Vita - 16 maggio 2003

 

A Civitas, 16 detenuti, uno scappa. È l’unico a far notizia

 

Ci sono delle sensazioni disordinate che mi porto a casa da Civitas: l’invisibilità del carcere, prima di tutto. Quindici detenuti e una detenuta sono stati per tre giorni in permesso premio: alla fine, un bilancio straordinariamente positivo, e un fatto negativo, l’evasione di un ragazzo straniero, ma è l’unica notizia di cui i giornali hanno parlato. In questa situazione, la prima cosa che mi viene in mente è una considerazione che ha fatto Edoardo Albinati, scrittore e insegnante a Rebibbia, quando lui e le sue colleghe hanno letto sul giornale che quello che era stato il loro miglior studente, appena uscito a fine pena si era fatto ammazzare in una sparatoria durante una rapina.

Alla disperazione delle sue colleghe, al senso di sconfitta personale, lui aveva risposto brutalmente: questa non è una sconfitta nostra, questa è un disastro, una sconfitta della vita. In una situazione meno drammatica, ma sempre sgradevole e triste mi sento di dire la stessa cosa: io caparbiamente ci ho tentato e ci tento, di dare a queste persone una prospettiva diversa, una diversa possibilità di scelta, se poi non ci sono riuscita è perché la vita è davvero troppo complessa per pensare che basti sempre una presenza attenta e generosa del volontariato a "salvare il mondo".

Un’altra riflessione voglio fare: cosa significa per tanti di noi fare volontariato in carcere. I detenuti non sono esattamente dei "soggetti deboli", anzi a volte sono soggetti forti, sono soggetti con un passato pesante e un presente su cui si possono avere delle speranze, ma sicuramente non delle certezze.

Il volontariato è abituato invece più spesso a operare con soggetti realmente e solo disagiati: disabili, malati psichici, bimbi maltrattati. lo capisco allora anche perché tanti agenti della polizia penitenziaria quando vogliono provocarci un po’ ci dicono: ma perché non vi occupate di chi sta davvero male, invece che di delinquenti? È vero, me lo chiedo anch’io, perché?

Io non sono credente, non vado in carcere per redimere nessuno: vado in carcere perché penso che la sfida sia far vedere a chi ha fatto scelte devastanti per sé e per gli altri che esiste anche un’altra vira, un modo diverso di affrontare le difficoltà cercando di rispettare gli altri e di non sprecare la propria esistenza in luoghi senza dignità.

Un’altra cosa vorrei dirla a chi sta fuori, e leggendo certe notizie sui giornali penserà senz’altro che chi ha commesso un reato è meglio che se ne stia in galera,e anche il più possibile: questa è un’illusione di sicurezza, io ho visto gente che la galera se l’è fatta tutta e poi è uscita così rabbiosa e sola, da costituire un pericolo doppio per la società. Naturalmente ho visto anche gente uscire in permesso e fare come il detenuto di Civitas: tradite la fiducia. Ma, forse, aver respirato un po’ di vita libera lascia comunque un segno positivo, anche in chi non ce la fa a reggere il peso della libertà.

 

Ornella Favero

 

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