- provenienti dalla amministrazione penitenziaria. Insomma, volendo sintetizzare, la preoccupazione espressa era quella di una decarcerizzazione fine a se stessa, o, comunque, attuata senza il supporto di adeguati riscontri sul versante della rieducazione.

Doverosamente rievocate tali riserve, bisogna però dire che queste critiche avevano un carattere assolutamente minoritario rispetto alla pluralità di voci propense a tributare un ampio consenso alla allora neonata riforma. In aggiunta a ciò deve dirsi che, almeno per un certo periodo iniziale, al rinnovato ordinamento penitenziario si è generalmente riconosciuta la capacità di dimostrare "alla prova dei fatti" che le attese di rinnovamento riposte in essa non erano infondate.

Estremamente significativo risulta, a tal proposito, il bilancio tracciato dall'allora direttore generale degli istituti di prevenzione e pena a circa un anno dalla entrata in vigore della legge di riforma: gli accenti critici sono pressoché inesistenti. Numerose, al contrario, le note positive, tra cui spicca, in particolare, una non celata soddisfazione per la riduzione del sovraffollamento carcerario.

Le nuove prospettive di decarcerizzazione aperte dalla novella del 1986, vengono giudicate con estremo favore. Da un lato, si sottolinea la diversa fisionomia del carcere, definito da alcuni "carcere della speranza", e l'importanza che tale trasformazione ha avuto per la pacifica conclusione della rivolta avvenuta a Porto Azzurro nell'estate del 1987 senza una goccia di sangue, o un capello storto né dei rivoltosi né dei trenta ostaggi, fra i quali una donna (nel 1974 il carcere di Alessandria, per un episodio analogo, ma quantitativamente molto più limitato, aveva dovuto contare parecchi morti e feriti). Dall'altro, con il ricorso a valutazioni di carattere economico, si dà il dovuto risalto ai costi necessari per eseguire la pena detentiva (circa 250 milioni per la realizzazione di un posto carcere; circa 3 milioni al mese per la custodia e il mantenimento di ogni singolo detenuto!).

Deve anche notarsi a tal proposito che, grazie ad un concomitante provvedimento di amnistia (D.P.R. 16 dicembre 1986 n.865), la popolazione detenuta aveva subito un drastico ridimensionamento, fino a raggiungere nel 1990 un record "negativo" di 26.000 presenze dalle 40.000 unità degli anni immediatamente precedenti - salvo poi il problema riproporsi, in tutta la sua drammaticità, nella fase iniziale del presente decennio.

Permangono -è vero- numerosi problemi irrisolti, quali ad esempio, la cronica carenza di lavoro all'interno del carcere e, più in generale, il basso livello delle attività trattamentali. Ad essi se ne vanno aggiungendo di nuovi: primo fra tutti una crescente percentuale di detenuti stranieri e di detenuti tossicodipendenti con tutti i problemi che ne conseguono (si pensi alla difficile, e in certi casi impossibile, attuazione nei loro confronti del c.d. "scambio penitenziario"). Tuttavia è evidente che si tratta di problemi che non sono assolutamente addebitabili alla "Legge Gozzini", la quale di per se non fa venire alla luce particolari inconvenienti. Basti menzionare a tal proposito un solo, ma importantissimo, dato: il rapporto tra il numero di permessi premio concessi, a partire dalla loro introduzione, e il numero dei casi di non rientro; con riferimento al 1987 a fronte di oltre 30.000 provvedimenti di concessione, i casi di mancato rientro sono stati 240, corrispondenti a una percentuale inferiore all'1%. Tanto basta, a ragion veduta direi, per supportare la convinzione che la riforma "funziona".

 

La successiva "demonizzazione"

 

Nel giro di un paio di anni l'incoraggiante quadro di partenza che si è appena finito di delineare si deteriora profondamente, tanto che già nel corso del 1990, si registrano i primi interventi legislativi motivati dall'esigenza di ricalibrare, in senso restrittivo, la normativa introdotta dalla Legge 663/86.

Nei confronti della "Legge Gozzini" si andarono moltiplicando le accuse di eccessivo favore nei confronti di chi aveva -anche gravemente e reiteratamente- compiuto reati e, per converso, di miope disattenzione per i riflessi negativi che un indiscriminato abbassamento della risposta punitiva comporta.

Volendo mettere meglio a fuoco queste critiche si può dire che esse riguardavano, anzitutto la sfasatura, ritenuta troppo accentuata, che si determinava tra la pena irrogata con la sentenza di condanna e quella che in concreto finisce per essere scontata in carcere. Inoltre era criticata l'ampia discrezionalità della Magistratura di sorveglianza, alla quale veniva imputato, vuoi per l'assenza di preclusioni legali idonee a escludere un accesso generalizzato a forme di trattamento extramurario, vuoi per non aver saputo improntare le proprie decisioni a rigorosi criteri, di aver reso possibile l'anticipato reingresso nel contesto sociale di condannati ad elevato indice di pericolosità.

Registrata questa repentina "levata di scudi" nei confronti dell'ordinamento penitenziario riformato è utile interrogarsi sulle ragioni che l'hanno determinata.

Si è già dato conto della repentinità del tracollo di consenso intorno alla riforma penitenziaria. Credo possa dirsi che, con ogni probabilità, ciò sia stato in larga misura determinato dalla circostanza che nel biennio 1988/1989, il dibattito sulle tematiche afferenti al sistema penale è stato, per così dire, "monopolizzato" dalla promulgazione e dall'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale: avvenimenti che hanno avuto sicuramente effetto di offuscare altre questioni, contemporaneamente sul tappeto. Ma l'entrata in vigore del nuovo codice di rito è importante ai nostri fini anche, e soprattutto, da un altro punto di vista, e cioè in considerazione dell'introduzione dei riti abbreviati e delle conseguenti riduzioni di pena che l'adozione di tali riti ha comportato.

Non è infatti azzardato dire che, per un verso, questa inedita forma di premialità sia stata vissuta dall'opinione pubblica nei termini di una non indolore rinuncia alla proporzionalità che, nella commisurazione della pena, deve sussistere tra il reato connesso e la pena inflitta. Di conseguenza si può ritenere che essa abbia contribuito ad aumentare l'insofferenza verso le ulteriori forme di premialità operanti nella fase esecutiva, le quali, per il solo fatto di sommarsi ad una consistente detrazione anteriore, possono aver rafforzato l'idea di costituire un qualcosa "di troppo".

Sempre con riferimento alle riduzioni di pena garantite dai riti abbreviati va inoltre tenuto presente che esse hanno falsato l'unico presupposto oggettivo

-quello costituito, appunto dal quantum di pena inflitta- in grado di svolgere una funzione di sbarramento in fase esecutiva, realizzando così le premesse idonee a consentire una concessione delle misure di trattamento extramurario in tempi rischiosamente sfasati rispetto all'effettiva pericolosità dei relativi destinatari. Con l'aggravante che, grazie alla più rapida conclusione del processo, la proiezione della vicenda punitiva al di là delle mura del carcere può collocarsi in un'epoca abbastanza vicina al tempo in cui il reato è stato commesso.

Agli effetti dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale che ha reso più difficile l'accettazione e il funzionamento stesso di alcuni fondamentali meccanismi dell'ordinamento penitenziario riformato, si devono sommare quelli di talune pronunce della Corte Costituzionale hanno, a loro volta, accentuato problemi già insiti nella riforma del 1986.

Si pensi, a tal proposito alla giurisprudenza che si registra in materia di affidamento in prova al servizio sociale nel triennio 1987/1989.

Anzitutto la vexata quaestio della quantità di pena da espiare in caso di revoca dell'affidamento viene risolta nel senso di devolvere al Tribunale di sorveglianza la relativa determinazione, da effettuarsi sulla base di parametri ampiamente elastici. Dall'altro si generalizza la possibilità -originariamente subordinata alla condizione di un pregresso periodo di custodia cautelare- di accedere all'affidamento in prova senza alcun "assaggio" di carcere. Infine si estende l'area dei potenziali destinatari della misura, ammettendo che, in caso di cumulo, la stessa sia concedibile anche quando la pena in esecuzione sia, anche notevolmente, superiore ai tre anni previsti dall'art. 47 comma 1º ord. penit.

L'incidenza di tali pronunce, sia sul versante della (lamentata) discrezionalità della Magistratura di sorveglianza, sia su quello della (altrettanto lamentata) erosione della pena detentiva è così trasparente da non avere bisogno di particolari sottolineature.

Fino ad ora mi sono soffermato su elementi "esterni" costituenti un contorno che sicuramente non è stato fra i più propizi. Non per questo, però, si può sorvolare su altri fattori che più direttamente chiamano in causa il funzionamento dell'ordinamento penitenziario in quanto tale. Da questo punto di vista, il problema centrale è stato quello di una premialità apparsa all'opinione pubblica eccessiva e ingiustificata, in quanto svincolata da valide contropartite. Tanto che lo stesso Mario Gozzini, padre della riforma del 1986, esprime sul numero speciale sulle carceri della rivista Il Ponte del 1995, da lui stesso curato, la convinzione che la strada da perseguire non sia quella di un ritorno sic et simpliciter alla situazione precedente i decreti legge del 1991-1992. Si pone, quindi, l'esigenza, di porre quella che lui chiama "opera di coscientizzazione popolare", volta a persuadere che il carcere rieducativo non è un sogno di anime candide, ma un interesse collettivo primario. Infatti, secondo Gozzini, senza un cambiamento profondo dell'opinione pubblica, non è realistico puntare su una "rivitalizzazione" della Legge 663/86, perché al primo grave delitto saremmo da capo a tirare i freni, in una schizofrenia pericolosa.

Non a caso tra le aspre critiche che nel biennio 1989/1990 vengono mosse alla decarcerizzazione, attuata attraverso la concessione dei permessi premio e delle misure alternative, figurano in primo piano, preoccupazioni in chiave di difesa sociale che puntano come unica via d'uscita su una riaffermazione, in controtendenza rispetto alla "Legge Gozzini", delle valenze retributive della pena; riaffermazione da assicurare soprattutto mediante un recupero di rigidità della fase esecutiva.

Infine, al mosaico di motivi che ho fin qui delineato, manca una ultima, ma importante tessera, necessaria per comprendere meglio il perché di un clima così profondamente mutato rispetto a quello che aveva fatto da sfondo ai primi passi della seconda riforma penitenziaria. Proprio in questi anni acquista dimensioni extra ordinem il problema della criminalità organizzata e, contemporaneamente, si verificano taluni casi dai quali emerge che condannati per gravi fatti di criminalità organizzata, dopo aver ottenuto la concessione di una misura rieducativa - di solito, un permesso premio - hanno approfittato della riconquistata libertà per rendersi irreperibili e, talora, per commettere nuovi reati

A tal proposito, se non può stupire che questi incidenti abbiano finito per portare la questione penitenziaria in primo piano, deve essere motivo di rammarico la constatazione che, ancora una volta, la stessa sia stata affrontata con un approccio di tipo più emotivo che razionale, e, sulla base di tale approccio "poco meditato" si sia scelto di intervenire legislativamente sull'ordinamento penitenziario secondo una logica antitetica a quella sottostante la novella del 1986, presentando queste scelte come una soluzione oggettivamente obbligata.

 

L'ingresso del termine "Criminalità organizzata" nell'ordinamento penitenziario

 

Facciamo un passo indietro per rintracciare il momento in cui il termine "criminalità organizzata" fa ufficialmente il suo ingresso nell'ambito della legge penitenziaria. Ebbene, siffatta terminologia si rinviene per la prima volta nella previsione normativa di cui all 'art. 47 ter dell'ordinamento penitenziario, introdotta con la riforma del 1986 e disciplinante l'istituto della detenzione domiciliare.

Al di là delle problematiche legate alla definizione della locuzione "criminalità organizzata" (delle quali ci occuperemo nel paragrafo seguente) deve sottolinearsi che l'introduzione di questo termine nel 2º comma dell'art. 47ter -ai sensi del quale la detenzione domiciliare non poteva essere concessa quando fosse accertata l'attualità dei collegamenti del condannato con la criminalità organizzata - aveva suscitato non poche perplessità soprattutto con riferimento alla struttura stessa dell'istituto.

La detenzione domiciliare, infatti, non può considerarsi una vera e propria misura alternativa alla detenzione, bensì una particolare modalità di esecuzione della pena prevista in particolari circostanze in favore di soggetti ben determinati. E se la ratio della detenzione domiciliare risiede, dunque, nell'esigenza di evitare la detenzione carceraria di quei soggetti che si trovano in situazioni tali da poter risentire troppo negativamente di una eventuale permanenza in carcere, risulta allora assai contraddittorio l'atteggiamento del legislatore che finisce per subordinare finalità di carattere prettamente umanitario a necessità di tutt'altro genere, finendo così per "manipolarne" lo scopo essenziale.

Peraltro deve avvertirsi che ogni indagine relativa al comma 2º dell'art.47ter ha perso gran parte del proprio significato, dal momento che la norma in questione è stata espressamente abrogata dal 7º comma dell 'art. 1 del d.l. 152/91. Tuttavia questa norma resta importante, perché, nonostante l'abrogazione, la condizione ostativa dell'attuale collegamento del condannato con la criminalità organizzata, sia pure in altra maniera configurata ed articolata, ha finito in pratica per essere esteso, come meglio vedremo, a tutte le misure alternative alla detenzione contemplate nel nostro ordinamento.

 

L'inasprimento della normativa relativa ai permessi premio (art. 13 L.19 marzo 1990 n.55)

 

Fermo restando quanto detto nei paragrafi precedenti, cioè che le preoccupazioni in chiave di "difesa sociale" diffuse a livello di opinione pubblica, hanno portato ad attribuire pesanti responsabilità alla "Legge Gozzini" e a sostenere che il riassestamento dell'ordinamento penitenziario dovesse passare attraverso una sua profonda revisione va, tuttavia, precisato che non sono mancati assertori (in alcuni casi assai convinti) dell'opportunità di una diversa impostazione del problema.

Il denominatore comune di questo orientamento è individuabile nella convinzione che la riforma del 1987 (approvata con sbandierati entusiasmi da un larghissimo schieramento di forze parlamentari) non dovesse essere, almeno nei suoi aspetti di fondo messa in dubbio e che gli inconvenienti ad essa addebitati fossero, in realtà, imputabili a deficienze organizzative e a non corrette prassi applicative.

Sicuramente interessante - anche perché proveniente dall'interno della Magistratura di sorveglianza e, quindi, idonea a riflettere gli "umori" di questo soggetto "attivo" dell'ordinamento penitenziario - risulta la posizione espressa da Alessandro Margara (presidente del Tribunale di sorveglianza di Firenze, uno dei decani dei giudici di sorveglianza), in un momento in cui ha già preso chiaramente corpo l'orientamento "revisionistico". Secondo questa tesi il rimettere perennemente in discussione linee di politica penitenziaria, poco prima tracciate, costituisce, di per se stesso, un elemento di precarietà alquanto nocivo. Il problema non è quello di disegnare nuove cornici legislative, ma occorre resistere alle tentazioni di un "pendolo" continuo e realizzare, piuttosto, le premesse necessarie a far si che il sistema esistente possa sfruttare effettivamente le sue potenzialità, avendo il tempo di crescere sulla base di una sua stabile identità che è del tutto coerente con l 'art. 27 comma 3º della Costituzione e con l'interpretazione che ne ha fornito la Corte Costituzionale. Atteggiamenti analoghi si ritrovano anche all'interno della dottrina.

Sul fatto che tale linea sia risultata perdente non mi pare sia il caso di ripetersi. Tuttavia, credo valga la pena aggiungere qualcosa circa l'insieme di circostanze che hanno determinato, o quanto meno facilitato, detto epilogo.

In sostanza, si tratta di ricordare che le critiche nei confronti della riforma del 1986 sono state prerogativa non solo di coloro che hanno posto in primo piano le esigenze di difesa sociale, ma anche di quanti hanno espresso timori di stampo completamente diverso.

Le perplessità abbiano investito, in particolare, l'ampia discrezionalità giudiziale della Magistratura di sorveglianza, una eccessiva discrezionalità imputata ai troppo elastici criteri soggettivi costituenti il presupposto delle misure rieducative e, considerata fonte di inevitabili diseguaglianze non compatibili con i postulati di un apparato penale garantistico.

Così anche chi, come Luigi Ferrajoli, a suo tempo aveva giudicato con favore l'introduzione delle misure alternative, ha preso posizioni contro le ampliate possibilità di ricalibrare la pena in executivis, e ha ritenuto, in compenso, non più differibile un intervento legislativo sulle troppo alte pene edittali previste nel nostro ordinamento.

I fautori di una ulteriore "messa alla prova" della legge penitenziaria (corroborata da un supporto organizzativo che non le "giocasse contro") sono, come già detto, risultati in forte minoranza. Stando così le cose l'epilogo era scontato. A partire dai primi mesi del 1990 la legge penitenziaria è stata oggetto di una serie di iniziative di carattere legislativo - aventi come (provvisorio) punto di arrivo il d. l. 13 maggio 1991 n. 152 (convertito dalla legge 12 luglio 1991 n. 203) - in seguito alle quali il suo impianto ha subito una prima, significativa modificazione.

Anzitutto deve registrarsi l'approvazione della legge 19 marzo 1990 n. 55 dal titolo Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale il cui art. 13 introduce un comma aggiuntivo (comma 1bis) nell'art. 30 ter. ord. penit., che disciplina l'istituto del permesso premio. In base a questo articolo, qualora la condanna in esecuzione sia stata pronunciata per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, oppure riguardi reati di criminalità organizzata nonché reati commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale, ai fini della concessione del permesso premio "devono essere acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata".

Questa disposizione, con riferimento ai permessi premio, anticipa, sia pure in modo incompiuto, l'indirizzo che sarà organicamente sviluppato in seguito. Infatti il disegno di rendere più strette le maglie dell'ordinamento penitenziario per condannati per reati particolarmente gravi non verrà attuato attraverso una semplice riesumazione della categoria dei "reti ostativi" prevista dal Legislatore del 1975. Allo stesso modo non ci si rifarà al meccanismo operante in altri ordinamenti che, essendosi fatti carico dello stesso problema, hanno adottato come soluzione quella di configurare, in via legislativa, una rilevante frazione della pena inflitta come intangibile, cioè aprioristicamente sottratta alle attenuazioni di carattere qualitativo o quantitativo astrattamente apportabili nel corso della fase esecutiva (si pensi al periode de suretè, meccanismo operante nell'ordinamento penitenziario francese già dal 1978). Simili opzioni vengono scartate, preferendosi puntare sull'introduzione di un regime probatorio differenziato per alcune categorie di detenuti (o meglio di reati) rispetto a quello uniformemente previsto sino ad allora nel nostro ordinamento penitenziario.

Quella appena riportata è una formula legislativa destinata a svolgere un ruolo di non secondaria importanza nella legislazione penitenziaria dei primi anni novanta, tant'è che la stessa verrà riprodotta - pressoché invariata, ma con un ambito di operatività molto più ampio - dalla L. 12 luglio 1991 n. 203 dal titolo disposizioni concernenti nuove misure per la lotta alla criminalità ed ai sequestri di persona. Il suo art. 7 detta, relativamente alla fase esecutiva, una regolamentazione che, se da un lato propone una modifica identica a quella apportata da lì a poco al testo dell'art. 30 ter, dall'altro la perfeziona e ne amplia l'operatività, lasciando chiaramente intendere che gli inasprimenti della legge penitenziaria non sono programmati con esclusivo riferimento all'istituto del permesso premio.

Ciò significa che, nel caso di condannati per delitti di criminalità organizzata od eversiva, la prova negativa circa l'esistenza di collegamenti con la criminalità risulta conditio sine qua non, non solo per la concessione dei permessi premio, ma anche per quella delle altre misure rieducative (semilibertà, affidamento in prova, detenzione domiciliare, liberazione anticipata) previste dalla legge penitenziaria, con tutti i problemi inerenti la estrema problematicità della prova di un fatto storico negativo.

L'ulteriore importante elemento di novità discende dalla previsione secondo cui, ai fini della richiesta prova negativa, deve essere richiesto al Prefetto un parere motivato "...che è espresso, a pena di decadenza, entro 15 giorni" previa consultazione del Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica. Questo meccanismo poneva (e pone, come vedremo successivamente) un evidente problema: il normale canale informativo facente capo al suddetto Comitato e agli organi di P.G., essendo funzionalmente orientato a supportare ipotesi accusatorie, non è facilmente "riconvertibile" e risulta, perciò, scarsamente idoneo a valorizzare elementi eventualmente utilizzabili pro reo.

Anche se il disegno di legge in questione non è andato a buon fine, la sua importanza non può essere sottovalutata: è appena il caso di ricordare che una gran parte delle soluzioni da esso prospettate saranno, in seguito, recepite a livello legislativo.

 

Uno sguardo d'insieme alla legislazione d'emergenza del biennio 1991/1992

 

I "provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata" fanno definitivamente ingresso nell'ordinamento attraverso la Legge 12 luglio 1991 che converte con modificazioni il d.l. 13 maggio 1991 n.152, dopo che tre precedenti e similari decreti, emanati, praticamente senza soluzione di continuità, dal novembre 1990 al marzo 1991, non erano, pervenuti al traguardo della conversione in legge.

In particolare il d.l. 152/91 dedica alla materia penitenziaria il capo I, che consta di quattro articoli (il terzo, peraltro, è del tutto estraneo a tale materia). Si tratta di fatto dell'abrogazione della "Legge Gozzini" per una serie di reati. Più specificatamente, l'art.1 del decreto, attraverso il suo primo comma, introduce nell'ordinamento penitenziario l'art.4 bis (su cui, amplius, infra, par. 1.6). Esso definisce una serie di reati per i quali l'applicazione delle misure alternative subisce forti limitazioni, ed è universalmente riconosciuto come la "norma simbolo" del nuovo orientamento legislativo .Più in particolare, l'art. 4bis opera una separazione tra due distinte fasce di delitti, stabilendo che ai condannati dei delitti della prima fascia le misure penitenziarie rieducative possono applicarsi "solo se sono stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva, mentre nel caso dei condannati per delitti della seconda fascia le stesse misure sono normalmente applicabili, a meno che non siano accertati "elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata od eversiva".

Il comma 3 dello stesso articolo disegna, invece, una nuova disciplina dell'istituto dei permessi premio di cui all'art. 30ter ord. penit.; mentre i commi 2 e 4 prevedono un inasprimento dei termini per accedere, rispettivamente, all'assegnazione al lavoro all'esterno e al regime di semilibertà.

Sempre mediante le disposizioni contenute nell'art. 1 vengono altresì introdotti nell'ambito della legge penitenziaria l'art.58ter, concernente le "persone che collaborano con la giustizia" (comma 5), e l'art. 58quater, che prevede, alcuni divieti temporali assoluti di concessione di benefici penitenziari (comma 6); infine, il 7º comma dell'art.1 sancisce la, già ricordata, abrogazione del 2º comma dell'art.47ter ord. penit..

Per completare l'analisi del capo I d.l. 152/91 deve, in estrema sintesi, ricordarsi che l'art.2 del decreto estende la suddetta disciplina all'istituto della liberazione condizionale, e l'art.4 contiene disposizioni regolanti l'applicazione nel tempo delle norme contenute nel decreto stesso.

Il decreto in oggetto testimonia il "parossismo" del Legislatore che si esprime non solo nel senso della continua alternanza di provvedimenti di riforma e controriforma nel settore carcerario (può, a titolo di esempio, ricordarsi il decreto legge del gennaio 1977, con cui vennero praticamente abrogati i permessi previsti dall'ordinamento penitenziario del 1975), ma anche, con riferimento allo stesso provvedimento con il succedersi di disposizioni meno e più restrittive nelle diverse versioni del testo successivamente introdotte. Si pensi, ad esempio, al fatto che, mentre nella prima stesura, per i reati più gravi -pressoché corrispondenti a quelli individuati come tali dall'art.1 (4bis dell'ord. penit.) del testo del d.l. 152- era prevista una esclusione totale della concedibilità di benefici e permessi per un periodo di 5 anni, nel testo del d.l. 152 la stessa misura viene subordinata alla "prova" della presenza di elementi che valgano ad escludere collegamenti con la criminalità organizzata.

Secondo parte della dottrina è, però, soprattutto l'adozione, in ragione della diversa gravità dei reati, di due distinti regimi probatori a lasciare quantomeno disorientati. Secondo Guazzaloca questa, introducendo una discriminazione del tutto ingiustificata sul piano della fondatezza dei sistemi probatori, rivela la consapevole scelta di utilizzare strumentalmente l'oggetto della prova al fine di escludere definitivamente determinate categorie di condannati dalla fruizione dei benefici, abbandonando così nei loro confronti, come era già avvenuto con la "Legge Gozzini" per i sottoposti a regime di sorveglianza particolare, l'idea del trattamento e della risocializzazione. Ne consegue che il sistema probatorio in questo caso, lungi dall'essere precostituito, come necessario e legittimo, al fine dell'accertamento della verità e della difesa del richiedente, diviene un mezzo di discriminazione e di indurimento della misura afflittiva. Per l'Autore questo è esemplificativo dello stato di avanzamento del processo di amministrativizzazione di un diritto, sempre più disarticolato da criteri di coerenza coi principi e con la logica formale e sempre più (con molta spregiudicatezza) orientato al raggiungimento di risultati strumentali.

Se poi si tiene conto che ciò avviene in un contesto in cui, per l'insieme dei reati considerati, al di là delle pregiudiziali riferite ai legami con la criminalità organizzata, viene comunque instaurato un regime di concessione dei benefici più restrittivo rispetto alla situazione precedente alla riforma del 1975 (visto che la semilibertà e la liberazione condizionale vengono appiattite sul presupposto dell'espiazione di due terzi della pena, mentre prima era sufficiente l'espiazione della metà della pena), si ha la misura del carattere restrittivo e involutivo di queste disposizioni. Secondo l'Autore è emblematico in questo senso l'incoraggiamento del pentitismo, che diviene un presupposto discriminante nel far venir meno ogni forma di limitazione per essere ammessi a godere dei benefici, evidentemente intesi come misure premiali anziché come mezzi trattamentali.

La materia penitenziaria viene ad poi essere ulteriormente riformata attraverso il successivo d.l. 8 giugno 1992 n.306, convertito con modificazioni in Legge 7 agosto 1992 n.356, il quale contiene "modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa".

A parte variazioni di minore importanza (vedi, amplius, infra, par. 1.6) la principale novità viene introdotta nel comma 1º dell'art. 4bis ord. penit., che prevede ora che i condannati per i delitti ricompresi nella prima fascia di tale disposizione possono essere ammessi alle misure rieducative ivi indicate, solo nei casi in cui gli stessi "collaborano con la giustizia a norma dell'art. 58ter".

Quanto alla situazione che fa da sfondo a questo secondo -e ravvicinato- ricorso alla decretazione d'urgenza, credo valga la pena di integrare sinteticamente il quadro tratteggiato a suo tempo.

Devono a tal proposito considerarsi i sempre più forti condizionamenti provenienti da un'opinione pubblica sempre più allarmata dalle constatate difficoltà delle Istituzioni nell'organizzare una efficace reazione contro la criminalità organizzata. Dall'altro, ha indotto a configurare in termini diversi e assai più impegnativi il ruolo che l'ordinamento penitenziario è tenuto a svolgere nei confronti della criminalità organizzata.

In sostanza, in base alla nuova concezione, recepita a livello legislativo col d.l.356/92 (varato successivamente alla strage di Capaci del maggio dello stesso anno, in cui perse la vita Giovanni Falcone), si va oltre la previsione che le varie forme di trattamento extramurario devono essere tendenzialmente precluse ai condannati sospettati di far parte di organizzazioni criminali. Si vuole, infatti, fare in fare in modo che l'esecuzione di una pena detentiva possa essere utilizzata come uno strumento di pressione tale per cui, mediante una inequivoca prospettazione del rapporto "costi-benefici" il condannato per delitti associativi decida di collaborare con la giustizia, assumendo un ruolo concretamente antitetico rispetto all'organizzazione criminale di appartenenza.

Non basta più che l'apparato carcerario custodisca, dovendo esso anche favorire fenomeni di "pentitismo" nelle fila della criminalità organizzata. Attraverso il d.l. 306 il Legislatore porta, dunque, a definitivo compimento quello che si rivela essere il suo nuovo orientamento in materia penitenziaria: i circuiti trattamentali si moltiplicano e la loro alternatività alla pena detentiva risulta ora commisurata soprattutto alla quantità e alla qualità della collaborazione prestata. Il principio di "alternatività" alla pena detentiva subisce in questo modo un totale sconvolgimento, essendo d'ora in poi subordinato alla "collaborazione".

In coerenza con una simile strategia vengono tratteggiate le prospettive conseguenti al tipo di scelta che il condannato decida di compiere: mentre nei confronti di chi collabora, non solo è rimosso lo sbarramento alla concedibilità delle misure, ma si perfeziona il sistema protettivo già introdotto dal d.l.8/91 (convertito con L. 82/91) per ridurre i rischi conseguenti alla prestata collaborazione, nei confronti del condannato che non collabora si fa in modo che la detenzione acquisti connotati chiaramente punitivi. Infatti le misure di trattamento extramurario sono, come detto, automaticamente precluse, ed inoltre, grazie al "nuovo" 2º comma dell'art.41 bis dell'ord. penit. viene ad essere espressamente contemplata la possibilità di sospendere "l'applicazione delle regole di trattamento" e, quindi, di attuare una carcerazione caratterizzata da un considerevole grado di afflittività.

Accennando al rapporto intercorrente tra la normativa del 1992 e quella approvata un anno prima vi è evidente omogeneità, ma almeno credo, altrettanto evidente radicalizzazione.

Si pensi, a tal proposito, al diverso modo con cui vengono configurate le prerogative della Magistratura di sorveglianza. La legislazione del 1991 aveva perseguito l'obbiettivo di arginare la discrezionalità dei giudici preposti alla concessione delle misure rieducative. Questo, tuttavia, non aveva comportato una limitazione nella sfera di autonomia decisionale di tali giudici. Infatti, fermo restando il carattere "privilegiato" delle informazioni trasmesse dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza, la giurisprudenza della Corte di Cassazione, si orienta a favore della non vincolatività delle informazioni trasmesse dal comitato (cfr., tra le altre, Cass. 5 maggio 1992, in Cassazione Penale, 1993, e Cass. 13 febbraio 1992, in Giurisprudenza Italiana, 1993) e, quindi, l'organo giudicante può fondare le proprie decisioni anche su contributi probatori di diversa provenienza. Non altrettanto sembra potersi dire alla luce delle innovazioni introdotte a un anno di distanza: mi riferisco, in particolare, al "nuovo" comma 3 bis dell'art.4 bis ord. penit. (su cui, amplius, infra, par. 1.6.1) il quale testimonia una voluntas legis orientata a negare alla magistratura di sorveglianza una qualsiasi possibilità di discostarsi dal contenuto negativo di una eventuale comunicazione proveniente dal procuratore - nazionale o distrettuale - antimafia.

Un altro elemento conferma la grande "risolutezza" con cui si è mosso il legislatore del 1992: l'efficacia temporale della nuova normativa penitenziaria. Vengono meno, infatti, le incertezze che avevano caratterizzato l'intervento immediatamente precedente, dal quale traspariva una evidente cautela del legislatore nel sancire la retroattività delle previsioni "peggiorative" introdotte. In questa circostanza, al contrario, nelle ipotesi in cui la collaborazione è considerata imprescindibile ci si orienta a favore di una disciplina connotata da una forte efficacia retroattiva.

Infatti, in mancanza di collaborazione, viene espressamente prevista la revoca della misura legittimamente concessa sulla base della previgente regolamentazione, nonostante l'irrevocabilità del provvedimento che aveva deciso in tal senso e, quel che è più grave, anche indipendentemente dall'esistenza di un qualsiasi addebito da muovere al beneficiario della misura rieducativa. Ci troviamo così di fronte a uno dei riflessi negativi che l'impostazione unilaterale del legislatore del 1992 ha comportato sul versante del finalismo rieducativo della pena.

 

L'art. 4 bis della legge penitenziaria

 

Nel precedente paragrafo si è dato uno sguardo d'insieme ai vari provvedimenti d'urgenza che si sono succeduti a partire dal 1991.

Credo sia ora opportuno soffermarsi più dettagliatamente sull'art. 4bis, passando dalle riflessioni sul ruolo all'esame dei suoi contenuti.

L'articolo in oggetto è stata introdotto dal primo comma dell'art.1 del d.l. 152/91, è stato poi successivamente riformulato attraverso l'art.15 del d.l. 306/92, per essere poi ulteriormente (e definitivamente) modificato dalla legge di conversione n.356 dello stesso anno. Questa disposizione è universalmente riconosciuta come norma simbolo della legislazione d'emergenza.

Credo, a tal proposito, che già l'ampia attenzione mostrata nei confronti dell'art.4bis dal Legislatore, che in più occasioni nell'arco di un solo biennio ha provveduto a riscriverne la disciplina, fornisca la misura dell'importanza attribuita a tale disposizione. E in effetti le modifiche ad esso nel tempo apportate consentono di "apprezzare" pienamente il significato di una escalation normativa ampiamente condizionata dalle necessità contingenti ed influenzata dalle emozioni e dall'allarme sociale causati dalle "esecuzioni mafiose" di quegli anni.

È dunque soprattutto per rispondere a una "rabbia sociale" in forte crescendo -altro problema è poi valutarne la genuinità e concreta portata- che il Legislatore, già nel suo intervento del 1991, ha individuato, tramite il primo comma dell'art.4 bis una serie di reati i cui autori risultano presuntivamente legati alla criminalità organizzata e nei confronti dei quali viene disegnata una disciplina che limita fortemente le possibilità loro concesse di accedere agli ordinari benefici accordati dalla legge penitenziaria.

Il primo comma dell'art.4bis, in particolare, contempla due distinte fasce di reati di particolare gravità i cui autori hanno facoltà di accedere alle misure alternative, ai permessi premio, al lavoro all'esterno soltanto qualora, e dal momento in cui, vengano riscontrate determinate condizioni espressamente richieste e specificate dalla stessa norma. Alla prima fascia, che ai sensi della nostra indagine interessa maggiormente, appartengono i condannati per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art.416bis c.p. o al fine di agevolare le associazioni mafiose; per associazione a delinquere di tipo mafioso (art. 416bis c.p.); sequestro di persona a scopo di estorsione (art. 630 c.p.); associazione a delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (art. 74 T.U. leggi sugli stupefacenti).

In base alle previsioni contenute nell'originario dettato di cui al primo comma dell'art.4bis, costoro potevano accedere ai vari benefici penitenziari solo tramite l'acquisizione di elementi tali da fare escludere i loro collegamenti con la criminalità organizzata.

La dottrina e la giurisprudenza di merito. Circa i profili di illegittimità costituzionale, Tribunale di sorveglianza di Perugia, 1º aprile 1992, in G.U. 10 giugno 1992, 1º serie speciale, n. 25) segnalarono subito l'iniquità di una simile previsione, che si sostanziava, in ultima analisi, nella richiesta di una probatio diabolica, una prova di tipo "negativo" ai limiti, appunto, della impossibilità. Veniva evidenziato il palese contrasto di queste disposizioni con le norme costituzionali di cui agli artt.3 (postulante il principio di eguaglianza), 24 comma 2º (relativo al diritto di difesa) e 27 comma 3º (che individua la finalità rieducativa della pena).

Tuttavia, la riforma operata dal successivo d.l. 306/92 si è spinta ancora oltre, dettando una disciplina ben più rigida e afflittiva nei confronti dei suddetti condannati: l'accesso ai benefici penitenziari viene negato sul presupposto assoluto del collegamento con la criminalità organizzata. L'unica via che consente a tali detenuti di rendere inoperante siffatto divieto consiste nell'offerta della collaborazione con la giustizia delineata e disciplinata attraverso l'art.58ter ord. penit. anch'esso introdotto dal d.l. 152/91.

Merita d'essere sottolineato con riferimento alle fasce di delitti contemplate dall'art.4bis, un cambiamento relativo alla ripartizione delle due categorie individuate a suo tempo dal legislatore del 1991: mi riferisco ai "delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale" vengono fatti "slittare" nel secondo elenco, ossia tra i delitti relativamente ai quali la condizione ostativa continua ad essere quella della sussistenza di collegamenti con la criminalità.

Un duplice ordine di ragioni è stato, probabilmente, alla base di una simile scelta. Da un lato la volontà di non assumere inutili atteggiamenti rigoristici nei confronti di condannati che, dopo lunghe vicende detentive, caratterizzate assai spesso da un processo di revisione critica delle proprie azioni, risultino idonei a essere anticipatamente recuperati alla vita civile. Dall'altro (soprattutto?) la constatazione che il terrorismo è un fenomeno ormai definitivamente superato, e quindi che una ipotetica collaborazione non avrebbe recato apporti particolarmente significativi alla ricostruzione di fatti già sufficientemente definiti.

Il profilo che suscita maggiori perplessità, tanto da essere posto al centro di varie eccezioni di legittimità costituzionale, è quello relativo ai rapporti intercorrenti tra il requisito della collaborazione e il principio della rieducazione che, in ossequio all'interpretazione che dell'art.27 comma terzo della Costituzione danno la Corte Costituzionale e la dottrina prevalente, dovrebbe improntare di sé la fase dell'esecuzione della pena. Si tratta, con tutta evidenza, di categorie eterogenee. A tal proposito è lecito ipotizzare situazioni in cui, pur essendo prestata la collaborazione ex art. 58ter, non sia ravvisabile l'esistenza di un soddisfacente percorso rieducativo, ed altrettanto plausibile è il caso inverso. Anzi, è proprio questa seconda eventualità a porre i problemi di più difficile soluzione. Infatti, mentre laddove vi sia collaborazione "senza rieducazione" la magistratura di sorveglianza ben potrà rifiutare la concessione delle misure rieducative, a termini invertiti non esiste un valido meccanismo compensativo: nel caso di condannati per delitti associativi, infatti, la mancanza di collaborazione importa, di regola, un automatico rifiuto delle misure rieducative - fatta eccezione per la liberazione anticipata - senza alcuna possibilità per l'organo giudicante di scendere nel merito della richiesta.

Tra l'altro, come evidenziato da B. Guazzaloca, questa disciplina - già "discutibile" qualora la si applichi a coloro che, pur astrattamente in grado di collaborare, si orientino in senso negativo sulla base di motivazioni non necessariamente incompatibili con una revisione critica delle proprie scelte delinquenziali - appare assolutamente irragionevole allorquando va a colpire condannati che (si pensi al caso di un già completo accertamento delle responsabilità penali o a quello di un compartecipe all'oscuro delle articolazioni interne all'organizzazione) si trovino nell'impossibilità di soddisfare il requisito stabilito dal legislatore penitenziario.

Quest'ultimo problema non trova soluzione neppure nel "nuovo" art.4bis come modificato in sede di conversione del decreto legge, che si limita ad ammettere la possibilità di una collaborazione inferiore, sul piano dei risultati, a quella ordinariamente richiesta.

Su queste tematiche ha avuto modo di intervenire la Corte Costituzionale con la sentenza n.306 del 1993, che, però, pur segnalandosi per alcune apprezzabili affermazioni di principio, non ha, tuttavia, significativamente alterato il quadro tratteggiato dal legislatore. La Corte, infatti, ha escluso la violazione dell'art.27 comma 3º della Costituzione in base al decisivo rilievo che la concessione della liberazione anticipata è garantita anche al condannato non collaborante.

Solo con riferimento all'istituto della revoca di misure precedentemente concesse la Corte Costituzionale ha assunto una posizione nettamente diversa da quella del legislatore, proprio per salvaguardare il principio rieducativo. La sentenza n.306 del 1993 si è infatti tradotta in un intervento additivo sull'art.15 comma 2º del d.l. 306/92 che imponeva la revoca della misura rieducativa precedentemente concessa al condannato per taluno dei reati figuranti nella prima categoria di reati prevista dall'art.4bis comma 1º ord. penit. a prescindere dal fatto che la sua condotta risultasse - magari da lungo tempo - ineccepibile.

In sostanza la Corte ha contestato che la mancata collaborazione di colui la cui pericolosità sia già stata esclusa dalla Magistratura di sorveglianza al momento della concessione della misura rieducativa possa essere considerata un indice univoco di inidoneità al trattamento extramurario. Ed ha concluso che il ripristino del regime detentivo ordinario debba essere subordinato alla ricorrenza di un ulteriore requisito: quello dell'accertata sussistenza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata.

Per completare l'analisi dell'art.4 bis (al comma 3 bis si dedicherà una più specifica trattazione) deve dirsi che i commi 2 e 3 dello stesso prevedono che la fase procedurale dell'accertamento della pericolosità dei condannati per i reati di cui al precedente 1º comma sia essenzialmente finalizzata all'acquisizione da parte della magistratura di sorveglianza di "dettagliate informazioni fornite dal Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica".

Data questa normativa, appare pressoché indecifrabile in ordine l'eventuale potere discrezionale che resta attribuito alla Magistratura di sorveglianza nei confronti di un parere obbligatoriamente assunto e fornito da una autorità amministrativa che (come peraltro già sottolineato nei paragrafi precedenti), proprio per essere preposta al conseguimento dell'ordine e della sicurezza pubblica, potrà essere facilmente portata a giudicare ogni autore di un grave delitto come presuntivamente e necessariamente dotato di elevata pericolosità sociale.

Tra l'altro le "domande" circa la vincolatività o meno delle informazioni assunte dal Comitato o circa il cosa debba accadere nel caso che il rapporto informativo non venga fornito nei termini o non sia sufficientemente dettagliato non hanno trovato risposte univoche.

Infine sembra opportuno sottolineare alcuni contrasti tra la norma in oggetto e la normativa costituzionale.

Secondo Fiandaca sia la prima parte del comma in esame che il comma 2º dell'art.15 del d.l.306/92 sembrano censurabili alla luce di quanto disposto dall'art.27 comma 3º della Costituzione. Per questo autore, infatti, nella disciplina introdotta da queste norme la pena smarrisce la sua finalità rieducativa, essendo il percorso alternativo non prerogativa di coloro che mostrano confortanti risultati nel corso del programma trattamentale, ma soltanto di quanti optano per l'offerta della "collaborazione" di cui all'art.58ter.

Secondo Fiandaca può ravvisarsi, altresì, contrasto con l'art.24 comma 2º della Costituzione: la normativa in esame sembra infatti violare il diritto di difesa nella misura in cui costringe l'imputato (o condannato) a optare "obbligatoriamente" per una linea difensiva forzatamente orientata alla collaborazione, la sola che può poi portare, in concreto, al conseguimento di un qualsiasi risultato favorevole in fase esecutiva.

 

L'ingerenza delle Procure antimafia nel settore delle misure rieducative

 

Assolutamente inedita risulta la previsione contenuta nel comma finale dell'art. 4bis ord. penit.: il comma 3bis introdotto dal legislatore del 1992, in virtù del quale i benefici penitenziari non possono essere concessi nel caso in cui il Procuratore nazionale antimafia ovvero il Procuratore distrettuale comunica l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.

Da un certo punto di vista ciò ha la sua elementare spiegazione nel fatto che la disposizione in oggetto prevede l'attuazione di organismi - il procuratore nazionale e i procuratori distrettuali antimafia - di creazione soltanto recente. Da un altro, e più sostanziale, punto di vista, tuttavia, il novum è soprattutto di carattere contenutistico e sembra doversi ricollegare al disegno del Legislatore del 1992 di realizzare, in qualsiasi modo, sbarramenti più estesi e radicali di quelli posti in essere con la normativa anteriore.

Innanzi tutto, viene capovolta la precedente impostazione del rapporto regola-eccezione, nel senso che la disciplina restrittiva non fa riferimento ai soli condannati per i reati elencati primo comma, bensì riguarda, più genericamente, tutti i detenuti per delitti dolosi.

Secondariamente, viene messa da parte ogni "cautela" nei confronti della Magistratura di sorveglianza che viene assoggettata a una regolamentazione avente come obbiettivo, non tanto quello di spingerla ad utilizzare determinati canali informativi, quanto, piuttosto, quello di farla abdicare in toto alla propria autonomia conoscitiva e decisionale. Stando alla lettera della legge, infatti, essa deve limitarsi a prendere atto dell'eventuale comunicazione delle procure antimafia attestante "l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata", e, su tale base, negare l'ammissione al lavoro esterno ovvero la concessione dei permessi premio, nonché delle "misure alternative alla detenzione previste dal capo VI" della legge penitenziaria.

Di fronte a una disposizione di questo genere si pone il problema dell'efficacia da attribuire all'informativa del procuratore antimafia.

Parte della dottrina si attiene a un interpretazione letterale della norma e riconosce al Procuratore stesso un potere di veto, implicante un corrispondente azzeramento della autonomia decisionale della magistratura di sorveglianza.

Altra parte della dottrina, considerata l'incontestabile qualifica di giudice che spetta tanto al magistrato quanto al tribunale di sorveglianza e considerato, altresì, il carattere giurisdizionale del procedimento da adottare per l'applicazione della maggior parte delle misure rieducative, sostiene che una interpretazione che valorizzi esclusivamente la lettera dell'art.4bis comma 3bis ord. penit. finirebbe per essere in contrasto con più di un precetto della nostra Carta costituzionale.

Secondo questa dottrina, infatti, riconoscendo ai procuratori antimafia la titolarità di un insindacabile potere di veto, verrebbero ad essere lesi, da un lato, il principio della esclusiva soggezione del giudice alla legge (art. 101 comma 2º Cost.), dall'altro (con più specifico riferimento al procedimento di sorveglianza) i principi relativi all'inviolabilità del diritto di difesa (art. 24 comma 2º Cost.) ed alla necessaria motivazione dei provvedimenti giurisdizionali (art. 111 comma 1º Cost.).

Quindi, secondo Franco Della Casa, la soluzione più corretta è quella di applicare alla comunicazione della procure antimafia gli stessi standards che, sulla base della giurisprudenza della Corte di Cassazione e della stessa Corte Costituzionale, valgono per la analoga informativa riservata al Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza. Quindi anche l'informativa dei procuratori antimafia deve specificare i dati sui quali si basa una determinata presa di posizione e, soprattutto, deve ritenersi che la magistratura di sorveglianza possa disconoscere la fondatezza di una eventuale comunicazione negativa, contrapponendole risultanze diverse, proveniente da altre fonti di prova.

 

La nuova disciplina dei permessi premio

 

Fondamentali modifiche sono state apportate, tramite il d.l. 152/1991, alla disciplina relativa all'istituto dei permessi premio, introdotto nell'ordinamento penitenziario dalla riforma del 1986.

Mentre, nel suo dettato originario, il comma primo dell'art. 30ter ord. penit. richiedeva, tra le condizioni per poter usufruire dei permessi premio ivi disciplinati, una "non particolare pericolosità sociale" dei condannati, la legislazione del 1992 impone di sostituire il termine di particolare pericolosità sociale con quello socialmente pericolosi.

Notevoli sono le conseguenze di questo mutamento: infatti la "pericolosità sociale" (non più, si noti bene, "particolare") è insita, in ultima analisi, praticamente in ogni soggetto autore di un reato. E poiché, nella prassi, la positiva fruizione di alcuni permessi premio ha finito per essere propedeutica all'ammissione alle misure alternative alla detenzione, risulta assai discutibile la scelta del Legislatore che indica, proprio con riferimento a tale beneficio, una condizione di ammissibilità più "restrittiva" rispetto alle condizioni di ammissibilità alle altre misure lato sensu "premiali", le quali, in una ipotetica scala dei benefici penitenziari, occupano senza dubbio un gradino più alto di quello dei permessi premio.

Anche in questo caso l'atteggiamento del Legislatore sembra comprensibile (anche se non per questo giustificabile!) solo alla luce dell'allarme sociale conseguente a, invero rari, eclatanti casi di mancati rientri, i quali hanno evidentemente spinto verso un irrigidimento delle condizioni ammissive ai permessi premio, senza tuttavia tener conto dei risvolti che una tale riformata normativa avrebbe avuto nei confronti del programma trattamentale nel suo complesso, in riferimento al quale, per espressa dizione normativa, proprio l'esperienza dei permessi premio costituisce una irrinunciabile parte integrante.

 

Ulteriori divieti di concessione di benefici

 

L'art. 58 quater ord. penit. contiene ulteriori divieti assoluti, sia pure temporanei, di concessione di benefici penitenziari. Esso si compone di 7 commi, i primi quattro introdotti dal d.l. 152/91, gli ultimi tre aggiunti dal successivo d.l. 306/92.

In virtù di queste norme i benefici penitenziari non possono essere concessi nei confronti dei condannati per taluno dei reati indicati dal comma 1º art. 4bis ord. penit. che abbia posto in essere il reato di evasione (art. 385 c.p.) ovvero di un qualunque condannato nei confronti del quale sia disposta la revoca di una misura alternativa (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà); il divieto di concessione opera, in questi casi, per un periodo di tre anni dal momento in cui è ripresa l'esecuzione della pena o è stato emesso il provvedimento di revoca. E ancora, gli stessi benefici non possono essere concessi, o se già concessi vengono revocati, ai condannati per taluno dei reati di cui al primo comma dell'art.4bis nei cui confronti si procede o è pronunciata sentenza di condanna per un delitto doloso punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo ad anni tre, commesso da chi ha posto in essere una condotta punibile a norma dell'art. 385 c.p.;ovvero durante il lavoro all'esterno o la fruizione di un permesso premio o di una misura alternativa alla detenzione; in questo caso tale divieto opera per un periodo di cinque anni.

Infine, i condannati per i delitti di cui agli artt. 289bis (sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione) e 630 c.p. (sequestro di persona a scopo di estorsione) che abbiano cagionato la morte del sequestrato non sono ammessi alla fruizione dei benefici penitenziari se non abbiano espiato i due terzi della pena irrogata o, nel caso dell'ergastolo, almeno 26 anni.

Appare evidente come la normativa in oggetto si risolva, in pratica, in una gravosa afflizione nei confronti di determinati soggetti condannati per la commissione di particolari reati e successivamente autori di nuovi reati (o meglio, nei confronti dei quali si sta indagando, visto che non sembra essere richiesta alcuna condanna definitiva), ovvero nei riguardi di soggetti che dopo aver "illuso" su una loro progressiva rieducazione, viceversa si appalesino inidonei al trattamento alternativo.

A tal proposito Bruno Guazzaloca sostiene che con la norma in oggetto la pena viene a connotarsi definitivamente, quanto meno nei confronti di determinati condannati, in senso marcatamente ed esclusivamente retributivo.

 

La sospensione delle normali regole del trattamento penitenziario

 

L'art. 19 del d.l. 306/92 inserisce nell'art. 41 bis ord. penit. un comma secondo che appare una riproposizione, sia pure riveduta e corretta, del (tristemente) famigerato art. 90, la cui abrogazione costituisce uno degli elementi qualificanti della riforma del 1986.

Ai sensi dell'art.41bis, quando ricorrano gravi motivi di ordine e di sicurezza pubblica, anche a richiesta del Ministro dell'Interno, il Ministro di Grazia e Giustizia ha la facoltà di sospendere nei confronti dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1º dell'art.4bis, l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge penitenziaria che possano porsi in concreto contrasto con le esigenze di ordine e sicurezza.

La norma, a differenza dell'abrogato art. 90, non individua carceri speciali, bensì detenuti speciali nei confronti dei quali, sussistendo gravi motivi di ordine e sicurezza pubblica, può dunque trovare applicazione la sospensione delle normali regole di trattamento. Ma si rifletta: i condannati cui la norma fa esplicito riferimento sono in definitiva gli stessi nei confronti dei quali valgono tutti quei divieti di concessione dei benefici penitenziari che si sono precedentemente esaminati, per cui, quanto meno in relazione a eventuali divieti o sospensioni della concessione di tali benefici, la norma sembra possedere più carattere simbolico che un effettivo impatto sull'ordinamento penitenziario. Quanto poi alle regole trattamentali sostitutive di quelle ordinarie, davanti all'assoluto silenzio della disposizione, si è ritenuta applicabile la normativa di cui agli articoli 14bis e seguenti dell'ordinamento penitenziario disciplinante il regime di sorveglianza particolare. Sennonché la prassi ha mostrato un pressoché totale inutilizzo di tale disciplina normativa. Appare, dunque evidente che la previsione di cui al 2º comma dell'art.41bis ha finalità pressoché esclusivamente simboliche.

L'articolo 41bis sembra confermare la tesi di chi ha sostenuto che il Legislatore ha emanato i vari provvedimenti di riforma in materia carceraria, più che per i mutamenti effettivi che essi avrebbero prodotto, per le premesse che essi pongono alla riorganizzazione di campagne di allarme sociale, alla individuazione di nuovi capri espiatori ed alla rappresentazione rilegittimante della efficienza repressiva dello Stato.

Questa tesi è stata proposta, tra gli altri, da G. Mosconi che ha affermato che la legislazione del biennio 1991/1992 si conforma ad una trasformazione più generale riscontrabile nella natura giuridica delle norme. A suo parere si è assistito ad un "progressivo dissociarsi della legittimazione delle norme dalla coerenza degli effetti da esse prodotti con le definizioni letterali, con i nessi logico formali, con i fondamenti di valore su cui sembrano fondarsi e il prodursi di effetti reali altri, collocabili sul piano della produzione di simboli e di altri strumenti funzionali alla riorganizzazione del controllo sociale".

B. Guazzaloca ha parlato di "schizofrenica ridondanza delle norme". Il Legislatore ha la tendenza "di farsi guidare dagli eventi anziché guidarli" e di rispondere ad ogni situazione di allarme sociale con nuove norme che, lungi dall'integrare un unico disegno, danno sovente luogo a fenomeni di riforma e controriforma che si susseguono anche ad intervalli brevissimi. Quale esempio della "scarsa lungimiranza" del Legislatore, Guazzaloca cita proprio la legislazione del biennio 91/92, in cui l'enfasi è posta sulla pericolosità di scarcerare determinati soggetti, senza considerare che la stessa pericolosità, in termini ancor più accentuati, si presenterà, quando gli stessi soggetti saranno scarcerati una volta scontata la pena senza alcun tentativo di risocializzazione.

Sulla stessa linea si è posto M. Pavarini che ha sottolineato come la crescente domanda sociale di sicurezza dalla criminalità spinga, in un settore in cui il dibattito politico è acceso e cruciali sono le risorse atte a produrre allarme sociale e consenso, il Legislatore a evitare prese di posizione definitive ed a limitarsi a formulare, appunto sul piano simbolico, minacce e rassicurazioni sotto forma di norme.

Da questo punto di vista anche la mafia non è oggi più temibile di ieri, è solo socialmente avvertita come tale.

Secondo lo stesso Autore, con la caduta del muro di Berlino e la fine del conflitto ideologico che portava a considerare gli avversari politici come nemici è sorta nella società l'esigenza di creare nuovi nemici.

Si è così avuta una "enfatizzazione" del rischio - mafia e il Legislatore ha cercato di tacitare l'opinione pubblica con provvedimenti dalla scarsa efficacia reale ma dall'elevato valore simbolico.

Ritengo sia particolarmente importante dare "evidenza" ai connotati simbolici di questi provvedimenti perché sono convinto che essi siano non solo del tutto inefficaci nei confronti della criminalità organizzata, ma addirittura dannosi, in quanto volti a soddisfare in modo artificiale la domanda di tutela, eludendo per questa via i nodi reali alla base dei fenomeni criminosi.

Bisogna però guardarsi dall'errore di proporre una semplicistica equazione tra norma simbolica ed inefficacia. La normativa del biennio 91/92 ha avuto sicuramente l'effetto di delegittimare la giurisdizione dell'esecuzione dando un segnale di totale sfiducia nei confronti dei suoi operatori.

Come cercherò di mostrare nella seconda parte di questo lavoro tale messaggio sembra essere stato recepito dalla Magistratura di sorveglianza che, priva di una giurisprudenza consolidata e di una ideologia propria, è più degli altri organi giurisdizionali sensibile a problemi di legittimazione del proprio agire. A fronte di questo processo di delegittimazione, la Magistratura di sorveglianza, ha infatti finito per oltrepassare col proprio agire gli stessi limiti tecnici posti dalla legge, attestandosi su posizioni di intransigenza che hanno avuto come conseguenza una forte contrazione nella curva delle misure alternative concesse.

 

Segnali di una rinnovata attenzione per il "Trattamento"

 

La ricostruzione degli indirizzi di politica penitenziaria maturata negli anni successivi alla novella del 1986 sarebbe incompleta se non si accennasse al d.l. 14 giugno 1993 n. 187 convertito dalla legge 12 agosto 1993 n.296 avente ad oggetto Nuove misure in materia di trattamento penitenziario, nonché sull'espulsione dei cittadini stranieri.

Questa disposizione realizza un ampliamento dell'ambito di applicazione della detenzione domiciliare e delle sanzioni sostitutive (innalzando i limiti di pena originariamente previsti per la concessione di dette misure e ampliando, con riferimento alla detenzione domiciliare, le situazioni soggettive di fruibilità della misura previste dal comma 1º dell'articolo 47 ord. penit.) e prevede un meccanismo idoneo a consentire l'espulsione dal paese di una consistente quota di detenuti stranieri, siano essi condannati o ancora sub iudice

Il provvedimento presenta indubbi elementi di eterogeneità rispetto a quelli che l'hanno preceduto. Tuttavia è difficile dire se la norma in questione rappresenti l'espressione di una vera e propria inversione di tendenza destinata a consolidarsi, o se si tratti di una disposizione "emergenziale" svincolata da un disegno più generale, che appare necessario per risolvere problemi strutturali.

Appare infatti evidente il collegamento tra il decreto legge in oggetto e la drammatica situazione di sovraffollamento delle carceri italiane, sovraffollamento dovuto anche, e forse soprattutto, alla ridotta utilizzazione delle misure alternative.

I dati relativi al sovraffollamento carcerario sono oltremodo eloquenti: si è passati dai 25.000 detenuti della fine del 1990 agli oltre 50.000 dei primi mesi del 1993. Considerata la capienza molto inferiore (30.000 posti) del nostro apparato carcerario, e considerata, altresì, la concorrenza di altri fattori negativi di carattere "qualitativo" (alta presenza di imputati, da un lato, e di detenuti extracomunitari, tossicodipendenti, affetti da Hiv, dall'altro) è comprensibile che negli istituti di pena si sia venuto a creare un clima carico di tensioni ed è altrettanto comprensibile che si sia cercato, appunto col d.l. 187/93, di attenuare la pressione della popolazione detenuta sulle strutture carcerarie.

Se la Legge 296/93 dovesse essere l'ennesima norma emergenziale svincolata da un disegno più generale di lotta alla criminalità organizzata, credo si debba assumere anche nei confronti di questa disposizione un atteggiamento assai critico, in considerazione del fatto che il primo requisito di una politica che voglia essere efficace nei confronti del fenomeno delinquenziale, che si fa temere proprio perché organizzato, dovrebbe esser proprio la sistematicità e la chiarezza.

 

Considerazioni finali

 

La normativa del biennio 1991/1992 presenta numerose e in gran parte fondate questioni di conformità al dettato costituzionale. Si pensi a tal proposito al sostanziale ridimensionamento del ruolo della Magistratura di sorveglianza, spesso relegata a una funzione "notarile" e comunque delegittimata nei suoi poteri discrezionali e finanche decisionali. Allo stesso tempo emergono rilevanti problematiche interpretative legate ad un farraginoso dettato normativo, dal quale emergono evidenti limiti strutturali di natura prettamente logico-sistematica. Infine deve rilevarsi il ribaltamento di quelli che erano stati considerati i pilastri concettuali inamovibili del nostro sistema nella fase dell'esecuzione della pena, con la creazione di un sottosistema che si ispira a canoni antitetici.

Sia subito chiaro che la mia non vuole essere una critica preconcetta delle scelte perseguite con le norme in esame, bensì una censura di singole opzioni legislative che, con tutta evidenza, non hanno tenuto in alcun conto le gravi ripercussioni negative insite in esse. Infatti, non mi sento di condannare aprioristicamente un Legislatore che, in contrapposizione ad una legge dove non esiste alcuna (o quasi) presunzione di pericolosità sulla base dei reati commessi e dei contatti tuttora esistenti con il crimine organizzato, codifichi una normativa che viceversa tenga conto di predeterminate situazioni "a rischio" dettando per queste una disciplina differenziata. Ma, al tempo stesso, non comprendo l'esasperazione assoluta di siffatta esigenza che giunge ad esprimere una normativa in cui vige una presunzione assoluta di pericolosità, anche di fronte ad eventuali prove certe di un recupero sociale e di una rieducazione avvenuta che non siano accompagnati da una "collaborazione" offerta alla giustizia. E ancora posso "comprendere" la legge quando stabilisce il patto contrattuale col pentitismo mafioso, ma, anche in questo caso, sono i modi e i tempi a lasciare alquanto perplessi: il tutto e subito che vale, in tema di benefici penitenziari, per i collaboratori ammessi allo speciale programma di protezione costituisce in questo senso l'esempio più lampante. Il Legislatore poteva, più correttamente a mio avviso, prospettare un trattamento sufficientemente mite in capo ai condannati che collaborano con la giustizia (ma non per questo inosservante del principio di una pena dalla finalità comunque rieducativa!), invece ha optato per una soluzione diversa in base alla quale i collaboratori sono fatti accedere a un circuito trattamentale alternativo del tutto estraneo a ogni tentativo di risocializzazione.

Ma, in particolare, alla luce del carattere "simbolico" di queste norme intendo dimostrare che la legislazione d'emergenza ha prodotto un "contraccolpo" anche e soprattutto al di fuori della limitata materia espressamente regolata dai provvedimenti di natura emergenziale. Infatti, come già evidenziato, la nuova disciplina è in grado di condizionare l'accesso alle misure alternative anche dei condannati per i reati assolutamente estranei alle recenti previsioni normative, poiché appare verosimile che una magistratura di sorveglianza alla quale, in definitiva, si è sostanzialmente rimproverata una eccessiva morbidezza in fase decisionale, dal 1991 in poi abbia dato una peso di gran lunga maggiore rispetto a quello, peraltro già assai consistente, fino ad allora concesso a ogni generica "notizia di pericolosità sociale" relativa a un qualsiasi detenuto proveniente da un organo amministrativo e/o di polizia.

 

 

Precedente Home Su Successiva