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Qui San Vittore, ecco perché ci definiscono "ristretti"
Il
testo che segue ci arriva dal bollettino n° 2 (dicembre 2001) dell’Osservatorio
Calamandrana sul carcere di San Vittore. Per capire davvero cos’è il
sovraffollamento in carcere, questa testimonianza, tratta dalla descrizione di
una giornata – tipo, in una cella di "ristretti" (termine
burocratico per definire le persone detenute), è assolutamente perfetta.
Ornella Favero
Verso le ore sette e mezza sono quasi tutti svegli, ma sarebbe un guaio se tutti si alzassero contemporaneamente: altro che i mezzi pubblici nelle ore di punta! Non si esagera. Lo stanzino è lungo quattro metri e largo due metri e mezzo circa. Poi metteteci dentro sei brande di ferro (due a castello per tre). Poi ancora aggiungeteci i sei stipetti (cinquanta centimetri per cinquanta ognuno) e, infine, un tavolo (cinquanta centimetri per cinquanta - per sei persone!) contornato con qualche sgabello, finisce l’inventario della cella. Il piccolo monitor che svolge la funzione del televisore è posto sopra gli stipetti, in un angolo della cella, visibile da tutti. Ma qui parliamo dell’inventario ministeriale e non di quello personale, cioè non del vestiario e degli oggetti di proprietà del recluso: tra i vari capponi, gli accappatoi, gli asciugamani e i vestiti che solitamente si usano per gli incontri coi familiari, o per i processi, immaginate allora quanto spazio ci rimane e quale confusione si creerebbe se tutti i sei uomini, come si accennava prima, si alzassero nello stesso momento, ovvero alle sette e mezza di mattino. Perciò, mentre uno è in bagno, l’altro riceve dallo spioncino (una apertura nella porta, larga ventitré centimetri e alta diciotto) la razione del pane giornaliero, la frutta (di solito due mele a testa) e, se vuole, un bicchiere di latte, mentre gli altri quattro stanno buoni buoni dentro le loro brande. Una volta finiti i turni con il bagno arriva il cosiddetto passeggio. Dopo il primo turno dell’aria e in attesa del secondo, di solito si mangia quello che passa il convento. Alle ore quindici e un quarto si entra definitivamente in cella, per rimanerci fino alle nove del mattino seguente. E, in quelle diciassette ore e quarantacinque minuti, cosa si fa? Ripetiamo ancora una volta; niente! Alla fine anche la lotta coi gesti e i movimenti viene interrotta (siffatta lotta non termina mai, viene soltanto, per poco tempo, interrotta da una fragile tregua) da uno che improvvisamente accende il televisore con intenzione di vedere qualche programma attraverso il piccolo monitor, ma c’è sempre un altro al quale questo, e proprio questo programma non va: questione di gusti, o Dio sa di che cos’ altro. Un altro poi, trae lo spunto per raccontare il suo calvario processuale, ma difficilmente trova qualcuno che lo ascolti più di qualche attimo. Dentro le celle non si riesce a fare niente!
Ivano Longo, Carcere di San Vittore
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