Il futuro del volontariato

 

Volontario, dove sei?

a cura di Riccardo Bonacina

 

Il 22 maggio 2002 le quaranta associazioni e coordinamenti di associazioni riunite nel Comitato editoriale del settimanale Vita, si riuniscono in una affollatissima sala riunioni. Sono presenti i rappresentanti e leader di: Acli, Ai.Bi., Airc, Agesci, Anpas, Arche, Associazione Istituto Cortivo, Associazione Trenta ore per la Vita, Atlha, Avis, Arci, Cesvi, Cgm-Consorzio Gino Mattarelli, Ciai, Comitato Telethon, Compagnia delle Opere-Federazione non profit, Croce Rossa, Ctg-Centro turistico giovanile, Ctm-Controinformazione Terzo mondo, Fondazione Exodus, Federazione Alzheimer Italia, Federsolidarietà, Frates, Forum permanente del Terzo settore, Ispi, Lega del Filo d’oro, Mcl, Associazione nazionale cantanti, Opera San Francesco, sodalitas, summit della solidarietà, Telefono Azzurro, Terre des hommes Italia, Unione italiana ciechi.

Insomma, in quella stanza stracolma sono rappresentate circa 600 associazioni. Presente anche una folta rappresentanza dei giornalisti del settimanale. A riscuotere tanto interesse il tema: Dove sta andando il volontariato? Come cambia? Interessante anche l’ospite chiamato a interloquire, Stefano Zamagni, professore, economista, che da oltre un decennio accompagna con le sue riflessioni e il suo impegno il crescere, spesso caotico, del Terzo settore in Italia. Quello che qui vi proponiamo è il verbale di quell’incontro.

Con Zamagni volevamo capire, con uno sguardo più prospettico di quello che spesso impongono le questioni immediate, quali sono le sfide del non profit in una situazione che sia come contesto esterno (in grande cambiamento, dalle fondazioni alla 266, alla legge sull’impresa sociale), che come crescita interna (tumultuosa, problemi di rappresentanza e di coordinamento, qualità nei servizi, ecc.) pone parecchi problemi. Vorremmo provare a spendere un pomeriggio per capire di più, per riflettere su un rema che ci pare essenziale: che ne è del volontariato?

Tre milioni, no: cinque; anzi, forse sette. . . ma no, sono nove. Sui milioni di volontari italiani, negli ultimi anni, si sono dati molti numeri. E tutti al rialzo; una volta era l’Istat, un’altra il Censis, un’altra la Fivol...

Per tutti, l’impegno gratuito era vivo e vegeto e, soprattutto, numericamente impressionante. Da qualche tempo, però, l’idea di volontariato è sotto attacco. La gratuità sembra essere diventata inutile, un’esperienza improduttiva se slegata da un progetto imprenditoriale o politico. Come ha involontariamente esplicitato Daniele Del Giudice sul Corriere della Sera: "Il ruolo dei volontari è cambiato, sono nuove figure della politica, non si limitano a predicare la pace ma tentano di ricostruire. Non più utili idioti, brave persone non politicizzate...". Insomma: bravi volontari, ma per essere ancora più bravi dovere smettere di essere volontari. E infatti: i numeri (come ci conferma il direttore di Astra Demoskopea, Enrico Finzi) se salgono ancora in certe statistiche, scendono nelle strade, nelle sedi delle associazioni, tra i giovani.

Oggi, vogliamo capire cosa rischiamo noi, la nostra società, da questa fuga di volontari, che non può mai, in nessun caso essere vista come un fattore di civiltà e progresso. Anche per la caratteristica unica che appartiene a questo mondo: il suo valore educativo.

Sentire come lo descrive Claudio Magris nel suo libro Vite Salvate (ed. Interlinea), parlando dell’attività del Centro aiuto alla vira di Trieste, in cui era impegnata come volontaria sua moglie: "Quelle madri venivano aiutare- con estrema discrezione e sempre nell’assoluto rispetto della loro libertà e dei loro desideri - a ricostruire, per se e per il proprio bambino, la loro vita, a trovare una vira diversa (...). In tal modo spesso non era una sola vita, ma erano due vite a nascere". Che Paese sarebbe quello in cui non si potesse più fare un’ esperienza così?

 

Domanda: Professore, lei ha una vita trascorsa dentro il non profit e per il non profit. Ora ha la sensazione che qualcosa in questo modo si è inceppato. Cosa sta accadendo?

Stefano Zamagni: Vedo con sconcerto un grosso pericolo avvicinarsi, e cerco di dare r allarme perché venga al più presto fermato. E il pericolo è questo: il volontariato, in Italia come altrove, è in crisi. Uso questo termine nel senso letterale, etimologico, di "transizione".

Il volontariato è in una fase di passaggio, vive una crisi di coscienza che deve da un Iato rallegrarci, dall’altro però caricarci di responsabilità.

 

Domanda: Lei parla di una fase transitoria, che dovrà quindi avere un inizio e un approdo. Riesce a ipotizzare quale potrà essere questo approdo?

Zamagni: Voglio essere il più possibile chiaro e trasparente. Se si va avanti di questo passo, il volontariato rischia l’estinzione. Di qui a dieci anni, in mancanza di fatti nuovi, il mondo del volontariato scomparirà e la colpa sarà di tutti coloro che, magari in buona fede o senza rendersene conto, portano l’acqua al mulino di chi vuole distruggerlo.

 

Domanda: L’allarme che lancia non è certo di poco conto, professore. A questo punto ci deve dire chi sono i nemici del volontariato e quali sono i loro argomenti?

Zamagni: Il volontariato è l’humus da cui è nato tutto il non profit, comprese le associazioni di promozione sociale, le cooperative sociali, le fondazioni. Solo che da qualche tempo a questa parte questi ultimi soggetti hanno avuto un successo tale da mettere in ombra il volontariato e il suo valore. Ricordo un’intervista comparsa su La Repubblica il 4 maggio, nei giorni del salone di Civitas, in cui Sandro Salviato, esponente della cooperazione sociale veneta, affermava: "Con il mondo del volontariato non abbiamo niente a che fare, anzi il volontariato è un limite allo sviluppo dell’impresa sociale. In sostanza, del volontariato non c’è più bisogno".

Queste parole sono significative perché esplicitano uno Stato d’animo diffuso che secondo me rappresenta un primo fronte di attacco al volontariato, portato avanti da persone che pure sono nate dentro la casa del volontariato, ma oggi gli si rivoltano contro perché capiscono che pone vincoli per loro inaccettabili, e lo relegano in una posizione subordinata. Volendo utilizzare dei termini volgarmente politici, porremmo definire questo attacco "di destra".

 

Domanda: Ci può fare un esempio concreto? Vede qualche realtà in cui questa concezione si è affermata nella pratica quotidiana?

Zamagni: Sì, negli Stati Uniti. È la concezione di Bush, secondo il quale dei volontari si ha bisogno soltanto per mantenere il conservatorismo compassionevole, la filantropia, mentre la parte "forte" del non profit è costituita dalle organizzazioni dell’economia sociale. Lettore sta nel confondere la filantropia con il volontariato, mentre non c’entrano nulla tra loro. La filantropia si basa sul dono come "munus", come concessione che crea dipendenza in chi la riceve; il volontariato invece ha come fondamento il dono come reciprocità che crea legame sociale e relazioni tra le persone. Ma è un punto su cui voglio tornare.

 

Domanda: Allora adesso ci dica in che cosa consiste la critica che viene da sinistra?

Zamagni: Quest’altra obiezione arriva da pensatori, filosofi e sociologi per cui il volontariato non fa altro che ritardare, o addirittura impedire, la nascita della vera cittadinanza democratica. Un fronte d’attacco del genere non è casuale per la sinistra; a chi si riconosce nel paradigma del neomarxismo, infatti, il volontario non può piacere ne essere utile. Anzi, in una società che dovesse realizzare le promesse del marxismo, e quindi eliminasse discriminazioni e sfruttamento, per i volontari non ci sarebbe spazio. E poi: chi ha bisogno di questi che, senza lottare, cercano di rimediare alle ingiustizie della società?

 

Domanda: Chiarissimo, professore. Fin qui abbiamo ascoltato, non senza qualche preoccupazione, la pars destruens. Qua! è allora la sua risposta a queste tesi? Perché chi attacca il volontariato ha torto?

Zamagni: Perché non è affatto veto che nella nostra società non c’è più bisogno dei volontari. È veto il contrario: è proprio in quest’epoca postfordista, o della globalizzazione, che si ha maggiormente bisogno di volontari rispetto al passato.

 

Domanda: Ma cos’è il volontariato, secondo lei?

Zamagni: Il volontariato incarna e testimonia con i fatti un valore irrinunciabile: il dono. Senza la cultura del dono, senza azione donativa, una società avanzata come la nostra, basata sull’economia di mercato, è destinata a disumanizzarsi; quindi l’unico modo per evitare il rischio disumanizzazione è quello di consentire a tutte le strutture della società civile di praticare lo spirito del Volontariato. L’economia di mercato non può reggersi nel vuoto pneumatico, senza uno zoccolo duro di valori, così come è un’illusione pensare che l’economia solidale possa crescere solo se si adegua al mercato. È veto il contrario: l’economia solidale cresce solo se è in grado di cambiare il mercato dall’interno, trasformandolo in un mercato "dal volto umano". E pensare che si moltiplicano, all’interno del Terzo settore, i sostenitori dell’adeguamento di cui parlavo prima: commettono un errore pericolosissimo, perché il giorno in cui la loto ipotesi si realizzasse davvero L’economia solidale non avrebbe più senso. Ma sbagliano anche i grandi...

 

Domanda: A chi si riferisce?

Zamagni: Al segretario delle Nazioni Unite, Kofi Annan che alla 56° Assemblea generale delle Nazioni unite del dicembre scorso ha dichiarato che "il volontariato contribuisce alla formazione del prodotto nazionale lordo". Sicuramente sarà stato in buona fede, ma ha lasciato credere che il compito del volontariato sia creare ricchezza. Nossignore: se ciò si realizzasse, il rischio sarebbe non solo quello di far scomparire il volontariato come forma associativa, ma di far nascere altre forme d’impresa che si aggiungono a quelle già esistenti solo per aumentare l’efficienza.

 

Domanda: Torniamo al dono come fattore di umanizzazione. Lei ha detto che senza di esso il volontariato non sarebbe neppure pensabile; ma è possibile che il dono sia un esclusiva di questa dimensione? Se così fosse, solo chi fa volontariato potrebbe definirsi "umano"...?

Zamagni: è chiaro che questa dimensione non è patrimonio esclusivo dei volontari, anzi: ognuno di noi, anche se è un lavoratore dipendente, può inserire la dimensione donativa nella propria azione. Al contrario, il filantropo (che conosce solo il munus) non costruisce un società diversa, più umana, ma potrà al massimo realizzare una redistribuzione del reddito. C’è però una sottolineatura importante, senza la quale non possiamo capire il vero valore del volontariato.

 

Domanda: Qual è?

Zamagni: Eccola: il dono come reciprocità non è una virtù che l’uomo porta con se dalla nascita, deve educarsi a esso, e normalmente lo fa attraverso l’azione volontaria. Dirò di più: l’educazione al dono è il compito principale del volontariato, la sua mission, la sua funzione più importante. Il volontariato è l’unica scuola dove si impara la pratica del dono come reciprocità, che è cosa diversa dalla gratuità. Il volontariato, infatti, non è innanzi tutto gratuità: è educazione.

 

Domanda: Quindi chi minaccia il volontariato, paradossalmente minaccia qualcosa di più grande del volontariato stesso...?

Zamagni: Minaccia la possibilità, o meglio la realtà, del contagio delle buone azioni. Non è vero che solo le cattive azioni, i delitti o i reati siano contagiosi: lo sono anche e soprattutto i comportamenti virtuosi. Per questo in termini astratti il modello migliore di società sarebbe quello in cui tUtti facessero un’ esperienza di educazione al volontariato negli anni giovanili. Poi ciascuno prenderà la sua strada, uno potrà fare l’agente di Borsa o l’imprenditore, però io sono sicuro che se ha fatto quell’esperienza si comporterà diversamente. Questa è la grande risorsa del volontariato, per questo va curato e incoraggiato e non snaturato insistendo sulla sua "professionalizzazione". Ormai si definisce il volontariato non più per ciò che è, ma per ciò che fa.

I numeri della crisi

di Enrico Finzi, presidente Astra Demoskopea

 

 

I primi segnali della crisi numerica e motivazionale che oggi investe il volontariato li avevamo rilevati all’inizio del 200l, quando alla Astra Demoskopea realizzammo una ricerca sulla propensione al dono degli italiani. Dai nostri dati emerge che il calo riguarda soprattutto i giovani (cioè tra i 14 e i 34 anni), mentre l’impegno degli over 65enni è invariato. In complesso, noi parliamo del 15% in meno di volontari in Italia.

 

Logorìo psicologico

 

Le ragioni, o meglio i fenomeni che hanno provocato questa discesa sono a mio avviso tre: il primo è un certo "logorio ideale"; il secondo l’affermarsi di un clima culturale egoistico e individualista, che chiamerei "l’etica dei cazzi miei"; il terzo la convinzione, derivata da una serie di scandali, che nel mondo della solidarietà non tutti abbiano le mani pulite, e che non valga la pena impegnarsi in un settore che "predica bene ma razzola male".

Approfondiamo i fenomeni uno per uno. Non occorre essere sociologi per accorgersi che in Italia lo slancio ideale che ha sempre caratterizzato la militanza di sinistra, e più in generale quella politico-sindacale, viva una crisi sempre più grave; questo dato è confermato dalla sostanziale stabilità dell’impegno volontario cattolico-cristiano e dal significativo calo invece di quello laico e di sinistra. Esiste poi un "logorio psicologico", di due tipi: da una parte, la sensazione di non cambiare le cose con le modalità classiche del Volontariato (cioè impegnandosi poche ore la settimana); dall’altra la difficoltà psicologica, che diventa fisica, di fare volontariato in settori quali l’handicap, il disagio psichico o la malattia terminale. Nota a margine: non è da sottovalutare il fatto che entro i 34 anni si trova lavoro, ci si sposa o si mette su famiglia, e di conseguenza si riduce il tempo (anche mentale) da dedicare alla gratuità.

Quella che ho definito "l’etica dei cazzi miei", per sua natura nemica del volontariato, non deve farci gridare allo scandalo: da sempre, infatti, individualismo ed egoismo dominano cultura e comportamenti in modo trasversale. La novità è semmai la legittimazione sociale di tale atteggiamento: se qualche anno fa, infatti, chi dicesse apertamente di se "io non sono cattivo, ma degli altri non mi importa, mi faccio gli affari miei" non sarebbe stato pubblicamente lodato, oggi viene invece esaltato perché dimostra di essere furbo e trendy.

È un po’ come per l’antisemitismo o l’odio per le minoranze, che non è in aumento in sé, ma non viene più considerato un’ opinione di cui ci si debba vergognare.

 

Poca trasparenza

 

Infine il problema degli scandali della solidarietà. Lo scandalo della Missione Arcobaleno, nel 1999, ha aperto una falla nella fiducia pubblica nel non profit che ancora non si è rimarginata. La convinzione dominante, da allora, è che molti enti non profit utilizzino male i fondi, non sempre in cattiva fede, ma semplicemente per imperizia o per un eccessivo peso dei fondi destinati all’organizzazione. Altra ricaduta è una cena insofferenza per la retorica della solidarietà, che è poi anche la causa dell’insuccesso di alcune raccolte fondi o la sempre maggiore difficoltà incontrata dai fund raiser nel loro lavoro.

Il tempo è più che denaro

di Grazia Bellini

 

Ma mamma, me l’hai insegnato tu!, può capitare di sentirsi rispondere così da un figlio trentenne che ha deciso, in una notte di maggio, di portarsi a casa un barbone che non sapeva dove andare a dormire. Può capitare soprattutto se ti chiami Grazia Bellini, sei presidente dell’Agesci (l’associazione degli scout cattolici) e da sempre hai impostato la vita di famiglia a una solidarietà vissuta, a un volontariato che dà forma a tutti i gesti quotidiani.

Tanto che la logica conseguenza è non saper cosa rispondere, rimangiarsi la prudenza di genitore e lasciare che tuo figlio dia ospitalità a uno sconosciuto senza tetto. Perché, in fondo, è così che l’hai educato. Perché, dopo tutto, anche tu sei stata educata a comportarti in quel modo. Perché, a pensarci bene, non puoi proprio pensare alla tua vira senza la dimensione del dono.

 

Domanda: È così, Grazia Bellini?

Grazia Bellini: Sì, anche se in famiglia non abbiamo mai parlato esplicitamente del "valore del volontariato" o della necessità di impegnarsi nel sociale per essere persone realizzate. È venuto così, come derivato dell’ esperienza mia e di mio marito, che fin da ragazzi con alcuni amici ci siamo dati da fare per gli altri, costituendo un gruppo che andava a fare doposcuola per i bambini dei quartieri a rischio. Poi è arrivata l’esperienza degli scout, cui ci è sembrato naturale introdurre i nostri due figli, Paolo e Maria; poi abbiamo creato il progetto Arcobaleno, un centro di accoglienza per emarginati e prostitute, in cui oggi lavora Maria. Ma, ripeto, senza programmare troppo. Abbiamo sempre fatto cose che ci sembrava utile fare lì per lì, per rispondere a un bisogno.

 

Domanda: Fare un’azione gratuita che cosa dà, cosa aggiunge alla vita di tutti i giorni?

Bellini: Innanzitutto una straordinaria libertà a livello personale, e poi una capacità di realizzazione senza limiti. Insegna che la scala dei valori non è stabilita dalla retribuzione, e che le relazioni tra le persone non sono monetizzabili. Stimola quindi a dare una misura diversa al proprio tempo: io ai ragazzi dell’Agesci dico sempre che devono imparare a padroneggiare il loto tempo, non a consegnarlo a chi glielo paga o glielo pagherà; lo dico esortandoli al rispetto per il mondo del lavoro, ci mancherebbe, però senza mai perdere di vista la capacità di regalare e ricevere in regalo, quindi di accogliere. Saper date e ricevere gratuitamente è importante, è una scuola di vita e un esercizio di cittadinanza in senso alto perché porta a partecipare a quello che ti succede attorno, sapendo che le necessità sono tante. E insieme è una scuola di umiltà, perché ti fa capire di essere un pezzetto, una mattoncino nella storia.

 

Domanda: Quanto è stato importante il fatto che quando lei aveva 16 anni qualcun altro ha introdotto lei al volontariato? Cosa si è portata dietro di quell’esperienza?

Bellini: Lo schema; quindi non l’esperienza in se, o quegli stessi amici, ma un atteggiamento di rispetto per l’altro e per la realtà, e la capacità di farsi carico dei problemi degli altri in qualunque situazione. È grazie a quell’esperienza che cerco di ragionare a partire dalla domanda: cosa c’è bisogno che io faccia? Non come un sacrificio, o una tassa da pagare per compensare la mia fortuna, ma come atteggiamento naturale in ogni circostanza. L’avevo presente anche quando i miei figli erano piccoli e dovevo badare a loro, invece che ai poveri.

 

Domanda: Se il volontariato dovesse sparire, o essere tanto ridimensionato da rendere difficile incontrarlo, cosa perderebbero i giovani di oggi?

Bellini: Spero non si realizzi una catastrofe del genere. Comunque, se dovesse passare l’idea che risolvere i bisogni non deve mai, in nessun caso dipendere da noi, credo che si verificherebbe una grande banalizzazione della vita di ciascuno, oltre che un impoverimento della società. Ma se l’immagina un mondo dove nessuno alzasse più la voce per denunciare quello che non va, o mostrasse a chi governa che il mondo è diverso dal paradiso che ci vogliono far credere?

Il destino dei volontari

di Marco Revelli

 

Sono del tutto d’accordo con la riflessione proposta da Stefano Zamagni sul settimanale Vita. Il volontariato oggi rischia, e rischia grosso. C’era in fondo da aspettarselo: nato quasi "clandestinamente" tra gli interstizi di una socialità insidiata dai due "signori della guerra" del Novecento, lo Stato e il Mercato, affermatosi e sopravvissuto grazie anche alla sua capacità di muoversi "sotto traccia", silenziosamente anche se fattivamente, tra i clamori del "secolo breve", era inevitabile che ora, venuto per così dire alla ribalta, emerso agli onori della cronaca dopo il fallimento di tante altre "vie", subisse il ritorno prepotente (la "vendetta") di entrambi gli ex monopolisti dell’azione pubblica: le due retoriche simmetriche, appunto, di Stato e Mercato.

Alla retorica dello Stato appartiene infatti, per intero, l’argomento di chi contrappone all’ingenuità e all’immaturità del volontario la presuma maturità politica e civile del "cittadino solidale", sciogliendo nelle pratiche un po’ rituali della democrazia formale la densità operosa della cittadinanza attiva. Così come alla retorica del Mercato appartiene la pedagogia bocconiana che assumendo la forma-impresa come condizione universale dell’essere, relega l’agire volontario, con la sua gratuità, allo stadio infantile dell’imprenditorialità da superare velocemente verso la dimensione "matura" dell’utilità monetizzabile. Per i primi, senza Potere "non si è".

Secondo la retorica dello Stato, senza Potere "non si è". Secondo la retorica del Mercato, "non si è" senza Ricchezza. In entrambe i casi, i vecchi miti della Potenza mobilitati, a mio avviso fuori tempo - in forma anacronistica dopo che i deliri della potenza hanno devastato il mondo -, contro la dichiarata "debolezza" della figura del Volontariato, votata per vocazione e per essenza alla relazionalità, alla reciprocità e alla logica del dono. A quella terza sfera, cioè, che già Carl Polanyi aveva individuato tra le logiche contrapposte dell’autorità (statale) e dell’utilità (mercantile), schiacciata e umiliata dalla modernità perversa del Novecento ma da sempre essenziale per garantire quella coesione sociale, quella forma apparentemente spontanea di "legame" senza la quale nessuna società sta insieme, nessun mercato funziona e nessuno Stato si regge.

In questo senso, il destino del volontariato, la sua capacità di sopravvivere a questo doppio attacco, di darsi ragioni coscienti e all’ altezza dei tempi per proteggere la propria autonomia e specificità, è un indicatore fondamentale del grado di innovazione delle nostre società: misura concretamente le possibilità reali che abbiamo di uscire davvero dal secolo della violenza e di entrare in uno stadio diverso, meno feroce, meno distruttivo, di sviluppo umano (umano, sottolineo, non economico o politico). Questo per quanto riguarda i grandi scenari disegnati da Zamagni. A cui aggiungerei due aspetti più contingenti, per così dire di carattere più particolare, che possono spiegare le ragioni di una crisi del volontariato che voglio continuare a considerare "crisi di crescita".

 

Il doppio attacco

 

Il primo, segnalato nei servizi dedicati da Vita al problema (in particolare in quello di Enrico Finzi), riguarda il male che ha fatto all’immagine del volontariato (e anche alla sua pratica) lo scandalo Arcobaleno.

Non solo i suoi aspetti "criminali", le denunce di corruzione, malversazione, illegalità, aggiungerei, ma la natura stessa di quella "operazione": la commistione empia tra macchina militare e macchina solidale; l’uso della generosità e dei buoni sentimenti nel quadro di un azione bellica discutibile e discussa; l’assorbimento dei "volontari" dentro un apparato che dell’etica del volontari è l’esatta negazione.

È stato, quello, a mio avviso, l’esempio limite di una pratica (qualcosa di più di un tentativo, un abbozzo di "sistema") che si è andata diffondendo negli ultimi anni e che ha come oggetto la trasformazione del volontariato in una risorsa resa disponibile per le diverse amministrazioni pubbliche: uno "strumento", un "mezzo operativo" a buon mercato di cui gli amministratori pubblici, soprattutto gli enti locali (ma nel caso della missione Arcobaleno anche quelli nazionali) possono servirsi per pratiche del tutto estranee e talvolta opposte all’etica del volontariato stesso (la riorganizzazione dello Stato sociale orientata al fine prioritario dell’abbassamento dei costi, l’esternalizzazione di funzioni e di servizi prima organicamente afferenti all’ente pubblico secondo il medesimo modello di outsourcing che guida la ristrutturazione industriale, la formazione di un secondo mercato del lavoro nel campo dei servizi alle persone, meno garantito e più motivato, ecc.).

Un meccanismo che trasformerebbe, se portato alle estreme conseguenze, la folla variopinta dei volontari in un crescente esercito di parastatali di seconda fascia, mal garantiti e ancor peggio pagati, certo inquadrati in una rete a maglie strette di "imprese sociali" ognuna con i suoi conti "profitti e perdite" ma disperatamente priva di vocazione e di idealità. è una delle forme con cui appunto la Politica (lo Stato nelle sue diverse articolazioni) tenta di rimettere le mani su questa forma di socialità che aveva perduto.

 

I giovani nella morsa

 

La seconda questione riguarda la questione del tempo e del lavoro. Vita denuncia un calo di partecipazione tra i giovani. Non so se ovunque è così, o se il quadro non sia molto a macchia di leopardo, con cadute ma anche con significative ascese. Certo il problema esiste, e in buona misura è questione di mentalità, di valori, o meglio di disvalori, diffusi, tanto più rampanti quanto più sostenuti dall’ondata globale neoliberista e dai venti di guerra: egoismo, competitività estrema, rifiuto o disinteresse per l’Altro.

Ma accanto a questo, di cui non nego l’importanza, c’è un aspetto che un tempo avremmo definito strutturale: c’è la questione della forma del lavoro in questa transizione che chiamiamo post fordista. La sua rarefazione e precarizzazione, da una parte, ma anche la sua crescente invasività. La sua, pronuncio la parola maldestra, crescente flessibilità, che non significa solo, e non tanto, multiattività, nomadismo, variabilità. Significa anche penetrazione del tempo di lavoro nel tempo di vita. Significa messa al lavoro di ciò che fino a ieri era intoccabile: l’affettività, le relazioni interpersonali, le emozioni, i linguaggi.

Oggi, soprattutto per i giovani, la dimensione del lavoro si protende nella vita, la colonizza (tanto più violentemente quanto più il lavoro è raro). Obbliga a una mobilitazione pressoché permanente, ad accettare orari, occasioni, condizioni sempre variabili e stressanti. Obbliga a lavorare anche quando si è disoccupati, nella ricerca, nell’afferrare ogni occasione possibile, nel rincorrere una preparazione sempre insufficiente. Cancella la differenza tra tempo di lavoro e tempo libero.

È possibile, nell’epoca della flessibilizzazione radicale del lavoro, il "fare volontario"? Vorrei che riflettessimo su questo: difendere il volontariato non significa, oggi, anche difendere gli uomini da un lavoro troppo pervasivo nelle loro vite? Non significa difendersi da un lavoro fattosi tanto flessibile da penetrare anche negli interstizi delle nostre vite e bruciare il tempo che vorremmo dedicare agli altri?

Il "dono" di cui parliamo quando interpretiamo il volontariato è in primo luogo "dono di tempo". Doniamo una parte del nostro tempo di vita agli altri. Che succede se quella grande "impresa sociale" che è diventata la nostra società pretende il monopolio del nostro tempo? Che ne è del principio, pur sacrosanto, di "sussidiarietà", vorrei discuterne con Giorgio Vittadini, in un mondo in cui buona parte della nostra vita è divorata dagli imperativi di un’attività lavorativa sempre più difficile da delimitare e da controllare?

 

Il lavoro 24 x 7

 

Come evitate il "subsidium" di un qualche organo "superiore" se la mia vita mi è sottratta, se il tempo mi manca, se devo correre 24 X 7 (come recitano ormai molte promozioni di supermercati o di servizi: ventiquattr’ore al giorno per sette giorni) per riprodurre la mia (mia personale, nemmeno quella dei miei familiari in una situazione in cui un salario solo in famiglia non basta) esistenza?

Il post fordismo, che era stato il contesto nel quale il volontariato è stato posto al centro della vita sociale, rischia di diventare la tomba del volontariato, per la sua voracità di tempo, per la sua "fame di vita" (per il suo bisogno di mettere la vita, tutta la vita, al lavoro e al proprio servizio). Sarebbe, appunto, la vittoria postuma dell’economia (e dei suoi egoismi) sulla socialità solidale. Non so come rispondere a tutto ciò: con la riduzione dell’orario di lavoro? Con l’istituzione di un reddito sociale garantito? Con la formazione di agenzie pubbliche per la regolazione del nuovo mercato del lavoro? Con una battaglia culturale contro l’onnipervasività della dimensione profit del lavoro? Non lo so, ma vorrei che la discussione proseguisse, perché ho l’impressione che dalle risposte che sapremo dare non dipenda solo il destino del volontariato, ma anche quello della nostra società nel suo complesso.

Non diteci che l'impresa fa male

di Giorgio Cittadini, presidente Compagnia delle Opere

 

Ho letto e riletto da cima a fondo il grido d’ allarme lanciato da Stefano Zamagni, e proprio per questo dico che non ci sto. C’è qualcosa che non mi convince. Mi va benissimo la definizione "impresa civile", "impresa sociale", basta poter cambiare. Perché, il cambiamento in questo settore ha sempre dei nemici. Zamagni dovrebbe ricordare come hanno distrutto la sua proposta di legge sulle onlus per fare un aborto, la 467/97. La nostra raccolta di firme invece ha prodotto qualcosa. Ho l’impressione molto netta che anche negli ambienti tradizionali per scopi di potere, ci sia il desiderio di fare assolutamente nulla e quindi non adeguare il non profit italiano ai livelli internazionali. Se le definizioni suggerite da Zamagni quindi servono a un cambiamento, ben vengano. Se mirano a bloccare un processo di innovazione, siamo allora all’ennesimo bizantinismo.

Ci sono alcuni sintomi che mi fanno pensare che si voglia bloccare l’impresa sociale. Il primo è la questione lanciata dalla Fivol sugli enti ecclesiastici, e che anche Zamagni fa, secondo la quale gli enti religiosi non potrebbero beneficiare della nuova legge. Non c’entra nulla... Soffermarsi poi con insistenza solo sulla diminuzione dei volontari si corre il rischio di tornare a questioni un po’ datate, alla Scalfaro, per il quale il non profit è solo il volontariato. Il volontariato è fondamentale. E c’è, purtroppo, un calo nelle disponibilità. Ma il volontariato è una cosa, l’impresa sociale è un’altra.

Non confondiamo le acque, mettendo in guardia tutti dai presunti pericoli dell’impresa sociale, definendola un attacco al volontariato. Ripeto: un conto è il volontariato, che serve, altro conto è l’impresa sociale, che è utile e importante allo stesso modo.

È certo poi che l’uno e l’altra sono compatibili e ciò significa che deve crescere il volontariato e deve crescere l’impresa sociale. Avanti tutta su questa legge, quindi, senza creare questi problemi, sul volontariato, sugli enti ecclesiastici, sulle cooperative. Diversamente io definisco tutto ciò una manovra dilatoria di chi ha paura che parlare di impresa sociale riequilibri questo settore. Soprattutto faccia saltare rendite di posizione che, purtroppo, ci sono anche nel campo del volontariato.

E deve essere chiara una cosa: la strada per uscire dalle difficoltà in cui si dibatte oggi il volontariato è l’ideale. La parola volontariato è riduttiva: quasi voglia inserire l’idea di un optional. Noi preferiamo parlare cristianamente di carità. Perché è la coscienza che ho dell’uomo che mi spinge ad abbracciarlo, gratuitamente, dando del tempo, in qualunque modo. E, nel caso che uno non sia cristiano, è comunque un valore etico della persona, come unica e irripetibile e quindi come punto fondamentale del mio impegno che non chiede qualcosa in cambio. Questo è per noi fondamentale.

La crisi c’è quando si fa fuori l’ideale, quando si costruisce il compromesso, quando c’è una concezione riduttiva del povero e non lo si guarda neppure in faccia o quando si fa una riduzione politica del volontariato. Io suggerisco di ritornare alla grande concezione del Volontariato propria del movimento cattolico o di quello operaio e di una laicità intesa come aiuto della società: a questi grandi ideali e a queste tradizioni, senza aggiungere cose che sono un po’ bolse, perché deboli.

Sono poi completamente d’accordo con chi vede il rischio di una deriva verso la filantropia, verso il conservatorismo compassionevole. E dico forte no al dono come concessione, sì al dono come una posizione di forza, non compassionevole: è una posizione originale della società, una cosa che risale alle opere di misericordia spirituali e corporali, è qualcosa che è nel codice genetico degli italiani.

Qualcuno porrà interpretare la nostra trasformazione da Cdo non profit a Federazione dell’impresa sociale come una negazione del valore del volontariato, ma non è così: sarà una confederazione di diverse realtà.

Quando diciamo impresa sociale, diciamo qualcosa che è diverso ma non esaustivo dei volontariato. Le opere che fanno volontariato, Banco alimentare, Famiglie per l’accoglienza, Centri di solidarietà, tanto per citarne alcune, saranno dentro ma con la loro specificità. Diverse però da un ospedale non profit.

Sussidiarietà non sussidi

di Teresa Petrangolini, presidente Cittadinanzattiva

 

La presentazione del Rapporto Fivol sul volontariato in Italia è una occasione ghiotta per riparlare, dati alla mano, di un fenomeno di cui si dice di tutto e di più, lo cercherò di dire la mia, esprimendo il punto di vista di una organizzazione, Cittadinanzattiva, nella quale milito da molti anni. Non si tratta di un movimento di volontariato in senso stretto, non fa assistenza alle persone, non fa azioni di promozione sociale, ma, come recita la sua missione, è comunque composto da volontari impegnati nella tutela e nella rappresentanza dei diritti dei cittadini e dei consumatori.

Apprezzo il coraggio e anche la durezza con cui Vita prima e la Fivol poi, hanno affrontato l’argomento. Non condivido, però, alcuni eccessi allarmistici nei confronti delle evoluzioni del mondo del volontariato. Nel rapporto della Fivol ci sono tante belle notizie che andrebbero evidenziate e io proverò a farlo indicando, assieme, alcune note critiche.

 

Crisi di crescita?

Crisi dei valori o crescita di coscienza civica? Il professor Stefano Zamagni, proprio su Vita, ha denunciato, qualche settimana fa, una perdita della cultura del dono tra i cittadini italiani. Ma siano proprio sicuri che sia così? È significativo che le organizzazioni continuino a crescere e che ciò avvenga per iniziative da! basso e non su spinta delle grandi centrali nazionali.

Questo essere così legati al territorio e alle problematiche che da questo emergono è un segnale che deve essere letto nel suo significato più profondo: le motivazioni a muoversi vengono sempre meno dall’esterno e sempre più come risposta del cittadino di fronte alla necessità di prendersi cura dell’interesse generale e dei beni comuni nel proprio mondo e con i propri valori. Si tratta di una risposta molto civica che ha poco a che vedere con la perdita di motivazioni ideali. Considero una buona notizia il fatto che il mondo del volontariato cominci a dare lavoro a tanta gente.

È un fattore di crescita della società italiana e non la fine del volontariato. Non esiste nel mondo organizzazione volontaria che superi il livello dell’aggregazione informale la quale non abbia, almeno nella struttura di governo, personale retribuito. è impossibile aggregare volontari se non ci sono altre persone, impegnate a tempo pieno, che si preoccupano di creare le condizioni per far operare chi può dare solo il suo tempo libero.

Parlare di volontariato in termini di puro spontaneismo significa, sì, votarlo a una fine certa. E forse, considerata la forza che esso potenzialmente è in grado di esprimere, qualcuno potrebbe essere interessato a lasciarlo nella frammentazione e nella disorganizzazione.

Anche qui il dato andrebbe analizzato in profondità. Fare i volontari è faticoso e soprattutto non ci Sono molti modi per farlo: o ci si impegna con tutto sé stesso o non c’è spazio per una partecipazione più soft, e quindi alla portata di tutti. Molte organizzazioni non sono capaci di offrire modalità di impegno e di partecipazione per la generalità dei cittadini. Allora prevale l’idea che è meglio essere pochi, ma bravi, buoni e completamente dediti alla causa.

Cittadinanzattiva ha superato con grandissime difficoltà questa sindrome, avviando una ricerca sui diversi livelli di impegno e sugli strumenti di accoglienza e di formazione dei cittadini comuni. Questa sperimentazione gli ha permesso di allargare molto l’area dei cittadini attivi "mobilitati" e di abbassare l’età media degli aderenti, con l’ingresso di giovani e di giovani adulti.

 

Libertà o dipendenza?

Libertà, interesse pubblico e dipendenza dallo Stato.

È qui che a mio avviso si annidano le maggiori difficoltà e i maggiori pericoli. Il problema è: in che modo si può svolgere una funzione di interesse pubblico, restando liberi e non essendo subalterni a nessun disegno o strumentalizzazione? Nessuno ha la soluzione in tasca. Una possibile risposta è: superando il doppio complesso di superiorità morale e di inferiorità politica, di cui ha scritto Giovanni Moro.

Tre potrebbero essere le direzioni: maturare una propria visione della riforma del Welfare State, guardando anche un po’ fuori dai nostri confini (all’Europa, ma anche agli Stati Uniti e al Canada, dove le organizzazioni non profit stanno lavorando molto su questo tema); rivedendo la politica di raccolta fondi, al fine di evitare di confondere la sussidiarietà con i sussidi delle istituzioni; riconsiderare la propria funzione di attore pubblico alla luce del nuovo art. 118 della Costituzione, che riconosce l’autonomia e la libertà del cittadini e delle loro organizzazioni nell’individuazione e nella gestione dell’interesse generale.

Ci vorrebbero insomma meno complessi, meno paura e un po’ di sana soggettività politica.

Servizio civile: ecco la sfida

di Franco Marzocchi, Presidente di Federsolidarietà/Confcooperative

 

 

Se è vero che il volontariato è in crisi, allora evviva la crisi e gli importanti cambiamenti e miglioramenti che può indurre. Per contribuire alle riflessioni avviate da Vita sulla "fuga dei volontari", vorrei dunque complicare ulteriormente il quadro, evidenziando le difficoltà che sta attraversando il servizio civile in Italia.

Secondo il rapporto annuale della Conferenza nazionale enti servizio civile, negli ultimi tre anni il numero di posti per obiettori è cresciuto di 25mila unità, grazie alle associazioni storiche ma anche a ben 2mila nuovi enti. Uno sviluppo impressionante, che si scontra sia con la scelta, condivisa da quasi tutte le forze politiche, di sospendere il prima possibile l’obbligo della leva, sia con l’attuale fallimentare gestione del servizio civile che in 3 anni ha causato il mancato avvio in servizio di 80mila ragazzi.

Il legame tra la situazione del servizio civile e la crisi del volontariato a me appare evidente: come si può pensare che i ragazzi siano ancora interessati a una qualsiasi forma di impegno in favore della società quando le stesse istituzioni (destra o sinistra non fa davvero differenza) promettono di rimuovere la leva in quanto "gabella in natura" e, ai ragazzi troppo grandicelli per beneficiare di questa "libertà", dicono "state a casa se potete"? Da 2 anni a questa parte, per essere dispensati dal servizio civile è sufficiente avere in mano un contratto di lavoro, anche solo di durata annuale: quale modo migliore per affermare la supremazia del fattore economico su quello sociale? Contrastare questo tipo di messaggi potrebbe essere un ottimo impegno con cui le associazioni iniziano a fronteggiare la crisi del volontariato.

Siamo infatti capaci di dimostrare che il volontariato è per noi indispensabile ma non certo per i benefici che ne derivano sul piano economico? Molte persone si impegnano negli enti del Terzo settore senza percepire compenso alcuno, e ciò è lodevole. Ma l’apporto del volontariato deve essere ben altro. Il volontariato deve essere occasione di partecipazione democratica, di responsabilizzazione sociale, di cittadinanza attiva. In fondo, a ben guardare, si tratta di tornare alle radici: i "padri" di ciò che oggi chiamiamo Terzo settore hanno dato vita alle loro associazioni non per creare business, ma per dare una risposta pratica e concreta al desiderio di essere protagonisti nella vita politica e sociale del proprio Paese. Ai volontari di oggi deve essere concesso di ripetere un esperienza analoga.

Nelle cooperative sociali si è già cercato di percorrere questa strada, distinguendo nettamente i soci prestatori d’ opera dai soci volontari. La cooperativa sociale è un impresa, necessita di dirigenti e di funzionari, di amministratori e operatori professionali. Ma è un impresa che ha radici profonde e quindi deve saper chiamare i cittadini a "con-partecipare" alla sua gestione.

Il volontario deve essere allora un portatore di interesse che può prendere parte alle attività lavorative ma soprattutto interviene in assemblea, si rende disponibile a entrare nel consiglio di amministrazione, finanche a presiederlo. È in questo aspetto che risiede il grande valore del volontariato, non certo nel fatto che la cooperativa può contare, ogni tanto, sull’aiuto di braccia per cui deve pagare solo rimborsi e spese assicurative.

In altre parole, una cooperativa sociale che necessita del volontariato per far quadrare i suoi conti è un impresa fallimentare: ma una cooperativa che non coinvolge i volontari, è una cooperativa poco sociale. Il nuovo servizio civile nazionale, che appunto verrà scelto da ragazze e ragazzi su base volontaria, è per noi una sfida eccezionale: sapremo coglierla e vincerla?

Pluralità d'impegno

di mons. Enrico Colombo, presidente Istituto Sacra Famiglia

 

Come in ogni opera caritativa nata alla fine del 1800, nell’Istituto Sacra Famiglia il volontariato era espressione unica. Tutta la comunità di Cesano Boscone, allora piccolo borgo agricolo alle porte di Milano, sentiva propria l’opera del fondatore monsignor Domenico Pogliani (di cui è iniziato il processo di canonizzazione) e concorreva secondo le proprie capacità: dal medico condotto ai fabbri che costruivano letti fino ai contadini che donavano alimenti o collaboravano nei piccoli lavori del campo o delle stalle annesse all’istituto. Agli aspetti legali e amministrativi provvedevano professionisti amici; anche i presidenti erano volontari (la carica era gratuita) e così, secondo le proprie conoscenze e capacità imprenditoriali, di governo o politiche, organizzavano la vita dell’ente anche quando questo superò i 3mila ospiti.

Il trasformarsi della struttura sociale e l’introduzione di personale quasi completamente laico, con regolare contratto di lavoro, ha cambiato ruolo e significato del volontariato, con alcuni aspetti positivi. Aspetti che non mi sembra inutile ricordare nel dibattito che Vita ha inaugurato.

Innanzitutto l’insieme dei servizi previsti dalle convenzioni e dagli standard regionali devono essere svolti da personale dipendente, e quindi al volontariato si deve lasciare, almeno in istituti come il nostro, un’attività di supporto e di integrazione dei rapporti amicali, sostegno delle forme parentali assenti o decedute, collaborazione nei momenti di completamento della giornata e di svago. Distinguerei, per istituti come il nostro, tre tipologie di volontari.

1) Il volontariato come momento formativo nella vira di un giovane: sono ragazzi e ragazze di età superiore ai 18 anni che, accompagnati da uno o più educatori, trascorrono una settimana in istituto. La loro giornata è ritmata dall’educatore e dal responsabile del reparto con alcuni momenti di formazione e di confronto sull’esperienza che vivono. Ci sono poi alcuni gruppi, presenti durante rutto l’anno scolastico con frequenza mensile, che vivono momenti accanto all’ospite per attività di svago, di gioco e di catechesi insieme ai frati.

2) Il volontariato come tempo e spazio donato all’ospite. Questo gruppo di volontari, composto da persone in età matura, diventa amico di un anziano o di un disabile per condividere bisogni e tempi di vita. Da alcuni anni, prima del servizio le persone devono frequentare un corso di formazione e momenti annuali di incontro e confronto sull’attività svolta.

3) Una terza forma di volontariato più impegnativa e molto specializzata avviene con l’associazione 0ltre noi la vita, nata 10 anni fa per volere di 4 grossi enti: la Fondazione Sacra Famiglia, la Fondazione Don Gnocchi, l’Anfass e l’Aias di Milano. Il disabile adulto, l’anziano demente o gravemente paralizzato, la persona in coma grave irreversibile, necessitano di una tutela giuridica che può raffigurarsi nel tutore, o nel curatore o con altre forme già riconosciute all’estero e che si cerca di introdurre anche in Italia. Certamente questa forma di volontariato è caratterizzata da grande competenza scientifica e professionale, non disgiunta da una forte motivazione e da un grande senso di generosità.

Il fantasma del quarto settore

di Edoardo Patriarca, portavoce Forum permanente Terzo settore

 

È bene che Vita abbia aperto un dibattito pubblico sul volontariato e sui volontari. Coloro che oggi pongono il problema del futuro del volontariato si attardano a osservare troppo affrettatamente la punta dell’iceberg senza curarsi dell’altra parte, quasi nascosta sotto il mare. E allora si usano frasi a effetto, si richiamano i valori, si invita alla deregulation e al ritorno a un tempo mitico, forse mai esistito, senza offrire indicazioni di lavoro concretamente praticabili.

 

Neppure la domenica

 

È il primo dato su cui occorre riflettere un po’ di più è sul tempo che stiamo vivendo, perché anche l’esperienza del volontariato è figlia del suo tempo. Tradirebbe la sua vocazione di radicamento in un territorio, in una cultura per essere azione di servizio, profezia e denuncia.

Il tempo che stiamo vivendo è pervaso dal Mercato, le dimensioni della vita e i suoi tempi ne sono condizionati. Non vi sono più interruzioni, persino la domenica è ostaggio del consumo e dello shopping. Per non parlare dei tempi di vita, soprattutto dei giovani, precarizzati e flessibili, con orari di lavoro senza regole e con legami personali e sociali sempre più deboli.

I poveri scompaiono, ridotti a strumenti per pacificare la coscienza o per vivere una esperienza emozionante e filantropica. È il conservatorismo compassionevole che accompagna e sostiene senza mettere in conto alcun percorso di uscita dall’esclusione: nulla a che fare con la scelta della prossimità.

E allora, non è il caso di cominciare ad avviare una forte riflessione sul nostro tempo piuttosto che accapigliarsi su chi è "puro o meno puro"? Non è .il caso di produrre un’ azione culturale che denunci e smascheri questi meccanismi? Non è questa la vera battaglia da fare per recuperare il valore della gratuità nella sua concretezza e completezza e che non può essere ridotto alla sola questione dei rimborsi (su questo chiederei di chiudere la vicenda senza prestare il fianco a critiche inutili: i rimborsi si fanno solo su spese documentate)?

Il volontariato ha avuto sempre l’ambizione di proporre un’idea di società e di fare politica. Se perdesse questo connotato sarebbe davvero la deriva filantropica a prendere piede, altro che !ischio di "ripubblicizzazione". E per vincerla non è solo la cultura del dono che va proposta, ma anche quella del ricevere: quella che accetta che l’altro mi cambi, mi interpelli, mi chieda di camminare con lui e di convertirmi.

 

Il caso Agesci

 

Mi domando se l’azione volontaria non debba recuperare, oltre al fare, anche la riflessione culturale, la premura per i percorsi educativi; per una dimensione comunitaria dell’agire; per la partecipazione e la buona democrazia. Alcuni dei "preoccupati" di oggi sono coloro che hanno usato, come unica cifra di legittimazione, la legge 266/91, provocando ambiguità e distinzioni ingiuste. La mia associazione, l’Agesci, è una organizzazione di volontari, ma non lo è secondo i crismi della 266 (è iscritta agli albi solo in 10 regioni). Non è riconosciuta in tutte le regioni perché il servizio che rendono i 30mila volontari ai 150mila ragazzi è "per i soci".

Si è denunciato una sorta di pubblicizzazione del volontariato. Battuta a effetto. Ma non è questa la via disegnata dagli estensori della stessa 266 e dalla riforma dei servizi sociali? Un’azione di servizio che assume tutti i crismi di un’azione pubblica, che si rapporta con l’ente locale e con gli altri soggetti. Vi sono forme di neo collateralismo con le istituzioni, alla ricerca di convenzioni e contributi? Può darsi, ma, non è questione di recuperare un profilo culturale più alto, senza immaginare ritorni al passato, perché "piccolo è bello"?

 

Buon servizio

 

Non dobbiamo invece riflettere di come sono cambiate le nostre organizzazioni? Non è forse più corretto parlare di competenza accresciuta? razione educativa nei confronti degli adolescenti, il sostegno ai disabili, la tutela dei beni culturali, non richiedono oggi volontari più competenti? Competenza sta per buon servizio (l’incompetenza può fare male), non bastano solo la generosità o la gratuità. E infine, se le organizzazioni di volontariato hanno assumo in alcuni servizi la dimensione dell’impresa non è bene distinguere e fare chiarezza senza immaginare che questa eventuale trasformazione poni al "girone" degli impuri?

I valori che proponiamo si possono e si devono vivere con la stessa intensità anche nella professione. Il volontariato si caratterizza come una forma esigente della gratuità. Dunque la questione del Quarto settore pare fuori dalla storia: l’identità non cresce mai solo per gomitate e contrapposizioni con altro soggetti del Terzo settore, ma con un progetto culturale proprio, sostenuto e in rete con tutti gli altri mondi della solidarietà organizzata.

Non dimenticate la scuola

di Carlo De Giacomi, animatore della Tre giorni del volontario di Torino

 

 

Intervengo su un solo punto dell’interessante articolo del professor Stefano Zamagni su Vita: il valore e il ruolo di formazione e di educazione del volontariato; credo sia necessaria su questo tema una mobilitazione straordinaria e unitaria del mondo del non profit.

 

Perché mobilitazione?

Perché non basta quanto ogni associazione fa, spesso da sola, nelle proposte per i giovani. Ad esempio: in ogni associazione anche piccola c’è un referente per chi, giovane, si avvicina curioso e disponibile? Questo referente ha avuto una formazione adeguata per capire il linguaggio dei giovani, le loro esigenze, le loro richieste anche non espresse? Oppure semplicemente gli si propone "lacrime e sangue" perché così si forma?

Il volontariato è cosciente che la richiesta principale della maggioranza dei giovani è quella di sentirsi proporre un’esperienza interessante e proporzionata alle proprie forze, possibilità e tempi? Ed è anche quella di incontrare, in una società complessa e che a volte delude proprio chi è alle prime esperienze, persone di cui fidarsi, che dicano come stanno realmente le cose, che ascoltino e che non li ingannino? Sanno che la capacità di sollevare interrogativi stimolanti è probabilmente importante quanto la capacità di dare delle risposte chiare e che aiuta soprattutto a educare a un atteggiamento mentale aperto e flessibile?

 

Perché straordinaria?

Perché è indispensabile un momento in cui tutti capiscano che ci vuole un impegno comune anche se con modalità diverse e fantasiose che ognuno esprime in base alla propria cultura e impostazione, un’opinione trasversale che si attrezza e diffonde per poi diventare pratica costante e comune. In questo caso bisogna fare progetti comuni a più realtà, trovare forme di coordinamento, decidere che questa è una priorità di lavoro su cui spendere energie. Difficile perché il volontariato, nonostante tutte le esperienze positive lavora poco insieme. Possiamo dircelo? È straordinaria soprattutto perché sviluppata con la coscienza che deve esserci un impatto positivo in particolare con la realtà scolastica.

Non basta andare ogni tanto nelle scuole a parlare, bisogna offrire esperienze anche minime, proporre piccoli progetti di accostamento, momenti di rapporto tra scuole e realtà, aprire le associazioni in forme adatte. E meno male che ci sono tante esperienze positive da cui partire (ma bisogna farle conoscere, rifletterci sopra, fare valutazioni con gli insegnanti) .

Bisogna essere consapevoli che le proposte alle scuole si inquadrano in un ruolo importantissimo che il volontariato può avere nei confronti dell’educazione di massa. Ad esempio: senza nessuna tentazione di contrapposizione si tratterebbe:

a) di introdurre nella scuola non solo un rapporto con il mondo esterno inteso come il mondo del lavoro, importantissimo, ma anche con la realtà vista attraverso gli occhiali del non profit:

b) di introdurre con forza non solo l’uso sempre maggiore dell’informatica, ormai essenziale, ma anche il mondo reale dei temi di cui il volontariato si occupa.

Molti hanno scritto sulla necessità della civil education, si tratta di creare i canali perché ciò avvenga sul serio. I giovani di qualsiasi età imparano meglio se la loro preparazione è fondata anche sull’ esperienza legata al territorio e alla comunità in cui vivono.

La conoscenza dei mondi virtuali allora si fonda in modo complementare con i mondi reali e si integrano interagendo in forma diretta in tempi e spazi reali.

 

Perché unitaria?

Il volontariato, nella sua straordinaria varietà, può svolgere un ruolo significativo, se non si divide e riesce invece a lavorare insieme su questo terreno. Ci sono invece realtà chiuse che considerano i giovani come loro privato terreno di intervento, soprattutto possono indicare strade concrete e praticabili, le forme migliori, aperte, che, accanto ai valori fondanti della gratuità, della solidarietà, sviluppano e valorizzano il ruolo di tessitori di relazioni autentiche all’interno della società da una parte e mettano sempre al centro non il sostantivo volontario ma l’aggettivo volontario abbinato al sostantivo persona. E perché questo ambito di azione generale nella società può essere aiutato fortemente dai Centri di servizio, dalle fondazioni, richiedendo e promuovendo progetti consortili tra associazioni.

Nella scommessa che chiamo mobilitazione straordinaria, è compreso anche il servizio civile, non ancora recepito, purtroppo, da tutto il mondo del non profit. Se, come ha detto il sottosegretario Grazia Sestini, la Conferenza nazionale vuole essere dedicata in particolare ai giovani, bisogna che il volontariato trovi le forme per discutere apertamente e a fondo, a partire dalle esperienze già fatte, anche di questo, accanto alla revisione della legge 266.

I volontari sanno anche gestire

Di Luigi Bulleri, presidente Anpas

 

L’analisi sulla crisi e sulla diminuzione del Volontariato in Italia deve essere approfondita.

Bisogna sapere dove si registra e per quali morivi. Nelle pubbliche assistenze, ad esempio, non ha le dimensioni denunciare su Vita. Ci sono ceno casi di associazioni locali in difficoltà, ma una recente indagine conferma la presenza, nelle 830 pubbliche assistenze, di circa 1OOmila volontari, dato costante negli ultimi anni.

Al meeting nazionale Anpas di quest’anno la maggioranza dei volontari in divisa erano giovani e ragazze.

Ancora: grande parte dei circa 3mila obiettori di coscienza che ogni anno prestano servizio civile nelle pubbliche assistenze, dopo il congedo rimane come volontario. Buon segno. Vuol dire che hanno trovato non solo la cultura della solidarietà ma anche un luogo sano dove il rapporto tra i giovani è fuori dai rischi della società attuale è improntato all’amicizia e all’amore. Se in altri volontari non è così ci saranno motivazioni specifiche. Una ragione generale esiste. Viviamo la globalizzazione del mondo dove la cultura della solidarietà non è vincente. Si diffonde sempre di più quella dell’individualismo egoistico, della competizione e sopraffazione.

 

Le trasformazioni in atto

 

Nella mia esperienza più che di crisi di partecipazione vedo grandi difficoltà derivanti dalle trasformazioni economiche e sociali in atto, che modificano e accrescono il ruolo del volontariato. Prendo ancora le pubbliche assistenze: sono nate nel Risorgimento come società di mutuo soccorso per il reciproco aiuto, si sono trasformate poi in associazioni di assistenza pubblica che, mantenendo una impostazione della solidarietà politico-sociale per la conquista dei diritti, davano, nella misura del possibile, assistenza che leggi e potere pubblico non erogavano.

Oggi non è più così. Le leggi dello Stato assicurano il diritto universale alla salute attraverso il Servizio sanitario nazionale e il diritto per tutti all’assistenza sociale tramite un sistema di servizi sociali sul territorio (L. 328/00). Quindi, il ruolo sostitutivo del volontariato deve scomparire. Per il mondo della solidarietà diviene primario (anche in presenza della crisi di rappresentanza dei partiti) l’impegno di difendere i diritti acquisiti, messi in discussione da volontà di privatizzare la sanità, di non attuare la L.328/00 etc.

Altro che ritorno alla carità. La presenza e l’iniziativa del volontariato devono dare un contributo fondamentale nel costruire il sistema dei servizi sociali nel territorio attraverso i piani di zona, la progettazione e anche la gestione degli stessi.

 

La protezione civile

 

Il volontariato è fondamentale nella protezione civile.

A Nocera Umbra ho visto, dopo 3 giorni di terremoto, gente fortemente provata ma fiduciosa, serena. Questo perché i volontari avevano costruito il campo, assicuravano cibo di qualità, assistevano in ogni ora del giorno e della notte chi aveva bisogno, con umanità.

Così è stato per i profughi del Kosovo e in tante altre situazioni. Chi se non il volontariato per la sua diffusione sul territorio, può rivolgere, organizzare la prevenzione dai disastri, il recupero dell’ambiente? Per questo il volontariato deve essere preparato. I suoi dirigenti, i suoi operatori devono essere formati. La formazione è fondamentale oggi.

È in questo ruolo il futuro e lo sviluppo del volontariato, che però non può essere solo, isolato, (scadrebbe inevitabilmente in un ruolo marginale, secondario).

Per costruire il nuovo stato sociale, il volontariato ha necessità di un rapporto stretto con la cooperazione, con l’associazionismo, con l’impresa sociale, e quest’ultima deve essere appunto sociale, non ibridata da presenza e controllo al suo interno del profit (come prevedeva la proposta di legge della Compagnia delle opere) e del resto l’impresa sociale ha bisogno della collaborazione con il volontariato per impedire una sua deriva economicistica negativa per la finalità dei servizi.

Non ci deve essere concorrenza o sopraffazione.

Occorre un progetto comune contro il quale ognuno svolge il proprio ruolo. È una sfida, dobbiamo accettarla. Questo accresciuto ruolo politico non significa che il volontariato deve uscire dai servizi che svolge.

Ritorno alle pubbliche assistenze. Ho già detto della protezione civile. In Italia le pubbliche assistenze e le Misericordie svolgono con i volontari (integrati in qualche caso da lavoro retribuito) oltre il 70% di tutto il trasporto sanitario. È una peculiarità nel mondo, è un servizio di grande qualità. Spesso, per la presenza di lavoro retribuito, la pubblica assistenza è anche impresa sociale.

È una presenza che deve continuare. I volontari sull’ambulanza (che spesso sono parenti o amici del trasportato) sono fondamentali per la finalità umana del servizio.

Quello che è necessario è separare le attività tipiche dell’impresa da quelle del volontariato, che rimangono principali.

Missione possibile

di Maria Guidotti, presidente nazionale Auser

 

Ritengo che non ci sia contraddizione tra l’essere volontario e l’essere cittadino arrivo e solidale che sviluppa una coscienza democratica e rifiuta le ingiustizie della società; anzi penso che queste due dimensioni debbano sempre più interagire. Il "fare solidale" del volontario non può rimanere indifferente rispetto alle scelte politiche ed economiche che causano povertà, emarginazione, lesione di diritti. È necessario, oggi più che mai, che si diffonda la cultura del dono per creare relazioni tra le persone e contrastare la subalternità dei rapporti legati ad atti filantropici, ma proprio perché tali valori possano compiutamente ed efficacemente esprimersi, non possono fermarsi sulla soglia della politica. La diminuzione dei volontari, una crescita del personale pagato dalle associazioni, nonché una perdita di "rapporto con i giovani", sono visti come sintomi di un malessere diffuso, di uno stato di salute precario dell’associazionismo.

Questi fatti andrebbero meglio indagati nella loro consistenza e nelle loro cause. Innanzitutto, considerando le modificazioni intervenute nel volontariato nel contesto dei più generali processi di trasformazione sociale: come, ad esempio, i compiti maggiori e di maggior responsabilità che sono oggettivamente attribuiti al volontariato (e più in generale al Terzo settore) da una più ampia gamma di necessità sociali lasciate scoperte dagli arretramenti e dal mancato rinnovamento dello Stato sociale; l’invecchiamento complessivo della popolazione; la precarizzazione delle condizioni di vira giovanili e altro.

Ma, al di là dei sintomi, la vera questione aperta sulla quale vale la pena indagare riguarda l’autonomia progettuale delle associazioni. Autonomia che ha, a mio parere, due presupposti essenziali: l’autonomia finanziaria e l’autonomia culturale.

L’autonomia finanziaria, in quanto comunque sostanziata da risorse pubbliche o del pubblico, non può essere garantita alle associazioni a prescindere da una valutazione dell’uso che di tali risorse viene fatto. Credo che sia, invece, necessario soddisfare l’esigenza di un preciso collegamento tra finanziamenti e progetti, seguendo e sviluppando la via aperta (in modo certamente perfettibile) dai Centri di servizio per il volontariato.

Ma ancora più rilevante e di maggiore complessità e spessore è la questione dell’autonomia culturale. Una partita che non si gioca principalmente sul piano delle competenze tecniche, ma dei valori e dei comportamenti necessari a sottrarre la progettualità stessa alla deriva dell’autoreferenzialità produttiva.

L’autonomia del volontariato si gioca, in effetti, sul terreno della sua capacità di restare, con funzioni di propulsione e di stimolo, all’interno dei processi culturali attraverso cui la società stessa rende a elaborare e soddisfare i propri bisogni nelle forme più adeguare alle proprie necessità, alle proprie risorse, ai propri diritti: in forma di committenza attiva, il più possibile autonoma dalle logiche e dalle distorsioni del mercato, degli apparati pubblici, dei saperi specialistici; concependo sé stessa non come una somma di individui ma come una rete di relazioni interpersonali; e considerando le persone non come astratti consumatori o utenti, ma nella peculiarità e complessità del loro essere soggetti, ciascuno posto a suo modo, con la sua irripetibile identità.

Se questo è, ne consegue, per lo stesso volontariato, non un antagonismo ma una relazione necessaria tra radicamento nel particolare e capacità di elaborare risposte sempre più complesse, tra spontaneità e organizzazione, tra autonomia e interconnessione. Perdendo il contatto con la singolarità, la spontaneità, l’autonomia, le organizzazioni si devitalizzano, diventando inevitabilmente subalterne ai poteri e ai saperi più forti e più strutturati. Ma restando chiusi nella singolarità e nella spontaneità, i volontari si dimostrano ancor più impotenti di fronte a essi. L’autonomia del volontariato dipende, a mio parere inequivocabilmente, dalla capacità dei singoli e delle associazioni di strutturarsi anch’esse, all’interno della rete sociale, in reti dorare di una precisa identità e orizzontalmente e verticalmente sempre più interconnesse. Guardando le associazioni italiane, non vedo, come Diamanti, un "tessuto di piccole imprese", ma un sistema di reti, più o meno segnare da innegabili ritardi nello sviluppo di una propria adeguata autonomia e capacità di connessione sinergica con società ed istituzioni.

Noi, volontari

Antologia di lettere a Vita

 

In fuga, di chi e la colpa?

Vorrei offrire il mio piccolo contributo alla riflessione collettiva che si sta sviluppando sul tema della fuga dal volontariato. Sull’ultimo numero di Vita, il dibattito è cresciuto decisamente di tono con l’articolo di Revelli che, più di Zamagni, fotografa una situazione a mio parere lampante.

Chi è il volontario? È colui che dedica una quota del suo tempo libero (non del suo tempo "lavorato") agli altri. Quanti di quelli che si dicono volontari oggi possono stare in questa definizione) Oggi, nello status di volontario entra un po’ di tutto: il disoccupato che dedica qualche ora al giorno a un’associazione e viene ricompensato con un rimborso spesa forfettario che diventa un minisalario a nero e senza contributi né diritti; il professionista che vorrebbe trovare nuovo spazio alla sua attività lucrativa e per inserirsi in un nuovo settore comincia a lavorare gratuitamente. A questi si aggiungono, naturalmente e meno male, i volontari veri, quelli cioè che rientrano nella definizione di cui sopra.

Io credo che a danneggiare il volontariato vero siano due fattori: l) la sempre meno disponibilità di tempo libero visti i ritmi "flessibili" e competitivi del mercato del lavoro che, tra aggiornamento, spostamenti, lavoro che va e che viene, lavoro nero sottopagato, costringe le persone a dedicare pochissimo tempo a loro e ai loro affetti, ai loro interessi e quindi anche al desiderio di donarsi; 2) il proliferare dei falsi volontari, che danneggia l’immagine del volontariato, lo trasforma in una sorta di sottoscala dell’attività lavorativa, ne contamina l’approccio sociale e allontana le persone motivate.

Ora io mi chiedo: di chi è la colpa di questa pessima consuetudine? Prima che a qualcuno venga da rispondere che è colpa della politica, dico subito che non sono d’accordo. Non solo perché la politica da sola non può nulla e se fa qualcosa è sempre perché trova un terreno sociale fertile, ma anche perché credo che la situazione sia più complessa. È maturata negli ultimi anni l’idea che lo Stato e le istituzioni debbano ritirarsi dalla gestione diretta dei servizi di pubblica utilità e socialità: questi settori spettano al volontariato, quasi per volontà divina. Al massimo, dal pubblico debbono arrivare i soldi. Questo genera errori, equivoci, speculazioni.

Come uscirne? Sui tempi del lavoro e i tempi della vita si può solo costruire una battaglia politica per una società dal volto più umano: sull’etica del volontariato alcune cose si potrebbero fare. Per esempio: dire basta alla gestione a costi ridotti da parte dell’associazionismo di servizi sociali istituzionali, dire no ai finanziamenti pubblici per gestioni dirette da parte delle associazioni di volontariato; obbligare le istituzioni a tare le istituzioni (quindi organizzare, finanziare, gestire servizi di socialità e pubblica utilità con professionisti e gente qualificata) e lasciare al volontariato quel ruolo di supporto sociale, di donazione di sé a margine del contesto e del quadro dei diritti. Trasformare il volontario in una risorsa aggiunta e non essenziale: così lo si rende "‘ricco", motivato e, paradossalmente, indispensabile.

 

Antonio Menna

  

In calo, ma chi li aiuta?

Cari amici, "Volontari in fuga?" così titola il numero di Vita del 21 giugno. In realtà, leggendolo, trovo di troppo una sola cosa: il punto interrogativo. I volontari a quanto pare sono sempre di meno. Trovo molto interessante l’analisi condotta sul giornale: si stanno perdendo i valori propri del volontariato (non esclusivamente il concetto di gratuità), che sono poi i valori che hanno creato l’humus da cui si è formato tutto il non profit. Si parla molto di non profit e forse poco di volontariato. Si parla molto di consulenze a enti che possono permettersi di pagare e poco di servizi da offrire a enti piccoli-piccolissimi che non se lo possono permettere. Chi aiuta le Pro loco, vera e propria fucina di volontari? Chi aiuta associazioni culturali di volontari che da sole preservano le culture locali?

Certo, ad aiutare tutti questi enti ci pensano i CSV!!! Non voglio generalizzare, ma la realtà è un’altra: i volontari si arrangiano da sé, come possono, a volte sbagliando... sono volontari che non solo non ricevono il rimborso spese (come prevederebbe la legge) ma che oltre al tempo ci mettono anche i loro soldi. Questi sono i volontari, non tutti per carità... ma rami sono così e le associazioni gli assomigliano: tanta buona volontà, tanta gente che applaude, tanta geme (ma un po’ meno) che le aiuta. E chi vive queste situazioni, chi le conosce non se la prende, se poi uno fa il volontario un po’ più "acculturatizzato" e offre consigli... chiamateli "consulenze" se vi piace. Ma per favore, ogni tanto, oltre a consulenze per il non profit, oltre che alla ricerca di lavoro nel non profit (lo sto cercando anch’io!), parliamo di volontariato.

 

Andrea Trisoglio

 

 

Bisogno di libertà

 

Cara redazione, grazie per il dibattito sul volontariato su cui voglio dire la mia. Sono convinta che sia necessario distinguere tra cooperative sociali e servizi del Terzo settore già di fatto professionali e sempre meglio e maggiormente professionalizzabili (benvenuti formatori e consulenti) e volontariato "puro" (puro non in quanto "santo", ovviamente, ma in quanto prestazione di servizio non retribuita) .

Da questo secondo ambito non solo è opportuno che lo Stato stia fuori, ma è bene per tutti noi che si mantenga "zona franca", praticabile solo per insindacabile e privata motivazione di ciascuno. Infatti spesso è solo in queste "terre di nessuno" che fiorisce la creatività, la capacità di inventare nuovi modi e nuove aree di intervento sociale, nuove culture che possano rendere improvvisamente obsoleti i vari contenuti formativi somministrati dagli addetti ai lavori. Tanto, si sa, poi a cascata il meglio (o il più utile) di queste nuove culture ridiventa patrimonio comune e magari entra nel bagaglio prima dei sociologi, poi dei formatori aziendali ecc.

Mi pare che, in questo ambito, e solo in questo (sarebbe assurdo, ad esempio, che l’impresa sociale che si prefigge di fornire servizi alle persone con handicap non si ponga il problema dello standard di efficienza o di formare i propri operatori retribuiti), il problema che si pone non è quello della purezza, ma è quello invece della libertà, anche libertà di voler stare fuori dal mercato; potendo anche ignorare i problemi del management o rischiando di fare qualche pasticcio nel bilancio. Ovviamente, la piccola o piccolissima associazione che desideri ingaggiare un prestigioso consulente è comunque libera di farlo!

Pavento invece la diffusione nel Terzo settore di una cultura aziendalista che per quello che mi è stato dato di vedere, almeno in Italia, è una cultura "piccola piccola", di scarso respiro e sufficientemente omologante. Saluti a tutti.

 

Mirella

 

 

Competenza sì, ma...

 

Scusate, vorrei intervenire per porre una questione semplice semplice, una osservazione. Ho un bel po’ di amici che sono militi volontari (ma gestiscono anche a livello organizzativo) una pubblica assistenza, completamente volontari, anche le mance le danno senza problemi al fondo cassa della Croce.

Anche loro stanno "subendo" (scusate l’espressione infelice) la professionalizzazione del settore, nel senso che fanno corsi su corsi, approfondimenti su approfondimenti, sempre più specialistici e hanno sempre più responsabilità, ma sono tutti lavoratori, padri di famiglia, studenti armati di buona volontà (tanta) e competenze di base (in alcuni casi davvero buone) ma questa pressione professionale non fa che scoraggiarli, toglie al volontario l’essenza del suo essere tale, il buonsenso. Perché troppo si chiede senza nulla avere in cambio. Almeno mi pare di capire. Certamente la delicatezza dell’impegno richiede competenze e responsabilità ma forse occorre non dimenticare di lasciare libere le motivazioni alla base e lasciare crescere il desiderio di rendersi utili. La via sembra quella di creare dei professionisti a tutti gli effetti senza pagarli. A ognuno il suo ruolo e il suo spirito... Grazie.

 

Alessandro

 

 

A ciascuno il suo

 

Abbiamo idee diverse di cosa sia, o vorremmo che fosse, il volontariato. Offro anch’io la mia interpretazione iniziando con una distinzione che reputo fondamentale a qualsiasi ulteriore discussione, infatti, a mio parere il volontario dovrebbe distinguersi così.

Volontario tradizionale: la persona che sceglie in autonomia e secondo le sue aspirazioni, motivazioni, credo religioso e quant’altro decidendo di dedicare parte del suo tempo ad attività a favore di terzi.

Volontario civile: la persona che reputa dovere del cittadino responsabile di aggregarsi con altri cittadini allo scopo di sopperire alle mancanze dell’amministrazione locale con attività di volontariato, allo scopo di mantenere o migliorare la qualità della vita del proprio territorio-ambiente di riferimento.

A livello operativo è quasi impossibile distinguere le due figure, entrambi fanno del volontariato, ma le differenze ci sono: sulle attività svolte dal volontario del primo tipo, lo Stato o l’amministrazione non deve avere la possibilità o diritto di intervenire, tutto quello che può fare è di creare eventualmente le condizioni favorevoli per agevolare lo sviluppo delle attività, ma nulla più, Diversa è la posizione dell’amministrazione nei confronti del secondo tipo di volontario, (e del volontario nei confronti dell’amministrazione): non abbiamo più delle scelte che dipendono da fattori individuali non controllabili (libera scelta) ma ci troviamo di fronte a un’esigenza collettiva che può e deve essere identificata, quantificata e, una volta presa la decisione di intervenire, devono anche essere trovate le risorse per farne fronte.

 

Corrado

 

 

Il bene non ci appartiene

 

Un invito a riflettere sugli obiettivi che dovrebbero essere alla base di tutte le azioni delle associazioni, organizzazioni, cooperative etc. di carattere umanitario. Cari amici, che siate credenti o meno, se operate nell’ambiente del volontariato umanitario, ambientale e via dicendo interrogatevi su qual è il fine ultimo della vostra azione: il rispetto di ogni individuo in quanto tale (S. Agostino diceva: "Ama e fai ciò che vuoi").

Con severa autocritica sappiate riconoscere quando la voglia di risaltare nella corsa al rare del bene "prevarichi sul reale "far del bene", domandatevi quanto gli effetti collaterali delle vostre azioni siano giustificabili.

E ancora, cercate di riconoscere quando è ora di abbandonare tutto (e sappiatelo poi fare) nel caso in cui la vostra azione non sia più necessaria, create cioè situazioni indipendenti da voi, poiché la dipendenza crea scompensi. Evitate la competizione, perché il vostro scopo si riduce, credo, all’uguaglianza e alla parità di diritti per ogni essere viverne, la competizione crea ed esalta i vincitori, mortificando per contro i vinti. In questo gli unici a rimetterci sono coloro che forse non volevano nemmeno competere, ma facevano la parte del premio. Non è detto che riusciate a operare sempre nel giusto nonostante agiate nel nome della giustizia, non sentitevi mai cioè inattaccabili ed esenti da critiche, siate anzi molto più severi con voi che con le altre realtà che con voi o come voi si muovono. Vogliate perdonarmi, uso il voi solo per comodità lessicale, ma non mi escludo dalla riflessione. Saluto sperando che si possa crescere assieme.

 

Emanuele Currò

 

 

La storia di Rekko

 

Ci sono diversi modi d’intendere il volontariato: c’è sicuramente chi lo percepisce, e lo pratica, come modo d’intendere le relazioni umane, e chi, invece, lo considera finalizzato a creare qualcosa nel campo della solidarietà, laddove le istituzioni, lo Stato, la politica, non sono riusciti (o non hanno voluto) a trovare soluzioni. Avete dedicato una copertina ai "Volontari in fuga", e parlato dell’obiezione - proveniente dalle parti più diverse - che il volontariato "non basta", che il volontariato vada in qualche modo superato, e sostituito, dalla costruzione di strutture più solide, basate sulla mentalità imprenditoriale, lo penso che nessun volontario, in nessun settore, abbia mai avuto la presunzione di pensare che nell’impegno proprio (e della propria associazione) si possa trovare la soluzione completa dei problemi. Però è altrettanto vero che, non di rado, l’operazione volontaria riesce a produrre - come si ama dire oggi - in efficienza ed efficacia anche di più dei "professionisti del sociale", e infinitamente di più della politica, essendo i primi, spesso, piuttosto condizionati dal bisogno di costruire la propria struttura, l’altra presa sempre più nei contorcimenti su sé stessa, nel proprio automantenimento e nei calcoli di tornaconto.

Chi scrive fa parte di una piccola associazione, il cui nome è "Rekko, Terza età per il Terzo Mondo", che ha portato avanti diversi progetti, nel Sud del mondo, In particolare, alcuni anni or sono, costruì, e da allora gestisce, il "Centro de Ayuda Sanitaria Rekko 7", in un paesino della montagna guatemalteca, un vero e proprio decorosissimo ospedalino, in un luogo dove la medicina pubblica lascia molto a desiderare e quella privata è, per i poveri, pressoché inaccessibile.

Il lavoro di "Rekko 7" è basato quasi completamente sul contributo, totalmente volontario, di medici, paramedici e altri tecnici italiani, che, a periodi, e per lo più utilizzando le proprie ferie, si recano a Yepocapa (questo il nome del "pueblo" in questione) a prestare la propria opera in quasi tutti i campi del settore sanitario.

Totalmente volontari. Cioè, gli operatori si pagano il viaggio, procurano e portano con sé strumenti, materiali e medicinali, contando sulle proprie forze e sull’appoggio di eventuali gruppi di sostegno. Così tutte le risorse economiche vanno direttamente a sostenere il lavoro sul campo, i progetti d’intervento e di sviluppo per la popolazione (alla quale si chiede una piccola quota per le singole prestazioni) e le spese vive di gestione, cioè gli stipendi per il personale locale, i costi di elettricità, acqua, telefono, benzina.

Lungi da me la tentazione di fare trionfalismi di alcun tipo. Semplicemente, vorrei sottolineare come la gratuità, l’adesione spontanea, il sentirsi coinvolti, non sono solo valori morali, peraltro insostituibili, e non surrogabili da alcun tipo di "welfare", ma sono anche ricchezza assai concreta e capace d’incidere sulla realtà.

Sono convinco che tra gruppi del volontariato (e singole persone che fanno il volontariato) e le organizzazioni "professionali" del sociale non ci debba essere concorrenza, ma integrazione, stimolo reciproco, e la convinzione di volersi reciprocamente aiutare a crescere. Quanto alla politica, la sua distanza dalle persone è, forse, ormai incolmabile.

 

Giuseppe Tadolini

 

 

La mia apologia della carità

 

Davanti alla miseria si prova pietà e compassione, un sentimento di tristezza e senso di colpa. Toccati al cuore si fa della carità rispondendo al bisogno di lavarsi la coscienza e si getta qualche monetina quando capitano comode occasioni o grandi disgrazie. Ma ha ancora senso vivere la carità come un dovere e fare leva sul senso di colpa per ottenere qualche spicciolo?

Gli inconvenienti di puntare sulla pietà e sulla compassione sono molti. Innanzitutto legare la lotta alla povertà a sentimenti spiacevoli spinge le persone a girare la faccia dall’altra parte appena possono, a nessuno piace il dispiacere e la sofferenza. Quando poi la carità si limita a dare dei soldi, la facilità nel dare è pari alla facilità del non dare e le risorse raccolte saranno soggette all’umore dei tempi. Inoltre chi fa carità solo perché si sente in dovere e non per consapevole convinzione, si tirerà indietro appena troverà di meglio da fare.

Un altro grave inconveniente nel puntare sul senso di colpa dei ricchi è quello di creare una distanza tra chi da e chi riceve perché chi getta la monetina mettendosi il cuore in pace delega ad altri la soluzione dei problemi che stanno dietro al mendicante. E delegare tutto ai cosiddetti professionisti della povertà è comodo per i ricchi ma sconveniente per i poveri perché l’enorme energia della società civile non può passare attraverso i soli soldi ma richiede una partecipazione attiva e duratura di tutte le forze della società.

Fare carità significa dare il proprio contributo, a seconda del tempo e delle energie disponibili nel corso della propria vita, per cause che si ritengono importanti. Ma perché un teleconsumatore materialista e alienato dovrebbe impegnarsi a fare della carità invece di perseguire i suoi futili miraggi?

La risposta è perché fare la carità è bello. Fare carità significa essere in prima linea gustandosi il piacere del dare; significa essere liberi di agire concretamente per realizzare i propri ideali e le proprie convinzioni da protagonisti, vivere. Oggi fare carità sta assumendo un significato diverso, non solo lotta al dramma dell’ingiustizia ma anche alle conseguenze della deriva sociale su di noi. I vuoti sogni materiali stanno infatti già diventando routine e la triste monotonia del consumo superfluo costringe l’occidentale ad aggrapparsi al lettino dello psicoanalista per tirare avanti. In tale crisi di valori e contenuti, proprio la carità può essere rilanciata non come un triste dovere ma come gioiosa opportunità per arricchire e dare significato alla propria vita.

La carità come mezzo per uscire dalla monotonia rendendosi utili e ritornare protagonisti nella società.

La carità come strumento per rendere varia e unica la propria vita e come maniera per uscire dagli schemi sempre più opprimenti.

Oggi, è impossibile fare finta di niente perché i laceranti problemi che affliggono la società moderna li abbiamo sotto il naso: non solo i gommoni dei profughi ma anche l’alienazione e il vuoto della nostra anima. Per reagire a tale deriva non ha senso chiudersi nel proprio giardinetto gettando spiccioli in qualche ciotola ma bisogna andare all’attacco riscoprendo la strada della carità come via per il futuro. Grazie dell’ospitalità a questa mia apologia della carità, una parola oggi troppo bistrattata.

 

Tommaso

Del volontario e della sua identità

di Stefano Zamagni

 

Ringrazio molto tutti coloro, e sono tanti, che sono intervenuti sulle pagine di Vita con riflessioni importanti e intriganti sul tema dell’identità del volontariato oggi, un tema appena abbozzato nel corso di un mio incontro con le associazioni del Comitato editoriale di Vita e rendicontato sulle pagine del settimanale. Ora Vita mi offre l’occasione di precisare meglio il mio pensiero sull’argomento, anche alla luce delle osservazioni e dei suggerimenti ricevuti. (non potrò fare a essi specifico riferimento per evidenti ragioni di spazio) .

Possiamo accontentarci della definizione di volontariato ancor oggi prevalente, una definizione basata sui tre principi della gratuità delle prestazioni; della spontaneità dell’azione (cioè della libera scelta); del beneficio arrecato ad una terza parte? Non lo credo proprio e ciò per le seguenti ragioni, che espongo in ordine crescente di rilevanza.

In primo luogo, va precisato bene cosa debba intendersi per gratuità. Vuol forse dire che il volontario non riceve remunerazione alcuna né in denaro né in natura?

Non basta. Infatti, non pochi sono i casi di soggetti che decidono di svolgere gratuitamente una certa attività per un determinato lasso di tempo presso una organizzazione di volontariato in cambio della promessa, ovviamente non formalizzata, di una sistemazione lavorativa successiva. E che dire delle situazioni, tutt’altro che infrequenti, del professionista che si avvale dell’attività svolta gratuitamente in qualità di volontario presso una organizzazione di volontariato come torma di investimento specifico in reputazione?

Come si sa, la reputazione è un vero e proprio assetto patrimoniale che può essere accumulato o decumulato e che conferisce al suo possessore la possibilità di godere di una specifica rendita di posizione. Non è difficile comprendere come in casi del genere la gratuità possa diventare facile paravento per fini non propriamente disinteressati. In buona sostanza, il non pagamento delle prestazioni non assicura, di per sé, la gratuità, la quale è prima di tutto una virtù, che postula una precisa disposizione d’animo.

In secondo luogo, è necessario dire, in termini positivi, del modo in cui una organizzazione di volontariato persegue l’obiettivo di arrecare beneficio a terzi. Se un certo numero di persone ben intenzionate e ben disposte verso gli altri, cioè altruiste, decidono di dare vita ad un’organizzazione alla quale forniscono gratuitamente risorse di vario tipo per "far cose" a favore di determinate tipologie di portatori di bisogni, questa sarà un’organizzazione filantropica, certamente benemerita e socialmente utile, ma non ancora per ciò stesso una organizzazione di volontariato. La specificità di quest’ultima, infatti, è la costruzione di nessi di relazionalità fra persone.

Laddove l’organizzazione filantropica fa per gli altri, l’organizzazione di volontariato fa con gli altri.

È proprio questa caratteristica che differenzia l’azione autenticamente volontaria, tipica delle organizzazione di volontariato, dalla beneficenza privata, tipica della filantropia. Infatti, la forza del dono gratuito non sta nella cosa donata o nel quantum donato (così è invece nella filantropia, tanto è vero che esistono le graduatorie o le classifiche di merito filantropico) ma nella speciale qualità umana che il dono rappresenta per il fatto di costituire una relazione tra persone.

In altri termini, mentre la filantropia genera quasi sempre dipendenza nel destinatario dell’azione filantropica, il volontariato autentico genera invece reciprocità e quindi libera colui che è il destinatario dell’azione volontaria da quella "vergogna" di cui parla Seneca nella X Lettera a Lucilio: "La pazzia umana è arrivata al punto che fare grandi favori a qualcuno diventa pericolosissimo: costui, infatti, perché ritiene vergognoso non ricambiare, vorrebbe togliere di mezzo il suo creditore. Non c’è odio più funesto di quello che nasce dalla vergogna di aver tradito un beneficio". Non è propriamente volontaria l’azione di chi, al di là delle intenzioni soggettive, non consente al beneficiario di porre in essere un contro-dono.

Se chi riceve gratuitamente, non viene posto nelle condizioni concrete di reciprocare, in qualche misura e in qualche forma, costui finirà per sentirsi umiliato. Ciò in quanto il dono, per sua natura, provoca sempre l’attivazione del rapporto di collaborazione sociale per eccellenza, quello di reciprocità, Terzo, come scrive Romano Guardini: "La persona umana non può comprendersi come chiusa in se stessa, perché essa esiste nella forma di una relazione. seppure la persona non nasca dall’incontro, è certo che si attua solo nell’incontro". Come a dire che l’essere umano si scopre nel rapporto interpersonale e dunque che il suo bisogno fondamentale è quello di reciprocità. Ma cosa genera ed alimenta la reciprocità?

Due sono le fonti principali: il dono e lo scambio di equivalenti, cioè il contratto. Nella reciprocità che nasce dal dono, l’apertura all’altro, una apertura che può assumere le forme più varie, dall’aiuto materiale a quello spirituale, determina una modificazione dell’io che, nel suo rientro verso la propria interiorità, si trova più ricco per l’incontro avvenuto. Non così invece nella reciprocità che nasce dal contratto, il cui principio fondativo è piuttosto la perfetta simmetria ciò che si dà e ciò che si può pretendere di ottenere in cambio. Tanto è vero che è a causa di tale proprietà che la forza della legge può sempre intervenire per dare esecutorietà alle obbligazioni nate per via contrattuale.

La differenza tra dono (e controdono) e scambio di equivalenti sta proprio nell’assenza del contratto, cioè nell’assenza di garanzia a favore del donatore. È questa assenza che, presupponendo grande fiducia nell’altro, è capace di generare legami di fiducia nella società, Ebbene, l’identità propria dell’azione volontaria quale vediamo all’opera nelle organizzazioni di volontariato è nel dono che genera reciprocità. L’uscita dell’io verso un tu di cui sempre si ha bisogno è allora ciò che definisce la gratuità dell’azione volontaria. Ecco perché non è vero che uno riceve ciò che dona. Al contrario, si è capaci di donare solamente se si è fatta una qualche esperienza di ricevimento.

Perché è importante questa definizione di gratuità?

Perché, come la scuola del Mauss ha chiarito a tutto tondo, c’è una concezione del dono tipica della premodernità, che però continua ancora a sussistere, secondo cui il dono va ricondotto sempre ad una soggiacente struttura di scambio. È questa la concezione del dono come munus, come strumento per impegnare l’altro, fino ad asservirlo. Per una concezione del genere, si ha che il dono diventa, paradossalmente, un obbligo per preservare il legame sociale: la vita in società postula di necessità la pratica del dono, la quale diventa per ciò stesso una norma sociale di comportamento, vincolante al pari di tutte le norme di tale tipo. Non ci vuole molto a comprendere come una tale concezione del dono non salvi né la spontaneità né la vera gratuità dell’azione donativa, eppure, per strano che ciò possa apparire, è un fatto che ancora molto radicata è l’idea in base alla quale il volontariato genuino è quello che si appoggia sulla nozione di dono come munus.

La ragione principale di ciò è che si stenta ancora ad afferrare che la categoria del dono ricomprende al suo interno la dimensione dell’interesse. Invero, il termine interesse - dal latino "inter-esse" - significa propriamente "essere in mezzo" e ciò a significare che per perseguire un interesse bisogna interagire con l’altro, utilizzandosi reciprocamente perché ne derivino frutti a entrambi. Eppure, la concezione oggi dominante di interesse si è talmente allontanata dal suo significato originario che quando questo termine viene usato esso viene quasi sempre inteso con connotazioni negative sotto il profilo morale.

La realtà è che il dono non è affatto incompatibile con l’interesse del donante, se questo viene inteso come interesse a stare nella relazione con l’altro. Il filantropo, invece, non ha questo interesse, tanto è vero che il filantropo puro (quello che vuole conservare l’anonimato) neppure vuol conoscere l’identità di coloro ai quali la sua beneficenza si indirizza. E non v’è dubbio che l’altro filantropico sia un atro gratuito nella accezione volgare di cui si è detto sopra. La differenza ultima tra la gratuità del volontario e la gratuità del filantropo (o dell’altruista puro) sta in ciò che il volontario non pretende la restituzione, accetta l’asimmetria, rinuncia all’equivalenza, ma tutto ciò non implica affatto che il volontario non coltivi un interesse: l’interesse per l’altro (e non già all’altro) che nasce dal desiderio del legame.

La conclusione pratica che traggo da quanto precede è che il volontariato deve bensì mantenere rapporti di "buon vicinato" con i vari soggetti dell’economia sociale e dell’economia civile, ma al tempo stesso deve da questi differenziarsi. Quanto a dire che il volontariato, nonostante le opinioni contrarie in proposito, non appartiene al terzo settore, perché diverse sono la sua logica di azione e soprattutto il suo fine specifico. E dunque quando Kofi Anan alla 56a assemblea generale delle Nazioni Unite (5 dicembre 2001), per citare un caso illustre, dichiara che "il volontariato contribuisce alla formazione del prodotto nazionale lordo", dice cose fuorvianti da cui può discendere un solo esito certo: quello di annientare la fisionomia propria del volontariato e decretarne una lenta eutanasia.

 

 

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