Don Gino Rigoldi

 

Un po’ di carcere può anche aiutare

 

Il resto del Carlino, 26 Marzo 2001

 

Gino Rigodi, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano

 

Il carcere cambia chi è disponibile al cambiamento. Ci sono dei ragazzi, una minoranza per fortuna, che entrano già scafati, già induriti. La gran parte chiede aiuto agli educatori e ai servizi sociali con l’intenzione vera di fare qualcosa di diverso. Con gli stranieri il nostro lavoro è più facile. Di solito non si portano dietro il passato doloroso, i grandi traumi emotivi, affettivi, familiari che segnano invece i ragazzi italiani. 

Molti stranieri, invece, non hanno storia alle spalle, passano direttamente dalla strada al carcere. Con tutti cerchiamo di costruire un progetto e di portarlo avanti. Distinguiamo sempre tra detenzione breve e detenzione lunga. Nel primo caso è importante che il giovane non sia semplicemente parcheggiato e si abbandoni alla mentalità carceraria (a seconda dei casi, svagata o aggressiva), si adagi nel suo essere detenuto. 

In una carcerazione lunga si deve creare con il detenuto un rapporto solido, sostenuto da tutti gli interventi possibili. Più grave è la colpa, più lunga è la detenzione, più diventa difficile il compito di chi segue il detenuto.  La premessa è che si renda conto del male commesso. Deve arrivare a pensare “ho ucciso, ho rubato, ho fatto questo e quest’altro”. Essere consapevole. 

La seconda cosa è capire che sopratutto per i reati più gravi ci deve essere una forma di espiazione, il carcere o altro. Non per una vendetta sociale, o per vendicare persone che non ci sono più, nel caso di un omicida, ma perché di rimorso si può impazzire o morire. C’è gente che viene a trovarmi dopo vent’anni, è andata via di testa per il senso di colpa. Ricordo il caso di un ragazzo. Aveva ucciso. Lo hanno trovato impiccato. Aveva lasciato un biglietto: “Non ho pagato abbastanza”. Il carcere serve se la punizione è intesa come un aiuto e non solo come un prendere la gente e metterla in cantina. 

È il prezzo da pagare per salvarsi dalla disperazione. L’importante è che la persona una volta restituita alla libertà, dica: “ho sbagliato, ho pagato, adesso sono pronto a riprendere”. Si capisce che è in corso il processo di ravvedimento quando il ragazzo assolve i compiti che gli vengono assegnati, se mantiene gli impegni, se si relaziona in un certo modo con i compagni, con gli insegnanti, con gli educatori, o se al contrario fa il prepotente, il mafiosetto.

 

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