Comunità Betania

 

Incontro con Franco Schipani e Gabriella Giani Rotelli,
responsabili della Comunità "Betania"
che si occupa del recupero dei tossicodipendenti

 

(Realizzata nel mese di maggio 2000)

 

Ornella Favero (Coordinatrice di Ristretti Orizzonti): Loro sono due operatori della comunità Betania. Franco è anche un volontario da 15 anni nel carcere di Parma, che è un carcere di cui noi abbiamo narrazioni molto particolari, anche perché abbiamo avuto qui in redazione un detenuto italiano che ha avuto ed ha una grave patologia ed è stato ricoverato all’ospedale reparto bunker di Padova, che è un luogo terrificante, ed è stato successivamente mandato a Parma, al Centro Clinico, dove è stato un disastro, perché non l’hanno affatto curato, tanto è vero che ora è a casa in sospensione pena con un aggravamento tale, quindi ci ha fatto dei racconti rabbrividenti di Parma Centro Clinico

Franco Schipani: Sono 15 anni, quest’anno 16, che entro nel carcere di Parma. Parlavo prima con qualcuno di voi del vecchio carcere, della differenza tra quello vecchio e quello nuovo: anche noi operatori abbiamo trovato delle grosse differenze, delle "barriere" che nel vecchio carcere non esistevano, c’era una maggiore socialità, la carcerazione era pur sempre carcerazione, perché si era ristretti tra quattro mura, ma comunque era una carcerazione vivibile.

Entrando qui prima con Gabriella si parlava proprio di questo e, molto spesso queste cose dipendono dalla direzione, da chi è il direttore, da come si gestisce una struttura carceraria. In questi 15 anni io ho visto il cambio di tre direttori ed ora sta avviandosi anche il quarto: comunque ci sono delle differenze tra persona e persona, una volta le modifiche sono a favore del detenuto e molto più spesso si va sempre verso la restrizione, la limitazione.

Un detenuto, a Parma, passa almeno 20 ore in cella e non è possibile per lui passarne di meno, perché anche i corsi, le riunioni etc., vengono fatti in corrispondenza dell’ora d’aria.

Ornella Favero (Coordinatrice di Ristretti Orizzonti): (Coordinatrice di Ristretti Orizzonti): Questo purtroppo è un male che ce l’hanno in tanti, ho visto anche a San Vittore ove ci hanno mandato un riferimento su questa cosa, infatti, è una di quelle cose su cui dovremo lavorare prossimamente e avanzare delle richieste, tanto è assurdo, anzi credo che dovremo riunirci tanto che è assurda questa concomitanza. Comunque secondo me questo aspetto qui dovrebbe servire per aprire una vertenza in generalizzata; uno che fa un’attività utile ove si dice sempre che le persone non devono stare in branda, e poi di fatto una persona che vada a scuola, che faccia un’attività come questa, piuttosto impegnativa e non retribuita per giunta, dovrebbe avere diritto alle sue ore d’aria.

Ristretti Orizzonti: Anche noi dobbiamo fare delle scelte, perché le lezioni sono in concomitanza con le nostre ore d’aria; oppure andiamo all’aria e non veniamo alle lezioni. Anche noi stiamo venti ore chiusi e le quattro ore che passiamo qui le togliamo al passeggio, dove ci rechiamo alla domenica, quando le attività sono chiuse.

Franco Schipani: Questo è un problema che c’è dappertutto, effettivamente. Ecco, io a Parma faccio un gruppo di risocializzazione per un massimo di 15 persone, non è un gruppo per reclutare i ragazzi che poi vengono nelle comunità ma è mirato soprattutto ad una forma di socializzazione, ad uno scambio, cosa che normalmente non avviene nella struttura carceraria. Qui, per esempio, voi siete riuniti da varie sezioni: normalmente gli incontri all’aria e gli incontri nella saletta avvengono nella sezione per sezione, quindi già l’avere uno scambio con persone di più sezioni è una cosa notevole, ma non soltanto per la curiosità di sapere come si sta da una parte e come si sta dall’altra, bensì per un interscambio, perché c’è il bisogno di parlare.

Nel gruppo di socializzazione si prendono dei temi precisi e li si sviluppa, magari uno esprime la propria opinione, ma se in quel momento il gruppo viene interrotto, ad esempio perché arriva l’agente a chiamare qualcuno, si perde il significato, bisogna ricominciare da capo e non c’è il tempo di farlo: l’orario che ho è dalle nove alle undici, ma comincio regolarmente alle 9.30 e alle undici meno venti ho già l’agente, lì all’oblò, che bussa per avvisarmi che il tempo è concluso. Grosso modo un’oretta di incontro, ma ben venga quell’oretta lì, che è significativa e importante. Discutiamo sui temi d’attualità, a volte entro con il giornale, si sceglie l’articolo e si discute su quell’articolo.

Sono entrato in carcere nell’anno 1986, come comunità Betania, con l’ipotesi di fare all’interno della struttura carceraria una Sezione dove affrontare un percorso rieducativo comunitario, pur non essendo in comunità e pur continuando la carcerazione. Era un progetto che prevedeva di entrare all’interno della struttura carceraria come educatori e, insieme a noi, ci sarebbero dovuti essere anche degli agenti – educatori, perché in quel momento l’agente smetteva il suo ruolo e diveniva educatore, facendo dei corsi di qualificazione. Però, ogni volta, questo progetto veniva rimandato a data da destinarsi, fino ad arrivare a quello che sto facendo, un gruppo di socializzazione, l’unica cosa che ci hanno permesso di fare.

Sono entrato come comunità Betania, poi cammin facendo ho fatto la richiesta per entrarci a titolo personale come volontario: è chiaro che nell’incontro con i gruppi il discorso cade sempre sulla comunità. Ho avuto, all’interno di questi gruppi, degli individui che erano scettici sul discorso della comunità, anche giustamente però io dico sempre che, oltre alla comunità, sono lì per parlare e vi sono persone che hanno anche cambiato il giudizio negativo sulle comunità, tanto da accettare la comunità come strumento e non come una seconda carcerazione.

Molto spesso mi chiedono come si sta in comunità, cosa fanno i ragazzi all’interno di essa, e già questo è uno scambio di opinioni, poi si può andare a parlare anche dei percorsi che si possono affrontare, ma questo dipende dalla volontà dei singoli, se qualcuno mi vuole fare delle domande io rispondo.

Ad esempio, ultimamente si parla del progetto di riattivazione della Casa di lavoro di Castelfranco Emilia, nel quale è coinvolta la comunità S. Patrignano: è un argomento che affrontiamo, indipendentemente dal discorso sulla comunità.

Poi faccio degli incontri individuali, sezione per sezione: chiamo chi mi ha mandato qualche messaggio o chi è stato arrestato da poco e quindi ha bisogno di un sostegno.

Ristretti Orizzonti: Lavorate in collaborazione il Ser.T. e che rapporti avete con loro?

Franco Schipani: La collaborazione con il Ser.T. è iniziata proprio con il lavoro in carcere: il Ser.T. di Parma ha istituito "un’equipe carcere", di cui fanno parte operatori del Ser.T., (quindi del settore pubblico) e operatori del settore privato, in questo caso la Comunità Betania. Come Comunità Betania, io faccio parte dell’equipe carcere, nel cui ambito mi occupo di persone tossicodipendenti che chiedono di entrare (con l’affidamento, o con gli arresti domiciliari) in strutture esterne, quindi di fare un certo percorso.

Se la cosa viene segnalata direttamente a me, io la segnalo successivamente al Ser.T. e il loro medico fa un colloquio con il detenuto e verifica gli elementi che ci sono per portare avanti un determinato percorso e da lì si comincia ad inserire il ragazzo. La conoscenza avviene preferibilmente attraverso l’esperienza del gruppo di socializzazione, che dura un mese - un mese e mezzo, nel frattempo se si è avviata una pratica di affidamento o per gli arresti domiciliari, si prosegue con l’eventuale inserimento in una struttura esterna, che non è necessariamente la Comunità Betania, perché non vado a fare promozione per la Comunità Betania, vado a proporre un percorso di recupero, di reinserimento.

Ristretti Orizzonti: Com’è la vostra comunità, quali sono le modalità terapeutiche che utilizzate?

Franco Schipani: La comunità è uno strumento e come tale va utilizzata, non c’è la comunità buona e quella cattiva. Molto spesso ci si aspetta "qualcosa" dalla comunità, ma io dico sempre che quando uno decide di fare un certo percorso, in qualsiasi comunità, è pur sempre un percorso che si è scelto. Anche se l’alternativa al carcere appare una scelta un po’ forzata è comunque una scelta, perché vi assicuro che conosco persone che scelgono di continuare a fare la carcerazione e ce ne sono tante, quindi veramente di una scelta libera si tratta.

Io dico loro: "Ti do il sostegno, vengo una volta, due volte, quando c’è bisogno; se vuoi scambiare due chiacchiere, se vuoi affrontare degli argomenti, io ci sono, però sappi che queste cose tu potresti farle benissimo anche in una struttura, quindi se desideri affrontare questo percorso puoi anche farlo…"

È chiaro che la cosa che limita molto la scelta della struttura sono le regole. A volte quelli che decidono per la carcerazione mi dicono: "Noi non siamo abituati alle regole…" …le regole. In carcere ci sono le porte, ci sono le sbarre che ti costringono comunque ad utilizzare queste cosiddette regole; in una comunità, dove tu apri la porta e stai in mezzo ad un giardino, dove tu apri le finestre e non hai le sbarre, hai la porta ed hai l’autobus che passa lì vicino, sulla strada, e puoi prenderlo perché nessuno sta lì a dirti "guarda che non puoi andare via", serve una resistenza maggiore.

Lì c’è veramente la scelta di dire: "ho deciso di restare qui", oppure "ho deciso di andare via". Allora, io dico sempre, piuttosto che decidere da solo di andare via, vieni, ne parliamo, poi se proprio decidi di andare via, vai via. Ma questo avviene non solo con le persone detenute, avviene anche con le persone che non hanno nessuna forma di restrizione e avviene anche molto di più con loro.

Poi ci sono anche esempi di detenuti che decidono di ritornare in carcere, perché non se la sentono di affrontare le regole di cui abbiamo detto, che poi non sono altro che regole di vita, come quella di alzarsi al mattino, alle sette e un quarto, lavarsi, aggiustare la propria camera, scendere giù a fare colazione e alle otto iniziare a lavorare.

Tu non puoi stare a letto fino alle otto e mezza, perché non è giusto, non è corretto e non è educativo; la regola può essere quella di non fumare in determinati ambienti, o di fumare quindici sigarette, e se puoi di fumarne meno. Poi c’è l’orario per mangiare, però diciamo bene le cose: una famiglia che si rispetti ha orari per mangiare, ha orari per dormire, ha orari per divertirsi; se a tua moglie dà fastidio il fumo, non credo le fumerai davanti, avrai un certo riguardo e andrai a fumare sul balcone, anche se fuori c’è un mezzo metro di neve…

Ristretti Orizzonti: Il rifiuto ad entrare in comunità viene più spesso da chi non ha avuto mai contatti con le comunità o viene da chi ha già provato questa esperienza e la reputa negativa?

Franco Schipani: A volte il rifiuto viene da persone che hanno già fatto il percorso, i cosiddetti "storici", che comunque hanno alle spalle dei fallimenti: chiamiamoli "fallimenti", però poi ci rendiamo conto che effettivamente dei fallimenti non sono.

Il fallimento, secondo il mio modesto parere, non esiste, perché comunque un’esperienza c’è stata, poi è chiaro che un’esperienza può andare a finire bene o viceversa, ma è comunque un’esperienza.

Ristretti Orizzonti: Dal punto di vista organizzativo, come siete strutturati?

Franco Schipani: Attualmente la nostra comunità è divisa in cinque sedi, per un totale di circa sessanta persone. A parte la Casa madre, dove c’è il Centro Studi e vi sono anche vari laboratori, le altre Case sono piccoli nuclei, perché con poche persone si riesce a comunicare in modo diverso.

Il percorso dura mediamente un anno e mezzo, nel quale "fasi" vere e proprie non esistono, cioè non esiste un periodo specifico per tutti; noi abbiamo dei ragazzi che sono entrati e, anziché un anno e mezzo, dopo soli otto o nove mesi hanno iniziato ad inserirsi in un lavoro esterno, è una cosa soggettiva, dipende da come uno si forma.

Se uno ha solo l’idea di far passare gli anni di galera e basta, allora è molto brutto, è molto noioso, è un tempo lunghissimo e, ogni giorno, quella persona non fa altro che pensare alla gabbola da tirare fuori per vivere meglio, cerca i sotterfugi per vivacchiare e basta, ma non per costruirsi un futuro.

Se uno fa la scelta di entrare in comunità, io dico che gli conviene vivere la comunità, in tutto quello che la comunità ti offre e, se c’è qualcosa che non condivide (perlomeno della nostra, non delle comunità del pugno di ferro), ne discutiamo. Tra operatori e volontari la Comunità Betania dispone di 36 persone, con 64 utenti, quindi sono seguiti costantemente.

Ristretti Orizzonti: Avete un sistema terapeutico che prevede la somministrazione di metadone o di altri farmaci sostitutivi?

Franco Schipani: Un tempo noi andavamo ad aspirine, ora naturalmente con l’apporto di nuovi farmaci, del metadone, ci siamo adeguati e sosteniamo le persone anche in quel senso, l’unica differenza è che non andiamo giornalmente al Ser.T. a prendere il metadone, perché abbiamo l’affido dal Ser.T. quindi dal servizio pubblico.

Ristretti Orizzonti: A parte la fase nella quale il sostegno con farmaci sostitutivi è indispensabile, poi cercate di condurre le persone a non essere più dipendenti, oppure accettate anche chi continua nell’uso di sostanze? Questo è l’aspetto più controverso dei percorsi in comunità, mi pare…

Franco Schipani: Io provengo da un’esperienza di due anni e mezzo come direttore in un centro di recupero per tossicodipendenti il "CART", che era un Centro di prima di prima accoglienza, dove si dava la disponibilità immediata alle persone e quindi non c’era bisogno di fare un particolare colloquio prima di entrare. Una persona veniva, chiedeva a noi o al Ser.T. di fare un percorso di tre mesi, e si faceva una forma di disintossicazione e di osservazione per poi avere delle indicazioni sul percorso da seguire.

E questo è stato accettato molto bene dal popolo tossicodipendente, perché si trattava di soli tre mesi, con un "programma - non programma", perché non si portava a compimento un percorso, non si arrivava alla fine, quando uno è già bello che tranquillo esce con la sua valigetta, capace di fare chissà cosa. No, lì passava soltanto un primo periodo di disintossicazione, di un mese o un mese e mezzo, per scalare tutti i farmaci ed un altro mese di osservazione, dove doveva avvenire l’individuazione del percorso successivo, quindi l’invio in un’altra struttura, se era il caso, oppure l’affidamento ad un servizio territoriale, cioè al Ser.T.

Ora il progetto è terminato, prima di tutto perché è finita la convenzione con il servizio pubblico e, secondariamente, perché aveva dei costi esagerati. La convenzione prevedeva un appalto di 400 milioni all’anno e noi ne abbiamo spesi un centinaio di più ogni anno, di tasca nostra; i 400 milioni servivano quasi esclusivamente per il personale e per le piccole cose di quotidianità, la presa in carico delle persone era totalmente fuori.

Ristretti Orizzonti: Non avete pensato di far lavorare i vostri utenti, in modo che si mantenessero da soli?

Franco Schipani: Vi erano, all’interno del progetto, alcuni lavori, però non erano mirati a un recupero di denaro, erano piccole opere teatrali, piccoli giornaletti, perché in tre mesi non si può realizzare che questo. Alla Comunità Betania invece ci sono altre attività, ci sono laboratori veri e propri: falegnameria, officina, serre, la campagna, gli animali, abbiamo tre sedi per i laboratori di restauro. Ma comunità non è una comunità lavorativa, dove si guadagnano dei soldi o dove si ha un’entrata dal lavoro che si fa, Betania è una comunità terapeutica, quindi l’alzarsi alla mattina e iniziare a lavorare serve per dare l’abitudine al lavoro.

Voi sapete molto bene che la persona tossicodipendente, molto spesso, non è abituata al lavoro o, comunque, è abituata a vivere alla notte e dormire durante il giorno, quindi questo la porta proprio ad una non abitudine al lavoro. All’interno della comunità cominciamo a ricreare questa abitudine: alzarsi alle otto, recarsi al lavoro, che può essere laboratorio, restauro, officina meccanica, laboratorio elettrico, la cucina, che è comunque un laboratorio ed occorre per prepararsi da mangiare… anche il fare le pulizie è un laboratorio.

Abituarsi a rispettare gli orari, anche perché, quando uno poi comincerà ad andare a lavorare fuori, comincerà ad avere i battibecchi con il datore di lavoro perché si assenterà troppo per andare a fumare le sigarette e interrompe il lavoro, allora dopo alcune volte il datore di lavoro gli dirà: "Oggi ti pago un’ora in meno, perché ti sei assentato troppo e non hai svolto il tuo lavoro correttamente ed hai speso quell’ora per andare su e giù per i tuoi comodi…"

Ristretti Orizzonti: Cosa impedisce alla Comunità Betania di attivare dei lavori veri e propri, che non servano solo ad addestrarsi ma diano anche un mestiere e un riconoscimento professionale?

Franco Schipani: È una cosa che già avviene, Betania non è una comunità lavorativa, cioè il lavoro non è l’elemento essenziale del recupero, ma è una componente del recupero. Quindi a nessuno viene impedito di apprendere seriamente un lavoro: Molti hanno imparato il restauro dei mobili, molti hanno imparato l’attività di meccanico, un ragazzo ha imparato a fare l’elettricista e, quando è uscito, ha aperto una ditta assieme ad altre persone provenienti dalla comunità. Nessuno impedisce questo, però è chiaro che dipende sempre dalle scelte che si fanno.

Ristretti Orizzonti: Il fatto è che quando esce dal carcere non ha nessun mezzo di sostentamento; cosa fate alla Comunità Betania per risolvere questo problema?

Franco Schipani: Noi diciamo sempre che il percorso è terminato nel momento in cui una persona ha un lavoro all’esterno, una casa per poter andare e, comunque, ha delle fonti di sostentamento. È chiaro, quindi (anche se non mi piace parlare di fasi), che vi sono comunque delle fasi progressive nella comunità che ti portano all’ultimo periodo, che è quello più difficile, quello del reinserimento. Ci sono molte comunità che fanno un certo periodo terapeutico e, quando è finito, ti dicono "arrivederci e grazie". Poi, ce ne sono tante altre che ti dicono: "Il percorso terapeutico è finito, ora devi intraprendere un percorso di reinserimento esterno, ti rimbocchi le maniche e ti dai una mossa, noi ti diamo la possibilità, se abbiamo le conoscenze, di mandarti a fare dei colloqui di lavoro".

Abbiamo delle aziende, a Parma, che effettivamente danno questo tipo di possibilità, ce ne sono purtroppo tante altre che sono state bruciate, perché ci sono state persone che uscivano e non si sono comportate bene, facendo casini e dai dai... ritornavano a farsi, a combinare casini e allora, ad un certo punto, queste ditte ci hanno detto: "Non mandatecene più di queste persone":

Ristretti Orizzonti: Avete fatto delle esperienze anche con donne tossicodipendenti? Perché spesso queste ragazze hanno alle spalle storie perfino peggiori della droga, ad esempio la prostituzione, e forse per loro la tossicodipendenza non è il problema più grave...

Franco Schipani: Nel CART, c’erano sia le donne che gli uomini e molti operatori hanno sentito questa disorganizzazione, perché la realtà che si viveva era comunque diversa da maschio e femmina, con problematiche concrete, quotidiane, diverse tra loro.

Se una ragazza si è trovata a vivere tante esperienze brutte, allora bisogna decidere qual è il suo problema principale. Se è il problema principale è la tossicodipendenza, lo si affronta per primo e tutti gli altri sono collaterali; se invece il suo è un problema relazionale ed è proprio questo problema di relazione che l’ha portata ad essere tossicodipendente, allora si prende in considerazione il complesso del suo sistema relazionale e l’insieme di queste cose ci permette di individuare il percorso che c’è da fare con lei.

Ma per poter fare questo non basta vedere la persona un’ora alla settimana da dietro una scrivania, occorre viverci nel quotidiano, vedendo come affronta la giornata, come si alza al mattino, come va a letto alla sera, come sta insieme agli altri, come fuma la sigaretta, ecco la nostra mansione deve essere questa.

Ristretti Orizzonti: Secondo una recente statistica solo due persone su dieci, tra quelle che escono dalle comunità, riescono a integrarsi, mentre gli altri tornano ad avere problemi di droga. Voi avete delle statistiche sui risultati che ottenete alla Comunità Betania?

Franco Schipani: Non sono abituato a dare dei numeri, perché non mi piace; la mia esperienza è che ci sono persone che riescono e persone che non riescono a reinserirsi. Ci sono persone che fanno delle scelte e, viceversa, altre che non ne fanno e non si assumono delle responsabilità. Noi offriamo un servizio, che è quello di seguire una persona fino al termine del percorso comunitario, comprendendo anche una fase di lavoro esterno. Se i nostri utenti ne prendono atto e ottimizzano l’uso di questo servizio non dipende più da noi, ma abbiamo visto che finché il ragazzo è in una struttura della comunità, oppure è fuori della comunità però è in contatto con gli operatori, è più tutelato dal rischio di ricadute.

Ristretti Orizzonti: Nella vostra comunità avere anche degli stranieri?

Franco Schipani:  Ne abbiamo avuti e non abbiamo problemi ad accoglierli, sempre che siano residenti e il Ser.T. ce li mandi: non possiamo prendere delle persone, così, per l’aria che tira, e parlo anche di persone italiane. Cioè, se una persona viene da noi e ci manifesta il suo bisogno di fare un percorso comunitario, noi dobbiamo dirle: "Vai al tuo Ser.T., digli che hai già preso contatto con una comunità e chiedigli di essere affidato a questa comunità". Il passaggio avviene necessariamente attraverso il Ser.T., anche per gli italiani, quindi a maggiore ragione per gli extracomunitari.

Gabriella Giani Rotelli: Vorrei dire anch’io alcune cose, cominciando dalle iniziative sulla riduzione del danno. Una prima iniziativa, già partita, si chiama "Strada e dintorni" ed è fatta in collaborazione con l’Associazione "Orizzonte" e con il Ser.T.: l’Associazione "Orizzonte" gestisce il giorno e la Comunità Betania gestisce la notte. Questa Associazione ha un punto di raccolta, dove si stabilisce il contatto con le persone che poi saranno mandate a passare la notte nella struttura di Priorate, (un’altra sede nostra): c’è un pulmino che porta le persone dal soggiorno diurno, presso l’Associazione "Orizzonte", a questo soggiorno notturno, dove ci sono i nostri operatori.

Lì possono lavarsi, fare la cena e avere un minimo di socializzazione, che può essere la televisione, per concludere la sera, poi dormono e la mattina torna questo pulmino che li riaccompagna al sito dell’Orizzonte.

Anche lì ci sono delle regole da rispettare, tra cui quella fondamentale è che non ci si può "fare" in quella struttura. Accogliamo persone che vengono direttamente dalla strada, chiedono personalmente di essere e scelgono di attenersi a queste regole. Non so se all’Associazione "Orizzonte" facciano un minimo di intervento sociale, hanno un medico… la nostra struttura è piccolissima e per questo dobbiamo fare una scelta sulle persone da ospitare: ci sono soltanto quattro posti letto, quindi la scelta è obbligatoria.

L’altra iniziativa di riduzione del danno, invece, deve ancora partire: sempre a Priorato dovrebbe presto aprire un’altra sede, una piccola comunità a "bassa soglia" sostenuta interamente da Betania e questa è un’idea che abbiamo da tanto tempo ma solo adesso siamo arrivati a farla.

Ristretti Orizzonti: Che tipo di lavoro fate al Centro Studi della Comunità Betania?

Gabriella Giani Rotelli: Al Centro studi abbiamo un unico computer e ci sono soltanto io, non si è mai realmente costituita una redazione, e il problema è soprattutto che non rappresenta un ambito di lavoro per i ragazzi. Questo accade perché i nostri utenti rimangono poco nella sede centrale della comunità, solo nel primissimo periodo del percorso comunitario e poi tornano quando sono prossimi al reinserimento, mentre un Centro studi necessiterebbe di personale stabile.

Così proseguiamo senza tante strategie, con quello che io riesco a fare: le rassegne stampe; se viene lo studente che deve fare una tesi tiro fuori dei materiali; facciamo un corso per operatori di base, che è alla diciassettesima edizione; curo poi principalmente le edizioni del nostro giornale.

Poi vengono fatti dei corsi di scuola media, ogni anno, per quei ragazzi che non hanno il diploma: vi sono delle insegnanti volontarie che li preparano e poi loro si presentano agli esami come privatisti. Mi occupo anche dei convegni che vengono fatti presso di noi, o che organizziamo noi, e curo gli atti di questi convegni: più o meno il lavoro del Centro studi è questo, non è moltissimo…

Ristretti Orizzonti: Il vostro giornale a chi lo inviate?

Gabriella Giani Rotelli: Abbiamo tremila abbonati, che sono in pratica tutte le persone che sono venute in contatto con Betania: a partire dalle famiglie dei ragazzi accolti, a persone che per vari motivi ci hanno conosciuto, a scolaresche che sono venute a visitarci, alle Associazioni ed ai privati che ci danno un aiuto economico.

Ristretti Orizzonti: Che tipo di rapporto avete un rapporto con le famiglie dei vostri utenti?

Franco Schipani: Il rapporto con le famiglie è una cosa che noi privilegiamo ed anche in questo ambito ci sono delle regole da chiarire. Se una persona viene a fare un percorso comunitario per i primi sei mesi non deve entrare in contatto con nessuno: è una cosa difficile da comprendere, lo capisco.

Poi, in realtà, non avviene questa separazione totale, perché una volta al mese c’è l’incontro con i famigliari per tutta una giornata. Vi sono famigliari che si muovono da Napoli, altri da Roma o da Milano, vengono normalmente il sabato, che è il giorno più libero da impegni di lavoro.

I famigliari, da soli, al mattino hanno l’incontro con lo psicologo, mentre al pomeriggio l’incontro è con il responsabile della struttura e con i ragazzi. Quindi la regola dei sei mesi è un’utopia, comunque noi chiediamo sempre un periodo di tranquillità, di serenità, di allontanamento da tutti i problemi esterni, per concentrarsi il più possibile sulle proprie problematiche, evitando quindi di avere degli input perché la mamma sta male, perché la sorella sta partorendo…

Una cosa del genere è difficilmente comprensibile perché si pensa che la famiglia dovrebbe dare un sostegno ulteriore, ma gli incontri mensili che si fanno con i famigliari sono proprio incentrati a questo ulteriore sostegno.

Il fatto è che la persona accolta in comunità segue un percorso mentre se, dall’altra parte, i famigliari non fanno un loro percorso, quando il figlio ritorna a casa i genitori sono fermi a quello che lui era prima di entrare in comunità, quindi non sono preparati a supportare il suo reinserimento.

Gli incontri servono a questo, a cercare di fare un discorso in parallelo con il ragazzo. Io non sono abituato a dare delle colpe a nessuno, perché quando uno diventa tossicodipendente è perché ha scelto di diventarlo, come chi ha scelto di andare a fare una rapina ha proprio scelto di andarla a fare e poi si prende il bene e si prende il male che ne deriva. Poi, attorno a tutte queste cose, ci possono essere altre problematiche di risonanza, di ampliamento, quindi ci può essere anche un disturbo famigliare, un disturbo relazionale, una crisi di coppia, ci può essere qualsiasi cosa, però è un qualcosa che viene abbinato a quella scelta che lui ha fatto, non è una sola causa ma sono un insieme di cause che hanno contribuito a fargli prendere il "patentino" di tossico.

Ristretti Orizzonti: Come avvengono i rapporti nella comunità tra i ragazzi e le ragazze?

Franco Schipani: Betania è una Comunità maschile, mentre al CART abbiamo avuto anche delle ragazze e devo dire che molto spesso le ragazze tossicodipendenti utilizzano l’approccio amoroso per un loro bisogno personale, come un surrogato della sostanza. Sono capitate delle relazioni, però in modo molto soft.

Ristretti Orizzonti: Un’ultima cosa, avete mai dovuto cacciare qualcuno dalla vostra comunità?

Franco Schipani: Sì, l’abbiamo dovuto fare, anche se non siamo così drastici da allontanare qualcuno solo perché ha mancato ad una regola… ma uno che non segue un programma e torna a "farsi" lo mandiamo via.

 

 

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