Intervista a Fuori C'entro

 

Una fattoria sociale a Civitavecchia

L’agricoltura bio-sociale della cooperativa Fuori C’entro

Una cooperativa che il concetto di svantaggio lo intende anche come periodo transitorio della vita di un individuo che, per diverse ragioni, si trova in un momento di particolare difficoltà

 

(Realizzata nel mese di settembre 2009)

 

intervista di Alessio Guidotti

 

Il reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti è una parte fondamentale di un più ampio percorso di “reinserimento sociale”, termine con il quale siamo abituati a descrivere quella fase in cui ci si riappropria della vita, con strumenti nuovi, con un modo nuovo di mettersi in gioco e affrontare “gioie e dolori”. Voglio sottolineare il fatto che il lavoro è una parte determinante del reinserimento sociale, ma è appunto “una” parte, non l’unica. Sono, infatti, un insieme di fattori che possono indurci a cambiare quel modo di relazionarsi con la società e con gli altri, che, dentro a storie di vita una diversa dall’altra, ci ha portato a essere privati della libertà.

In questa parte fondamentale del reinserimento sociale, quella che riguarda il lavoro appunto, hanno un ruolo importante le cooperative sociali. Ho avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con Federica Ruzzier responsabile qualità-comunicazione, progettazione, gestione del personale della Cooperativa Fuori C’entro di Civitavecchia. Il nome stesso, Fuori C’entro, lascia intendere la “vocazione” e, perché no, la determinazione di chi, da dentro… fuori vuole entrarci.

La cooperativa Fuori C’entro nasce nel 1996, ma è dal 2000 che ha scelto di dedicarsi all’agricoltura bio-sociale, coniugando l’agricoltura in senso stretto con le attività di inserimento lavorativo finalizzate alla risocializzazione e al recupero di detenuti, ex detenuti, disabili fisici e mentali, tossicodipendenti.

 

Di cosa si occupa la vostra cooperativa?

La coop nasce come tipologia B, cioè il reinserimento di soggetti svantaggiati, oltre che di detenuti ed ex detenuti ci occupiamo anche di svantaggio di tipo psichico. Abbiamo, comunque, una interpretazione più ampia del concetto di svantaggio, inteso cioè anche come periodo transitorio della vita di un individuo che, per diverse ragioni, si trova in un momento di particolare difficoltà.

 

Attraverso quale tipologia di lavoro avviene il reinserimento?

Il nostro ambito di riferimento è l’agricoltura sociale, infatti nel 1996 siamo nati come “Campi verdi”, poi abbiamo cambiato il nome in Fuori C’entro. Le attività principali sono: agricoltura bio-sociale; produzione apiaria (miele e pappa reale; produzione di olio extra-vergine; produzione di piante aromatiche, da orto e fiori stagionali; commercializzazione dei prodotti; grafica pubblicitaria; inserimento lavorativo di persone svantaggiate; servizi di assistenza alla persona.

Queste attività si svolgono esternamente al carcere presso la “fattoria sociale”, la nostra azienda agricola a Monte Romano.

 

Ci spieghi invece qual è la vostra attività all’interno del carcere di Civitavecchia?

Nel 2006, su iniziativa dell’Università di Padova, si avviò un progetto nazionale per la formazione di apicoltori. In pratica si trattava di insegnare a produrre il miele a persone detenute, detto così sembra semplice, ma si tratta di interagire con un mondo fantastico e particolare: quello delle api.

 

Voi avete realizzato un progetto, molto particolare, ad ampio raggio, intendevate cioè non solo affrontare l’aspetto “tecnico” legato al lavoro dell’apicoltura, ma in un certo senso anche utilizzare il “sistema sociale” delle api per fare un riferimento alla vita sociale dell’uomo.

Esatto, innanzitutto il progetto era aperto a detenuti con problemi di dipendenza da stupefacenti, extracomunitari, e prevedeva, oltre la teoria e la pratica dell’apicoltura, anche degli incontri con psicologi ed educatori per riflettere sullo stato di tossicodipendenza. Il sistema sociale delle api, nella sua straordinarietà, ci consentiva e ci consente di essere un pratico esempio per tutti quanti sono coinvolti in questo lavoro. In particolar modo per chi nella vita non è stato abituato a interagire con la collettività, chi ha assunto atteggiamenti individualistici, magari portati all’estremo: a queste persone in particolare proprio le api, con il loro sistema sociale, possono offrire un importante spunto riflessivo: il senso dell’importanza di ognuno per il raggiungimento di un obiettivo comune.

 

Percepisco un tuo forte coinvolgimento, sei una persona che crede in quello che fa. Ma quali sono le difficoltà che hai incontrato e che incontri con il carcere, inteso come sistema fatto di regole ferree, divieti, orari rigidi, e con i detenuti?

Guarda, inizialmente abbiamo avuto le difficoltà che incontra chiunque “entra” nel sistema carcere. Ma è stata una difficoltà che abbiamo voluto superare: quando si concluse il progetto, avevamo tutte le attrezzature, il laboratorio all’interno del carcere. Ci siamo fatti avanti e, consapevoli delle difficoltà, abbiamo chiesto al direttore dell’epoca, dottor Tressanti, di darci la possibilità di proseguire il lavoro. Con il personale penitenziario è stato necessario un periodo di adattamento, ma lo sforzo è stato premiato, oggi infatti è proprio un agente penitenziario uno dei nostri collaboratori più attivi, è un punto di riferimento per i detenuti che iniziano ad avvicinarsi alla nostra realtà, inoltre ci ha aiutato molto a comprendere il sistema carcere, inteso come particolarità specifiche di un’istituzione.

 

I detenuti come si sono mostrati nei confronti dell’iniziativa?

Inizialmente con diffidenza, poi con il tempo aumentavano le domandine per partecipare all’apicoltura, questo ci ha spinto a continuare la strada intrapresa.

 

Ma con i detenuti, quali problemi avete incontrato? E soprattutto che idea ti sei fatta del carcere?

Io penso che il carcere abbia un elemento devastante: il fare niente, questo si va ad aggiungere al fatto che il carcere per come è strutturato “infantilizza” il detenuto, lo abitua a “non fare”. Sembra incredibile, ma è determinante anche il fatto che molte azioni quotidiane siano fatte con tempi dettati da altri e soprattutto non si possono fare senza gli altri, per esempio uscire dalla cella. Tutto questo, con il tempo, crea uno stato psichico che distorce alcuni aspetti fondamentali della persona in relazione alla costruzione di un percorso di vita. Ho notato, per esempio, difficoltà nel mettersi in gioco, cogliere le opportunità, farsi risorsa di se stessi. Tutto questo poi si va a sommare, in molti casi, con vissuti personali dove non c’è stata neanche prima del carcere l’abitudine non tanto al lavoro, quanto al saper affrontare alcune difficoltà, ragionare nell’ottica del “dare/avere”, maturare la consapevolezza che spesso si deve dare tanto per avere poco. Ecco io direi che è questa una delle maggiori difficoltà: abbattere questo muro, abbandonare alcune logiche, perché è di questo che si tratta. Dopo tanti anni di “infantilizzazione da carcere” può succedere di non cogliere le opportunità perché si perde l’allenamento a vedersi protagonisti della propria esistenza.

 

Tu pensi che l’operatore che lavora in carcere deve affrontare anche questo tipo di problemi?

Credo che sia un nostro dovere, per questo motivo vogliamo essere degli “accompagnatori all’esterno”. Ti spiego: può succedere, ed è successo infatti, che un detenuto inizi il suo percorso con noi, si trova bene lui con noi e noi con lui, si appassiona al lavoro agricolo e rimane a lavorare con noi. Un’altra situazione è che il detenuto, contestualmente all’acquisizione di alcuni benefici, lasci la cooperativa e lavori da un’altra parte: questa per noi è una grande soddisfazione, vuol dire che gli abbiamo dato degli strumenti, la possibilità di scegliere, la capacità di rapportarsi a un sistema. Insomma per noi offrire gli strumenti al detenuto per avere la possibilità di collocarsi nel mercato del lavoro è importantissimo, ancor più importante è far si che comprenda il modo migliore per affrontare le difficoltà del mondo del lavoro.

 

La definizione “fattorie sociali” unitamente a “agricoltura sociale e bio-agricoltura” si va sempre più diffondendo nell’ambito del sociale e anche del reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti, puoi spiegarci sinteticamente di cosa si tratta?

Il termine “agricoltura sociale” ancora oggi non ha alcun riferimento normativo/giuridico in Italia, ma indica comunemente il vasto insieme di tutte quelle esperienze che creano sinergia diretta tra agricoltura e inserimento (lavorativo, educativo e/o terapeutico) dei soggetti più vulnerabili della società, esclusi per disabilità fisiche o psichiche o per problematiche relative alla difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro. Si tratta quindi del vasto insieme di attività, esperienze, progetti e percorsi realizzati attraverso attività agricole, di coltivazione, di allevamento o di trasformazione di prodotti agroalimentari, cui partecipano attivamente e direttamente persone afferenti alle fasce deboli della popolazione, tra cui ci sono ovviamente anche le persone detenute ed ex detenute. Oltre il reinserimento al lavoro, l’agricoltura sociale si pone come obiettivo di utilizzare il rapporto con la terra, gli animali, il verde, con finalità ludico-culturale, didattico-formativa, terapeutica ed esperienziale, affiancandosi ed integrandosi con le finalità di produzione.

 

 

Silvio, dopo 13 anni di carcere, è uscito e si è “fermato” alla Cooperativa Fuori C’entro

La cooperativa mi ha accolto, mi ha insegnato a riavvicinarmi al mondo, ad usare il cellulare, a crearmi gli amici, e soprattutto mi ha convinto che non devo più sbagliare, perché “dentro” è brutto e io non ci voglio più tornare. Loro non hanno pregiudizi verso i detenuti, mi hanno accolto come una qualsiasi persona. Essere accettato e non giudicato per me è stato molto importante

 

Silvio, di cosa ti occupi?

All’interno della cooperativa lavoro nel settore agricolo. Per me questo è stato molto importante innanzitutto perché ero già pratico in questo settore, e poi perché la campagna, la semina, gli animali mi danno un senso di libertà, la cura degli stessi mi permette di crescere quasi insieme a loro.

 

Come sei entrato in contatto con Fuori C’entro?

Sono stati gli educatori e la direzione della Casa di reclusione di Civitavecchia che mi hanno proposto l’opportunità di uscire per andare a raccogliere le olive per un periodo inizialmente di 3 mesi. Da allora sono passati quattro anni.

 

Hai finito la condanna? Cosa pensi di fare adesso?

Ho fatto 13 anni di carcere e sono uscito perché ho usufruito dell’indulto. Prima in articolo 21, uscivo dal carcere la mattina, venivo in cooperativa, lavoravo, partecipavo alle varie attività e alla sera ritornavo in carcere. Questo per 2 anni e poi ho finito la condanna.

È successo tutto così, all’improvviso. Ricordo che stavo lavorando, un anno fa circa, e mi chiamano dal carcere e mi dicono: puoi venire a ritirare la tua roba, sei libero. Dacci un recapito abitativo. Ero impreparato a questo, non sapevo che fare: allora ho chiesto alla coop se mi potevo fermare da loro. Hanno detto di sì e sono ancora qui.

 

 

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