Maria Vittoria Fattori

 

La mediazione penale per i minori

 

(Realizzata nel mese di maggio 2001)

 

A cura di Alessandro Pinti

 

Ce ne parla Maria Vittoria Fattori responsabile del Servizio Tecnico del Centro Giustizia Minorile di Venezia. "Qualsiasi cosa dobbiamo fare per un ragazzo, noi mettiamo in campo tutte le risorse possibili, e lo facciamo per tutti i ragazzi, italiani o stranieri che siano"

 

Ci può parlare della mediazione penale minorile in Veneto?

L’operatore sociale, nella Giustizia Minorile, non può essere considerato "terzo", perché ha in carico l’imputato di un reato. Quindi ci vuole qualcuno di esterno per garantire appunto questa opera di "mettere vicino" chi ha commesso il fatto (o il presunto responsabile) e chi lo ha subito.

Il presupposto, in questo caso di mediazione penale, è però la dichiarazione di responsabilità del minore imputato.

E’ la stessa cosa dell’art. 28 (messa alla prova). A volte gli avvocati dei minori non propongono ai loro clienti, ai genitori e agli stessi ragazzini, la messa alla prova, perché una delle condizioni per l’approvazione del progetto educativo è l’ammissione di colpevolezza. Quando ero educatrice sociale e il ragazzo non si dichiarava colpevole, mi opponevo a questa condizione, e il Procuratore minorile condivideva la posizione del nostro Ufficio, perché è una condizione che non ha senso. Che senso ha costringere un ragazzino ad ammettere delle colpe solo per uscire dal carcere? Spesso poi si scopriva che lui non c’entrava nulla con il reato contestatogli. Anche perché il grosso del problema sono i reati commessi in gruppo, come purtroppo molte volte accade, e i ragazzi sono imputati insieme a dei maggiorenni, e in questo caso c’è sempre la tendenza a dare la colpa al più piccolo, proprio perché si sa che in caso di condanna del minore la pena è estremamente mite rispetto alla eventuale condanna del maggiorenne. Partendo da questo concetto di base, fondamentale direi, cioè che ci deve essere una ragionevole certezza della colpevolezza del minore, si deve affrontare tutto il resto del discorso sulla mediazione penale e messa alla prova del ragazzo.

 

Rispetto al discorso di una forma di mediazione penale tra l’autore del reato e la vittima, si può parlare di una figura di mediatore super partes, distaccata cioè dall’ambiente giudiziario, o invece accade il contrario? Mi faccia capire come funziona.

No, è una figura distaccata. I giudici minorili e i procuratori hanno tra l’altro posizioni estremamente diverse, proprio perché è su questo punto che non si mettono d’accordo. C’è chi dice che la mediazione penale va bene e permette di eliminare il processo, e c’è invece chi dice esattamente il contrario, cioè che il processo si deve celebrare, il ragazzo deve fare il processo comunque, e l’aspetto della mediazione per queste persone è solo di tipo educativo. Come vede i magistrati hanno posizioni molto diverse. Legittime, perché ci sono esperienze diverse. Se noi guardiamo la mediazione penale francese, vediamo che è impostata in un certo modo, l’austriaca in un altro, quella anglosassone ancora diversa.

 

Sono più avanzate, intende dire, forse perché tale istituto è da più tempo applicato al processo minorile?

Secondo me, parlando di pedagogia di soggetti in sviluppo come sono gli adolescenti, è difficile dire chi è più avanzato e chi non lo è. Io per esempio del sistema anglosassone critico tantissime metodologie, perché, se parliamo della semplice informazione rispetto alla sfera affettiva e sessuale, in Inghilterra hanno fatto dei disastri incredibili. Certo è che, se per mediazione intendiamo avere tre soggetti che garantiscono la massima trasparenza, la massima possibilità di dialogo tra chi si presume essere stato l’autore di un reato e chi l’ha subito, parliamo allora di mediazione penale in termini di conciliazione fra le parti, di chi ha scippato la borsetta e di chi è caduto per difenderla.

 

Dai dati a nostra disposizione, nel Veneto pare che non sia stata applicata la mediazione penale, diversamente da quello che succede in altre regioni d’Italia che hanno avuto invece risultati incoraggianti.

Devo dire che per adesso è come dice lei. Noi operiamo comunque con caratteristiche differenziate caso per caso perché, secondo me, e io sono operatore penitenziario da dodici anni, il nostro codice minorile è proprio questo: noi facciamo progetti educativi individualizzati da sempre, proprio perché nessun caso è paragonabile ad un altro. Quindi non c’entra neppure che sia un minore straniero o italiano, perché bisogna vedere e analizzare la sua personalità, da quando ha commesso il reato sino a quando subisce il processo. E’ fondamentale l’applicazione dell’articolo 9 del nostro processo minorile, e in particolare la relazione che fa l’assistente sociale. La fa possibilmente nell’immediatezza del fatto-reato, in modo che se il processo viene celebrato un anno dopo, si possa avere una visione d’insieme della situazione del minore: cosa fa il ragazzo, il rapporto con la sua famiglia, che tipo di intervento si può proporre ecc.

 

Della sua esperienza con i ragazzi dell’Istituto Penale per Minori di Treviso, cosa ci può raccontare?

I ragazzi sono di nazionalità in prevalenza straniera e diciamo che esistono due strutture: un Centro di Accoglienza dove i ragazzi restano al massimo 96 ore, e poi l’Istituto Penale di Treviso, dove sostanzialmente ci sono ragazzi in esecuzione pena, e spesso anche in custodia cautelare.

 

Quali sono i tempi medi di permanenza?

Quattro mesi per le custodie cautelari. In esecuzione pena non abbiamo lunghe permanenze, anche perché appunto sono pochi i casi in esame, i nostri ragazzi infatti usufruiscono subito di misure alternative alla detenzione, e noi lavoriamo appunto con il territorio, tant’è che, interrogata su quali sono le associazioni di volontariato con cui lavoriamo, la direttrice del Centro Sociale ha risposto che praticamente ci voleva l’elenco di tutte le associazioni operanti nel Veneto! E questo perché abbiamo sempre perseguito la "residualità carceraria", il carcere proprio in casi estremi.

 

I minori stranieri sono oggettivamente svantaggiati nell’avere accesso alle misure alternative al carcere, proprio perché privi spesso di una famiglia, di una prospettiva di inserimento scolastico o lavorativo?

Su questo punto, cioè sugli svantaggi oggettivi dei minori stranieri, devo dire che la buona collaborazione che c’è fra l’Istituto Penale Minorile di Treviso e il Servizio Sociale fa in modo che addirittura noi riusciamo ad attivare famiglie affidatarie per ragazzi stranieri. Perché praticamente lavoriamo su protocolli d’intesa ben precisi, che sono degli impegni scritti, a volte con oneri a carico nostro, altre volte a titolo gratuito, che consentono di andare incontro proprio alle specificità di ogni ragazzo. I ragazzi, poi, quando stanno per essere dimessi dall’istituto, innanzitutto hanno il mese di osservazione che gli fa l’équipe del trattamento, per meglio comprendere di che tipo di problematiche sono portatori.

 

La messa alla prova dunque è un istituto giuridico cui possono accedere anche i ragazzi stranieri?

Noi abbiamo dei processi "bellissimi" di messa alla prova. Le racconto un fatto di quando ero educatrice a Trieste, per farle un esempio concreto e pratico di come rispondono i ragazzi: avevamo richiesto di raggruppare tutti i procedimenti a carico di un minore zingaro semi-stanziale di Udine, imputato di una serie di reati non gravi, che però erano, soprattutto se commessi da una ragazzo nomade, di grande allarme sociale. Furti di motorini, oltraggi, piccoli reati insomma. Fu fatto un progetto di messa alla prova di due anni. Attivandoci, considerato che in Friuli Venezia Giulia i nomadi rientrano nelle famiglie cosiddette rurali, abbiamo saputo che l’Ente Regionale di Sviluppo Agricolo prevedeva corsi di formazione agricola permanente, e questo ragazzo fu inserito in un corso di forgiatura equina per diventare alfiere ippico. Lui aveva una passione incredibile per i pony, e alle 4 di mattina si alzava per curare i suoi cavalli perché il nonno era ricoverato in ospedale, alle 8 poi prendeva l’autobus e veniva alla "Casa Immacolata" per partecipare ad un corso di falegnameria, e stava costruendosi dei pali per le tende e un cancelletto per l’ingresso di casa per la sua famiglia. Mangiava insieme a noi, e lei sa cosa significa questo per un ragazzo zingaro. Aveva sedici anni. E poi, finito il corso di forgiatura equina, gli abbiamo fatto fare quello per alfiere ippico, per inserirlo successivamente nel settore dell’agriturismo.

 

Per finire, mi permetta di chiederle ancora una volta una sua opinione sul fatto che i ragazzi stranieri potrebbero in ogni caso avere degli svantaggi trattamentali. È possibile che sia così?

No, nel nostro caso no, anche perché, qualsiasi cosa dobbiamo fare per un ragazzo, mettiamo in campo tutte le risorse possibili, per tutti i ragazzi, italiani e stranieri. Noi operatori della giustizia ci assumiamo tante responsabilità. Torniamo al concetto di prima: l’obbligatorietà dell’azione penale prevede nel codice dei minorenni la presa in carico dei Servizi della Giustizia Minorile, da subito, alla conclusione dell’iter giudiziario. Da quando il ragazzino viene iscritto nel Registro Generale della Procura dei minori, parte la nostra competenza, che si basa sempre sul principio della tutela del minore, sia sotto il profilo psicofisico che della sua salute, e anche di quell’equilibrio psicologico che il ragazzo deve avere e, se non lo ha, deve in qualche modo cercare di raggiungere.

 

 

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