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La mediazione penale nell’ambito della giustizia minorile È importantissimo per l’autore di un reato sapere che il proprio gesto in qualche modo è riparabile (Realizzata nel mese di gennaio 2004)
Intervista a cura di: Marino Occhipinti, redattore di Ristretti Orizzonti Carla Chiappini, coordinatrice del giornale del carcere di Piacenza
Ce ne parla la professoressa Claudia Mazzucato, docente di Diritto Penale all’Università del Sacro Cuore di Milano e Mediatore penale dell’Ufficio per la Mediazione di Milano.
Come comincia la sua esperienza nel campo della mediazione penale? Vorrei subito fare una premessa e una richiesta: vorrei poter dialogare con voi proprio sulla mia esperienza. Il tema della mediazione e della giustizia riparativa è complesso, ed è difficile poterne parlare in modo rigoroso in poco tempo. Preferirei allora attenermi piuttosto a una narrazione in prima persona: mi piacerebbe raccontare la mia storia con la mediazione, seguire il filo dei miei pensieri personali e dei miei ricordi. Per gli aspetti teorici, scientifici e culturali, invece, si deve studiare tanto e calarsi nella realtà. Poche parole all’interno di un piacevole dialogo non sono sufficienti a contenere la complessità affascinante e problematica di questo tema.
L’incontro mi aveva molto colpito, perché avevo incontrato delle persone il cui tempo si era fermato
La mia storia, allora. Come le migliori storie, anche questa comincia su un’isola, quella di Gorgona, dove sono stata nel 1991 per un progetto della cattedra di filosofia del diritto della mia Università in collaborazione con l’allora direzione del carcere di Gorgona. Con il professor Lombardi Vallari (ordinario di filosofia del Diritto nell’Università di Firenze e all’epoca docente anche nell’Università Cattolica) e altri studenti e giovani laureati siamo stati ospiti una settimana della Casa di reclusione. L’incontro con i detenuti mi aveva molto colpito, perché avevo incontrato delle persone il cui tempo, per tanti motivi, si era fermato. Un tempo fermo anche perché inchiodato sul reato, ed ho pensato che anche il tempo delle vittime, o dei loro familiari, è fermo. Due vicende di sofferenza, separate e unite al contempo; mi domandavo come mai rimanessero così infecondamente separate; ho chiesto, quindi, al professor Lombardi Vallari di poter svolgere la mia tesi di laurea su questa separazione. Il titolo della tesi è poi diventato "Le alternative al processo penale: gli spazi della pacificazione". Allora non sapevo assolutamente che cosa fosse la mediazione: durante la ricerca ho pero "scoperto", tra alcune esperienze giuridicamente non attuabili, l’esperienza della mediazione reo/vittima che aveva preso avvio negli Stati Uniti e in Canada dagli anni ‘70. Poi ho incontrato il professor Ceretti, che all’epoca stava studiando la mediazione penale. Diciamo che dal ‘93 - ‘94 abbiamo cercato di concretizzare questo progetto. Lui aveva in mente, insieme ad altre persone appassionate, di proporre l’apertura di un ufficio di mediazione. Ne è nato un progetto che abbiamo sottoposto alla dottoressa Livia Pomodoro, presidente del Tribunale per i Minorenni di Milano che ci ha sostenuti ed aiutati insieme a tante istituzioni e persone significative. Si è costituito un gruppo, è stato sottoscritto un protocollo d’intesa inter-istituzionale (tra Comune di Milano, Ministero della Giustizia-Centro per la Giustizia minorile, Regione Lombardia, ALS, alcuni Comuni dell’hinterland milanese e oggi anche la Provincia di Milano), è nato l’Ufficio di Mediazione. Il gruppo dei mediatori è stato formato da Jacqueline Morineau: un percorso formativo umanamente e culturalmente straordinario, coinvolgente e appassionante.
La mediazione è un modo democratico per rispondere a una domanda di giustizia
Materialmente quando è stato aperto l’ufficio? E si può dire che all’inizio è nato non tanto come percorso giuridico ma quasi nell’ambito della sede trattamentale? L’ufficio è stato aperto nel maggio del 1998. Non penso però che la mediazione sia da iscriversi in una logica di trattamento, se con trattamento si intende ciò che una persona reclusa deve fare per non delinquere più, ma è qualcosa di molto più ampio e universale. Sono personalmente convinta che la mediazione sia un modo democratico di rispondere a una domanda di giustizia ovunque nasca, quindi non soltanto in ambito penale. L’idea è quella che attraverso la parola, che è una prerogativa dell’essere umano, ci si possa riconoscere e accordare nel senso più nobile del termine, non semplicemente negoziare su qualche cosa ma cercare di trovare la concordia.
Si palesa la comunanza laddove si penserebbe esserci spazio solo per le differenze radicali
E questo accade nelle vostre mediazioni minorili? Può accadere in misura diversa, con gradi diversi. Ci sono conflitti più "in prosa" e conflitti più "in poesia", però io devo dire che in ogni mediazione, anche quelle che non riescono, si assiste a questa sorta di passaggio: dai fatti che separano, dividono, allontanano, ai vissuti che questi fatti hanno generato e, da lì, a valori che sono, per lo più, universali, anche se declinati in modo individuale, e quindi differenziato. Sono i valori primordiali che costituiscono il logos dell’esperienza umana: il bisogno di rispetto, l’importanza dell’amore, dell’amicizia, dell’essere voluti, desiderati, capiti, il bisogno dello spazio, della non invasione di questo spazio, per citarne solo alcuni a titolo di esempio. Questi bisogni sono, dunque, contenitori di valori forti, rispetto ai quali ci si può riconoscere anche partendo da una incommensurabile diversità come quella che obbiettivamente distingue un reo e una vittima. Nel corso di una mediazione ci si può persino accorgere che i ruoli di reo e di vittima sono, a certe condizioni - in certi casi -, quasi intercambiabili: questo accade, per esempio, quando il reato è frutto di una vicenda di soprusi, di una negazione di questi valori verso l’autore del reato stesso. Nel passaggio dai fatti che dividono alle emozioni e ai vissuti che a questi stessi fatti sono strettamente legati, si riesce ad aprire la corazza dei sentimenti e all’interno si ritrovano ancora i valori. La cosa più interessante e più bella è che sono gli stessi valori che la norma voleva proteggere. Ed è appassionante aprire la corazza della norma e svelarla, scoprire che quello che c’è dentro è qualcosa che mi riguarda, riguarda l’altro, riguarda tutti; è una forte comunanza. Si palesa la comunanza laddove si penserebbe esserci spazio solo per le differenze radicali. Questo non vuol dire che si media l’innocenza o la colpevolezza, tanto meno che la mediazione è una giustizia retributiva che ripaga con la stessa moneta: la mediazione è una giustizia che potremmo definire "creativa", legata al riconoscimento dell’Altro. La mediazione consiste nell’offrire spazio a tutto ciò che conta davvero perché venga interamente riconosciuto e accolto.
La mediazione pare aver assunto un peso crescente ma non dominante
Da quanti anni sta facendo mediazione e con che frequenza questo strumento è utilizzato nell’ambito della giustizia minorile? Sul piano degli studi teorici, sono ormai dieci anni che me ne occupo; faccio mediazione in ambito minorile, invece, dal 1998. L’ambito penale minorile è stato pionieristico; oggi la mediazione pare aver assunto un peso crescente ma non dominante. Gli Uffici di mediazione sono ancora molto pochi e i casi che vengono trattati da questi uffici sono esigui rispetto alla mole e al carico che hanno i tribunali, però l’attenzione aumenta. Fra l’altro ritengo che sia meglio non cominciare con delle cose macroscopiche che tradirebbero soltanto lo spirito, meglio avanzare a piccoli passi. Io sono molto preoccupata per eventuali esperienze improvvisate che farebbero soltanto male alla giustizia riparativa e alla mediazione; temo le derive verso una scarsa serietà e un debole fondamento scientifico che potrebbero indurre qualcuno a dire che la giustizia riparativa non è utile, non fornisce adeguate garanzie, è pericolosa, è emotiva. Ciò condurrebbe a "chiudere tutto" e ridare spazio solo al vecchio diritto penale fondato sulla repressione. Serve, quindi, tanta cautela e preparazione.
Il mediatore può essere chiunque si prepari e si formi appositamente
Come e dove ci si prepara a diventare mediatori e con che formazione? è un tema molto delicato: c’è una raccomandazione del Consiglio d’Europa sulla mediazione penale (Racc. 19/1999) che richiede che i mediatori si preparino con serietà sia all’opera di mediazione sia a conoscere il contesto in cui la mediazione si colloca. La mediazione penale dialoga con l’amministrazione della giustizia tradizionale, giuridica, e questo dialogo è fondamentale: guai se non ci fosse! è una preparazione anche alla conoscenza dei destinatari del servizio della mediazione, quindi i mediatori devono conoscere molto bene la realtà in cui operano, devono addirittura, secondo questa raccomandazione, essere espressione della collettività. Che cosa vuol dire? Che il mediatore può essere chiunque si prepari e si formi appositamente; non ci sono delle professionalità più adatte, anzi chi proviene da professionalità giuridiche, psicologiche, pedagogiche e d’intervento sociale deve "spogliarsi" di queste sue competenze. Ma chi si accinge a diventare mediatore deve comunque prepararsi: non si può improvvisare. Il tema della preparazione, ripeto, è molto delicato. Vi è fra l’altro l’insidia di trasformare uno strumento così delicato in un "business": cresce l’interesse per la mediazione, crescono magari anche mire non proprio trasparenti. Ci sono molte "scuole" di formazione serie, ovviamente la tradizione che c’è all’estero è di più lunga durata. I modelli di riferimento sono sostanzialmente due: uno più negoziale e uno che viene definito più umanistico; a mio parere il modello che funziona di più in ambito penale è quello umanistico.
La mediazione non vuole sanare il conflitto… vuole "prendersi cura" degli effetti distruttivi del conflitto
Il professor Ceretti ci tiene molto a spiegare che l’incontro di mediazione non ha nulla a che vedere con l’incontro terapeutico e neanche di supporto psicologico: parlando con i detenuti in carcere questo è un concetto che non è facile da chiarire, vuole provare a farlo? Non è terapeutico perché, come dice appunto Ceretti, la mediazione non vuole sanare il conflitto, non vuole curarlo, vuole – più modestamente – "prendersi cura" degli effetti distruttivi del conflitto. La mediazione è un intervento molto puntuale, circoscritto. Tra l’altro non tutto è mediabile, esistono anche situazioni non mediabili. Ci sono persone che hanno altre esigenze, appunto più terapeutiche; la mediazione è una cosa più umile, meno ambiziosa e con obiettivi limitati. Il mediatore non ha potere, non fa progetti, non dà consigli, non propone soluzioni, non può diagnosticare, non interpreta, non spiega, non ha un ruolo esplicativo del perché si produce una certa situazione, una certa reazione, del perché si produce quella particolare emotività. Quindi il mediatore non solo non è un terapeuta, non fa lo psicologo, non fa l’educatore, nemmeno il criminologo. Il mediatore è proprio al servizio "di", non è mai protagonista. La mediazione può essere paragonata a un palcoscenico, a uno scenario, una cassa di risonanza; è qualche cosa che accoglie restituendo. I protagonisti della mediazione sono veramente le parti e infatti, per tornare alla formazione, la formazione alla mediazione è un cammino di spoliazione. Lo dicevo poco tempo fa ad un gruppo di futuri mediatori penali nell’ambito di un progetto pubblico: non dovete pensare di incamerare ma di abbandonare, quindi di fare emergere quello che c’è già, non di aggiungere. Il percorso di formazione alla mediazione non aggiunge ma porta ad una essenzialità costruttiva.
Non c’è spazio per la retorica
Cosa la affascina in tutto questo? Mi affascina l’essere umano. Mi affascina vedere che cosa siamo capaci di fare come esseri umani: la nostra capacità di fare del male e di fare del bene; mi affascina assistere alla messa in campo di risorse inimmaginabili e positive; molte delle persone che ho incontrato in mediazione sono state per me esemplari ed educative. Persone esemplari per la forza dei messaggi che portano, dei significati che trasmettono, dei valori che riconoscono. La mediazione non ha retorica, non c’è spazio per la retorica perché le persone che intervengono, che sono protagoniste hanno dentro cose reali.
Nella mediazione la verità non conduce a qualcosa che fa del male e allora quasi sempre la verità viene fuori
Lei sostiene che l’assenza di retorica è molto fascinosa. Sì, perché c’è gente che sulla sua pelle ha un detector antiretorica perfettamente funzionante. Per questo si va sempre davanti al "dunque", a volte le parti mettono un po’ di "fronzoli" alle loro storie per renderle più presentabili, ma una volta entrati nel dialogo della mediazione tutti i fronzoli scompaiono e resta l’essenziale. Non c’è più retorica e non c’è menzogna. Il processo può essere un luogo in cui la verità ha difficoltà a farsi strada, perché spesso è costruito in modo tale che la verità non renda liberi e perché l’emergere della verità produce la sanzione che è sofferenza, quindi la verità non fa male in se stessa ma apre a qualcosa che fa del male, all’inevitabile sofferenza legata alla pena. Nella mediazione, invece, è diverso: il mediatore non ha poteri, non ha autorità di giudizio, la verità non conduce a qualcosa che fa del male e allora quasi sempre la verità viene fuori.
Per l’aggredito può essere importante sentire che l’aggressore non voleva produrre quello spavento
Esiste una verità nei fatti, o vale il luogo comune per cui la verità non esiste, esistono piuttosto infinite verità? C’è sicuramente una ricostruzione storica dei fatti e quasi sempre in mediazione si giunge ad una ricostruzione univoca dei fatti; in mediazione sono presenti gli unici soggetti che sanno cosa è realmente successo. La verità fattuale è però sempre con la "v" minuscola. Questa ricostruzione univoca dei fatti, che è una presenza molto frequente nella mediazione, dipende proprio dalla possibilità di confrontarsi in modo libero ed è una ricostruzione che nasce grazie alla possibilità che ognuno dica la propria verità. Nella mediazione, però, non ci si limita alla ricostruzione storica dei fatti; ci si può confrontare anche sui vissuti generati da quei fatti. Ad esempio un aggredito può spaventarsi in modo più forte di quanto non potesse prevedere il suo aggressore: è molto importante sentirselo dire. Se tu me lo dici, io capisco che il mio atto può produrre anche questo, quindi aggiungo un pezzo di verità alla mia verità soggettiva. Chi ruba un portafoglio nel quale c’è la fotografia di qualcuno caro che magari non c’è più, considera di norma soltanto l’aspetto economico del danno: vi è però un’altra dimensione profonda conoscibile solo incontrando l’altro. La vittima ha bisogno di "non essere solo un portafoglio"! Passo passo si compone quel "puzzle" che noi possiamo chiamare "verità" che finalmente mostra la figura nella sua completezza. Questo, naturalmente, vale anche all’inverso, perché per l’aggredito può essere importante sentire che l’aggressore non voleva produrre quello spavento, che non immaginava…
Cos’altro c’è di importante, secondo lei, nella mediazione penale? è importantissimo per l’autore di un reato sapere che il proprio gesto, se non storicamente (perché non si può tirare indietro l’orologio) in qualche modo è riparabile, altrimenti la pena diventa veramente solo un infliggere una sofferenza senza orizzonti. Sapere che io posso riparare è fondamentale; ed è fondamentale per il reo così come è fondamentale per la vittima.
"Non esco senza la sofferenza, ma è bene che questa sofferenza rimanga un po’ con me"
Lei trova che le persone escano dalla mediazione comunque alleggerite di qualcosa? L’altro giorno una persona, nell’ambito di un percorso di mediazione, ha detto: "Non esco senza la sofferenza, ma è bene che questa sofferenza rimanga un po’ con me". In mediazione, lo ripeto, non c’è spazio per la retorica: le cose possono apparire nella loro dimensione tragica; non vengono edulcorate. L’augurio, confermato anche dall’esperienza, è però che le persone escano più libere, con l’impressione che un giusto spazio e una giusta accoglienza sono state concesse a ciò che conta davvero per loro.
C’è anche un momento di maggior serenità? Sì, in certe persone è proprio evidente, c’è una sorta di trasfigurazione dei volti. Le mediazioni che riescono particolarmente bene si leggono nei volti, si vedono nelle persone che sorridono insieme, che tornano a parlarsi, che dialogano rispettandosi. Non è sempre così, certo, ma spesso il cambiamento è tangibile.
Che prospettive ci sono, adesso che lei fa parte di questa commissione, istituita presso il Ministero della Giustizia, quindi una commissione di studio importante, perché questo strumento diventi strumento anche all’interno del processo per gli adulti? C’è molto fermento; le prospettive sono tante; l’importante è non utilizzare questi strumenti nuovi con la mentalità antica, perché se noi abbiamo sempre in mente di rispondere al reato con la pena, "al male con il male", vi è il pericolo di usare la mediazione e la riparazione come delle pene, tradendone la natura di una giustizia che - come afferma il Consiglio d’Europa - aspira a diventare "più costruttiva e meno afflittiva". È importante che si resti saldi e fedeli all’idea che la mediazione e la riparazione delle conseguenze del reato sono un momento dialogico consensuale: qui c’è la forza di questi strumenti. Se mediazione e riparazione diventano delle prescrizioni, dei compiti imposti, una afflizione, si inaridiscono completamente. Quindi credo che lo sforzo più importante sia quello proprio di cambiare la prospettiva per cui, quando viene commesso un reato, non c’è un subire passivamente e in modo sterile una sofferenza, ma ci si deve dare da fare in modo fecondo, propositivo, operoso: si deve, cioè, "intraprendere". è una responsabilità molto seria, faticosa, impegnativa; non è edulcorare la responsabilità, sminuire la gravità e dannosità del fatto criminoso; è piuttosto il commiato definitivo da una logica della sterilità per sposare una logica feconda, appunto, di impegno costruttivo, coinvolgente e motivante.
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