Alfredo Biondi

 

L’amnesia precede l’amnistia

 

Il Giornale, 28 giugno 2001

 

D’accordo nessuno tocchi Caino (com’è scritto nei Sacri testi) ma a questo punto è giusto anche dire: “Nessuno si scordi di Abele”. C’è una strana tendenza tutta italiana, forse una tentazione fatale, quella di maledire il delitto e benedire il colpevole. Si capisce: il delitto fa notizia la polizia indaga, i PM si fanno un nome, tutto è teso a trovare l’autore del delitto secondo il manzoniano “dagli all’untore”.

Poi arrivano gli psicologi e anche i “magistrati specialisti” accanto a quelli ignoti prima, ma gratificati, anche in famiglia, per l’attenzione rivolta loro dall’obbiettivo delle telecamere. Così se il caso è drammatico ma al tempo stesso intrigante e pruriginoso si viene a sapere prima o poi ogni cosa.

Dove finiscono gli sdegni individuali e collettivi, le lacrime egli applausi funeralizzati post mortem? Qui la prescrizione è breve. L’estinzione del reato verrà magari dopo, preceduta dall’estinzione del ricordo. Si sa, qui da noi l’amnesia precede l’amnistia. Così è la vira? No, così è la comodità della sopravvivenza che esige che “chi è morto giace e chi è vivo si dà pace”. Questo è il proverbio e questa è la realtà. Però, dopo il delitto, la vita è un’altra cosa: è morte per chi è stato ucciso ed è sopravvivenza per chi ha ucciso. Bisogna dirlo chiaramente: non è la stessa cosa nell’un caso e nell’altro, chi è morto, dopo essere stato martirizzato non c’è più e chi l’ha ucciso e magari ha infierito ancora c’è.

La contabilità sociale dice che la colonna positiva ha perduto un numero e quella negativa si è arricchita (si fa per dire) di un altro numero. Per medicare la ferita sociale derivante dal delitto, che deve fare la società, anzi lo Stato che ne è l’espressione? Con il giusto processo si devono accertare le responsabilità con tutte le garanzie, ma dopo il giusto processo se le responsabilità risultano accertare va inflitta una giusta condanna e la pena deve essere espiata.

Sembra facile e semplice a dirla, ma non è così. Subentra o si intromette “post delictum”, tutta una serie di considerazioni di ordine psicologico o psichiatrico, sociale o sociologico quando non politiche che condizionano il giudizio creando spesso il pregiudizio. Ciò avviene in particolare quando i delitti sono stati commessi da minori, specie se alla soglia della maggiore età, specie se sono istruiti, ben vestiti, ben nutriti, cresciuti insomma in una famiglia che viene indicata come incubatrice dei loro malesseri, allora nascono gli aggettivi riduttivi: sono fidanzatini, disadattati, narcisisti, disaffettivi.

Preti e familiari si affannano, più degli avvocati, a sostenere che è la società madre e matrigna a creare mostri e a crescere ad immagine e somiglianza di ciò che peggio non si può. Sono la famiglia e la collettività ad indicare modelli perversi causa di tutti i mali. Insomma si crea una specie di determinismo sociale e fatale in cui il libero arbitrio, l’autocoscienza, il senso della responsabilità annegano in una sorta di immunità generazionale dove le colpe dei delitti non vanno trovate nei soggetti che li compiono ma nella società che li determina.

 

Il silenzio è d’oro

 

Ho letto da qualche parte di un magistrato dei minori che si occupa di un grave caso di delitto di coppia che avrebbe affermato: “In morti omicidi di cui mi sono occupata, i genitori meritavano la morte” - e ancora – “se il padre è un padrone, il figlio ha diritto a ucciderlo”.

Parole sue e spero che siano state o non pronunciare o travisate. Un tempo si diceva; “Il silenzio è d’oro”, e bene farebbero a tenerlo presente, coloro che hanno scelto la difficile professione del giudice, che dovrebbe sempre esprimersi “in nome del popolo italiano”.

Queste parole shock del giudice dei minori sono parole che più che shock sono sciocche, per non dire insensate. Anche la storia del giovane assassino di una compagna di scuola (uccisa per amore!), è Stato, manco a dirlo, dichiarato non punibile e assegnato in comunità. Un condannato all’ergastolo sta per uscire in licenza premio. Insomma in Italia si va in galera quando si è presuntivamente innocenti e si esce o non si entra quando invece si è colpevoli! Trionfo del diritto.

 

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