Misure alternative


Introduzione

 

Dopo la riforma introdotta con la Legge del 10 ottobre 1986 n. 663 (la cosiddetta Legge Gozzini) molte sono state le vicissitudini che hanno inciso sulla legislazione penitenziaria - soprattutto nei primi anni novanta - come riflesso, in particolare, di una recrudescenza della criminalità organizzata.

Già poco tempo dopo l'approvazione della Legge 663/86 era affiorata in vasti settori del mondo politico e giudiziario una certa perplessità, diffusa anche a livello di opinione pubblica, circa le eventuali distorsioni che si sarebbero potute verificare in sede applicativa. In particolare veniva criticata l'eccessiva discrezionalità della Magistratura di sorveglianza. Si temeva che una gestione indulgente delle misure premiali che la legge aveva ampliato approfondisse la sfasatura che si era già determinata tra le pene irrogate con la sentenza di condanna e quelle realmente scontate in carcere.

A partire dal 1989 si verificarono inoltre alcuni casi di evasione da parte di detenuti mafiosi che destarono grande scalpore nell'opinione pubblica. In realtà quasi nessuno di questi casi aveva a che fare con la legge penitenziaria (si trattava spesso di detenuti in attesa di giudizio, quindi non in grado di usufruire di permessi e misure alternative), tuttavia, i Ministri dell'Interno del tempo - Gava e Scotti - ne incolparono la Legge 663/86.

In questo contesto, successivamente aggravatosi soprattutto a causa dell'allarme sociale suscitato dai tragici attentati in cui persero la vita Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, prendono origine il D.L. 13 maggio 1991, convertito nella Legge 12 luglio 1991 n. 152 e il D.L. 8 giugno 1992 n. 306, convertito nella Legge 7 agosto 1992 n. 356. Caratteristica fondamentale di questi ultimi interventi legislativi è quella di rendere inaccessibile l'insieme delle misure alternative ai detenuti che abbiano commesso reati connessi con la criminalità organizzata.

Più in particolare, la Legge 203/91 ha istituito un regime probatorio differenziato nei confronti dei condannati per i reati di associazione mafiosa ed eversiva, i quali possono fruire delle misure rieducative solo dopo aver dimostrato di non avere più alcun rapporto con l'organizzazione d'appartenenza. Con la L. 356/92, poi, si decise di usare le misure alternative come strumento di pressione per spingere i mafiosi a collaborare con la giustizia.

L'analisi di questi ultimi interventi normativi costituisce l'oggetto della prima parte del mio lavoro. In essa sono analizzati i testi normativi e le modificazioni da essi introdotte, dedicando particolare attenzione agli elementi di discontinuità rispetto alla "Legge Gozzini" e ricostruendo il contesto socio-politico in cui questi provvedimenti hanno visto la luce.

A conclusione dell'analisi dei testi normativi, prendendo spunto dagli studi condotti, in particolare da Massimo Pavarini, sul valore simbolico delle norme antimafia, e visto il loro susseguirsi alluvionale, mi sono chiesto se queste norme, al di là del loro contenuto letterale, rappresentino anche segnali di politica giudiziaria.

La tesi che ho sostenuto è che i provvedimenti del biennio 1991/1992 rappresentano soprattutto un messaggio politico. Il Legislatore intende anzitutto "rassicurare" la società italiana circa l'efficacia repressiva dello Stato nei confronti della criminalità organizzata. In secondo luogo intende invitare la Magistratura di sorveglianza a dare la priorità alle esigenze di difesa sociale rispetto a quelle di trattamento.

A mio parere la legislazione d'emergenza ha puntato a offrire una "illusione di sicurezza" più che a tentare un reale contenimento del fenomeno. In altre parole, con la legislazione d'emergenza il potere politico non si è proposto di risolvere problemi strutturali, ma ha piuttosto perseguito uno scambio tra offerta di sicurezza e consenso. Queste norme non sono però state prive di effetti concreti. Esse hanno prodotto una delegittimazione della giurisdizione dell'esecuzione, dando un segnale di sfiducia nei confronti dell'operato della Magistratura di sorveglianza.

La seconda parte della mia tesi è dedicata a verificare se tale "messaggio" è stato recepito dalla Magistratura di sorveglianza e a tentare di capire le ragioni dei diversi gradi di "sensibilità" della Magistratura di sorveglianza nei confronti dei messaggi del potere politico.

Ho analizzato i provvedimenti emessi da sette Tribunali di sorveglianza (Venezia, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Catanzaro, Reggio Calabria) nel periodo 1990/1994, con specifico riferimento agli istituti oggetto della legislazione d'emergenza. Questa indagine ha mostrato che a partire dal 1991 si è avuta una netta contrazione del numero delle misure alternative concesse anche al di fuori dell'ambito di applicazione diretta della legislazione d'emergenza. In altre parole ho constatato che il numero delle misure extramurarie concesse dopo l'entrata in vigore della suddetta regolamentazione restrittiva è sensibilmente diminuito anche con riferimento a condannati che nulla avevano da spartire con la criminalità organizzata.

Da ciò ho tratto la conclusione che la Magistratura di sorveglianza nel suo complesso ha sostanzialmente recepito il messaggio di politica giudiziaria implicito nella legislazione del biennio 1991/1992. Nell'ambito del processo di adeguamento alla volontà politica del Legislatore ho però rilevato notevoli differenze fra un Tribunale e l'altro. Il comportamento della magistratura di sorveglianza non è stato dunque uniforme. Nel tentativo di indagare le ragioni di queste difformità ho analizzato gli organigrammi dei sette Tribunali di sorveglianza e controllato l'anzianità di servizio in quanto giudici di sorveglianza dei magistrati presenti in organico. Confrontando i dati relativi alla carriera dei magistrati con quelli relativi alla loro attività giurisdizionale mi è sembrata ipotizzabile una correlazione tra maggiore anzianità e maggiore indipendenza dagli indirizzi forniti dal potere politico. In particolare mi è sembrata rilevante l'"influenza" che la presenza anche di un solo magistrato anziano produce sull'"indipendenza" di tutto l'ufficio giudiziario.

Come è stato sottolineato da alcuni autori, la Magistratura di sorveglianza appare afflitta da una complessiva mancanza di "vocazione". La carenza di vocazioni verso le funzioni di sorveglianza produce il frequente abbandono delle funzioni stesse (non a caso si è parlato della Magistratura di sorveglianza come di una "magistratura di passaggio"). Il continuo turn over impedisce il formarsi di una giurisprudenza consolidata e la nascita di una professionalità e identità propria della magistratura di sorveglianza distinta, in primo luogo, da quella della magistratura ordinaria (spesso assai critica nei confronti del principio della flessibilità della pena in executivis) e, in secondo luogo, alle pressioni del potere politico.

Ho così concluso, ispirandomi agli scritti di Max Weber sulla vocazione nelle professioni intellettuali, che proprio la mancanza di vocazione può spiegare il fatto che a partire dal 1991 la grande maggioranza dei magistrati di sorveglianza, andando oltre gli stessi limiti tecnici posti dalla legge, si sono attestati su posizioni di intransigenza che hanno avuto come conseguenza l'aumento delle difficoltà di accesso da parte dei detenuti alle misure alternative.

 

 

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