Incontro con Monica Vitali

 

Il diritto del lavoro e il carcere

non sono due entità così separate

 

(Realizzata nel mese di giugno 2003)

 

A cura della Redazione

 

Con Monica Vitali, Giudice del lavoro, abbiamo discusso di tutela dei diritti dei detenuti-lavoratori

  

Monica Vitali, Giudice del lavoro, l’abbiamo "conosciuta" prima di tutto attraverso il suo libro, "Il lavoro penitenziario", che per noi è una fonte continua di informazioni, quando non riusciamo a districarci in qualche complessa questione che riguarda la tutela dei diritti dei detenuti. Poi è venuta nella nostra redazione, e ha risposto direttamente alle nostre domande.

 

Monica Vitali, così come si è presentata alla redazione

 

Ho fatto il Magistrato di Sorveglianza a Milano per sette anni, appena entrata in vigore la legge "Gozzini". Nel dicembre del ‘92 ho lasciato l’Ufficio di Sorveglianza e sono andata a fare il Giudice del lavoro, ruolo più consono alla mia formazione, perché le mie basi sono civiliste, essendomi laureata in Diritto processuale civile; ora sono più di 10 anni che ricopro questo ruolo. Ma c’è stato un periodo in cui, colta probabilmente da un pizzico di follia, mi sono dedicata anche al volontariato a San Vittore, all’interno di un progetto chiamato "Ekotonos". In particolare il mio apporto, essendo fresca di esperienza come Magistrato di Sorveglianza, era fare delle lezioni a donne e tossicodipendenti, due tipologie di detenuti particolarmente bisognose d’informazione, all’interno di un corso che si chiamava "Uso della città", in cui era previsto che intervenissero esperti di vari settori, politica del lavoro, tossicodipendenza, Diritto penitenziario.

Facendo il Giudice del lavoro, mi è venuta un’altra idea, in collaborazione con Agesol, che è l’Agenzia di Solidarietà per il Lavoro che ha realizzato una serie di iniziative nelle realtà carcerarie milanesi: ho praticamente messo insieme le due cose, quello che faccio adesso con quello che fondamentalmente non ho mai smesso di fare. In questi anni, infatti, ho visto molte prigioni, non più italiane, ma in giro per l’Europa, e ho notato che nessuno si è mai preso la briga di mettere insieme il Diritto del lavoro ed il Diritto penitenziario. Forse perché di solito chi si occupa di Diritto penitenziario sono i penalisti, che ragionano in termini penali e non da giudici civili o da studiosi del Diritto civile. Io, avendo avuto questo strano percorso professionale, con radici da civilista ed esperienza professionale nella Magistratura di Sorveglianza, ritornando poi come giudice al settore civile ed in particolare al Diritto del lavoro, ritengo che in realtà il Diritto del lavoro e il carcere non sono due entità così separate. Vengono separate, ma non lo dovrebbero essere se si tiene conto dei principi cardine del nostro ordinamento. Basta leggere l’articolo 27 della Costituzione, che viene richiamato a proposito della funzione di reinserimento della pena, dimenticando che il reinserimento ha dei passaggi, secondo me focali, e uno di questi è il lavoro.

 

Bisogna capire che cosa uno si aspetta dal lavoro penitenziario

 

Francesco Morelli (Ristretti Orizzonti): Ma qual è l’idea di base del suo libro?

 

Monica Vitali: Quella che vorrei far passare come idea di base è che bisogna capire che cosa uno si aspetta dal lavoro penitenziario, chiarendo prima di tutto se ci si attende che il lavoro funzioni come modo per passare le ore, come riempitivo del tempo del carcere, che, per carità può andare anche bene, perché si imparano regole, meccanismi, rispetto di orari, o se, invece, ci si pone il problema del lavoro inteso come rieducazione, reinserimento, e allora bisogna dare ad esso un significato poi spendibile all’esterno, farlo diventare un’occasione in più, questo secondo me è il primo nodo che va sciolto.

Parlando poi da Giudice del lavoro, devo dire che il rispetto dei diritti non è un’esperienza così normale nell’ambito del mondo del lavoro; il fatto che ci sia un contenzioso enorme in materia di lavoro significa che ci sono moltissime persone che ritengono di essere state lese nei loro diritti e per questa ragione si rivolgono al giudice. Chi parte dal punto di vista del penalista ha in mente essenzialmente come unico valore la tutela della collettività nei confronti di coloro che hanno commesso dei reati, mentre i civilisti hanno un approccio completamente diverso: il diritto non serve solo a tutelare la società da chi commette un reato, ma anche a tutelare gli individui che fanno parte della società dalla violazione dei loro diritti ad opera di altri individui o ad opera dello Stato. Questo cambiamento di approccio sembra banale, ma è rivoluzionario: se si prende in mano il tema del lavoro penitenziario dal punto di vista della sicurezza e della custodia, è un discorso, se lo si prende dal punto di vista della tutela dei diritti si rovescia la prospettiva.

In realtà, la prospettiva della tutela dei diritti era inizialmente quella attribuita al Magistrato di Sorveglianza, che in origine era nato proprio come un giudice con funzioni di garante dei diritti dei detenuti.

 

Il difensore civico per le carceri nasce proprio dalla considerazione che la Magistratura di Sorveglianza non è riuscita ad assolvere il suo compito

 

Francesco Morelli: Mi sembra che su questo sia intervenuto spesso Alessandro Margara.

 

Monica Vitali: Esatto, anche perché lui è stato uno dei "padri" della riforma e di noi Giudici di Sorveglianza giovani all’epoca dell’entrata in vigore della Gozzini. Questa era originariamente la funzione della Magistratura di Sorveglianza, e se voi andate a scorrere le norme sull’Ordinamento Penitenziario, vedrete che in realtà non ci sono solo le misure alternative nell’elenco dei compiti di questo giudice, ma c’è anche la sorveglianza dell’esecuzione delle pene, perché l’altra parte delle funzioni del Giudice di Sorveglianza è quella di andare a controllare se tutti i diritti che sono riconosciuti nella legge e dettagliati nel regolamento sono correttamente applicati verso i detenuti; se non è così, allora interviene lo strumento del reclamo. I reclami al Magistrato di Sorveglianza servono a questo, al controllo sul corretto esercizio di quei poteri che nella vita quotidiana interna incidono sulla soglia di diritti che sono riconosciuti ai detenuti in quanto tali. Il progetto di legge che è stato presentato recentemente sul difensore civico per le carceri nasce proprio dalla considerazione che, dal punto di vista della tutela dei diritti all’interno del carcere, la Magistratura di Sorveglianza non è riuscita ad assolvere o, meglio, non riesce più ad assolvere il suo compito.

Tornando al mio discorso originario, se si parte dal punto di vista che i detenuti che lavorano sono dei lavoratori a tutti gli effetti, allora si tratta, da una parte, di prendere in mano i diritti dei lavoratori e, dall’altra, di prendere in mano l’Ordinamento Penitenziario, metterli insieme e vedere cosa succede.

 

Il detenuto è anche un soggetto di diritti

 

Sandro Calderoni (Ristretti Orizzonti): Ma sono due cose che si contrappongono.

 

Monica Vitali: Sì, per forza, perché comunque in un rapporto di lavoro comune i due soggetti sono liberi, mentre nel lavoro penitenziario può capitare che un soggetto sia la stessa Amministrazione Penitenziaria, che già di per sé è un’anomalia, oppure, nel caso che il soggetto datore di lavoro sia una qualunque società o cooperativa, sempre il lavoratore è anche un detenuto e deve sottostare anche alle regole interne del carcere, che a volte entrano in contraddizione con quelle del lavoro. Però, più che una contraddizione, secondo me, vi è un problema culturale, che implica uno sforzo da parte di chi applica queste norme, nel senso di pensare che il detenuto è anche un soggetto di diritti, in quanto lavoratore, e vedere quali sono i diritti, riconosciuti ai lavoratori, che possono essere riconosciuti senza difficoltà anche all’interno del carcere.

 

Francesco Morelli: Lei ha parlato di approccio di tipo culturale, ma mentre due soggetti liberi vanno al dibattimento, perché una delle parti si ritiene danneggiata nei suoi diritti, e ambedue le parti sono rappresentate, in una controversia di lavoro mossa da noi detenuti, abbiamo solo il reclamo al Magistrato di Sorveglianza, e non possiamo partecipare come parte al momento decisionale, nemmeno, mi sembra, nei confronti dell’Amministrazione Penitenziaria.

 

Monica Vitali: Ma è perché scegliete lo strumento sbagliato, usate il reclamo, invece della causa ordinaria di lavoro. Questo è un punto fondamentale, nel quale vorrei distinguere i due casi: uno riguarda il rapporto di lavoro con l’Amministrazione, per cui lo strumento è il reclamo; l’altro è la situazione di chi lavora per una cooperativa o per una società; se ha da lamentarsi verso il suo datore di lavoro deve intentare la causa non davanti ad un Magistrato di Sorveglianza, bensì davanti al Giudice del lavoro del Tribunale in cui è detenuto.

 

Bisogna rompere in qualche modo le acque stagnanti

 

Francesco Morelli: Bisogna dire però che questa possibilità è poco conosciuta, e la vedo anche poco realizzabile.

 

Monica Vitali: E’ realizzabilissima invece! Se qualcuno di voi facesse una causa di lavoro potrebbe benissimo chiedere di partecipare al suo processo di lavoro, esattamente come ad un processo penale. In realtà, la difficoltà potrebbe essere collegata alla necessità della difesa tecnica, che in un processo civile è fondamentale. Bisogna però ricordare che il gratuito patrocinio è stato recentemente introdotto anche per le cause civili.

Voi dovete tenere presente che bisogna rompere in qualche modo le acque stagnanti, e se nessuno fa cause non è possibile farlo. A Milano abbiamo avuto ricorsi di lavoro fatti dai detenuti semiliberi che lavoravano per delle società e naturalmente non c’era nessuna differenza rispetto alla posizione di un lavoratore libero. Semmai, il vero problema è di andare a verificare se il contrasto è tra lavoratore e datore di lavoro oppure si tratta di una conseguenza dell’interferenza della situazione penale sul rapporto di lavoro.

 

Non dimentichiamoci mai che l’ammissione alle misure alternative è fatta sulla basedi un giudizio prognostico

 

Francesco Morelli: A questo riguardo, proprio nel suo intervento al convegno di Padova sul lavoro, lei ha parlato dei cosiddetti lavori atipici, e neanche a farlo apposta, nei giorni scorsi è venuta fuori la questione di una cooperativa, che aveva tre posti di lavoro a termine, ed è andata a cercare tre detenuti nel carcere della sua città. Pare che il direttore abbia detto di non sentirsela di mandarli in articolo 21 a termine e il Magistrato di Sorveglianza pure lui non se la sia sentita di mandarli in semilibertà a termine, perché poi dovrebbe, una volta terminato il lavoro, revocargli la semilibertà. Quindi si presenta un grosso problema, sia dal punto di vista dei lavori a termine, sia da quello della formazione al lavoro. Adesso sta partendo, è la prima volta a Padova, un corso di formazione lavoro all’esterno, con delle persone che vengono appositamente ammesse alla semilibertà per partecipare a questa esperienza. Ci potrebbe suggerire ulteriori approfondimenti sul lavoro a termine?

 

Monica Vitali: Ritorno a quello che dicevo prima: anche con riferimento ai lavori atipici si tratta di un problema culturale, perché non c’è scritto in nessuna norma che il lavoro a termine non possa giustificare l’ammissione ad una misura alternativa. Diciamo che ci sono due diversi elementi da considerare: il primo è la valutazione della adeguatezza di un lavoro a termine ai fini del requisito del reinserimento, il secondo è la valutazione della personalità del detenuto in rapporto a quel tipo di lavoro, ma questa è una valutazione che si fa sempre, per qualunque misura alternativa e per qualunque tipo di lavoro.

Alcuni passi avanti in questa direzione sono stati fatti, ma in questo momento, secondo me, il problema più grave è il rapido cambiamento del mondo del lavoro rispetto all’approccio al lavoro del mondo penitenziario, perché il lavoro penitenziario inteso come extramurario è ancora un lavoro che deve essere caratterizzato dal tempo indeterminato, da un lato, e dalla subordinazione, dall’altro. Il mondo del lavoro invece sta facendo ormai passi da gigante in una prospettiva in cui il contratto a tempo indeterminato è un lavoro in via di estinzione, perché la parola più usata ora, e che fino a dieci anni fa non usava nessuno, è flessibilità, che si accompagna ormai alla precarizzazione. Voi vi rendete conto che l’idea della subordinazione a tempo indeterminato è quanto di più lontano dal lavoro flessibile e precario si possa immaginare, perché significa una situazione di lavoro inamovibile, si presume a vita o sino alla pensione. Ma ormai il lavoro sicuro e stabile per la vita non esiste più neanche nel pubblico impiego, perché anche i pubblici dipendenti possono essere licenziati .

Per questo sostengo che è un problema culturale, perché quando mi si dice che un Magistrato di Sorveglianza o un direttore non se la sentono di concedere una misura alternativa o un articolo 21 per un lavoro a termine, bisogna chiarire la ragione di questo diniego, perché potrebbe basarsi su una valutazione personale del detenuto, e non dimentichiamoci mai che l’ammissione alle misure alternative è fatta sulla base di un giudizio prognostico, oppure su una valutazione dell’adeguatezza del lavoro a termine proposto. Perché il lavoro, per come viene delineato dalla riforma Biagi, diventerà in realtà una serie di lavori a termine che si susseguono, una serie di contratti precari, perché, per esempio, il primo a termine dura sei mesi, poi finisce e c’è il vuoto per un certo periodo, poi c’è un altro contratto, per tre mesi, e poi ne capiterà uno a chiamata e così via. Questo è il mercato del lavoro che già esiste e che si prospetta in misura sempre più massiccia per il futuro, e per questo si parla di precarizzazione del lavoro. Ecco lo scontro con il lavoro penitenziario: i tempi di ammissione ad una misura alternativa fanno sì che il contratto di lavoro atipico, quando arriva la concessione della misura, non c’è più, perché è legato ad una richiesta contingente, a una stagionalità o a una commessa che è finita mentre il detenuto è ancora lì che sta aspettando che venga valutata la sua richiesta. Vedete, questo non è un problema legislativo, è uno scontro di realtà fra mondi diversi.

 

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Mettiamo che venga concessa la semilibertà con un lavoro a termine, se il lasso di tempo tra la fine di questo lavoro e il reperimento di un altro è di qualche mese, non vi è un modo di "congelare" la semilibertà finché il detenuto non trova un’altra occupazione?

 

Monica Vitali: Questo è un problema assolutamente analogo a quando si ha un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e il semilibero viene licenziato, non cambia nulla dal punto di vista legislativo. Si tratta di verificare se, in quel caso, l’équipe trattamentale ritenga opportuno proporre un programma di trattamento provvisorio, cioè a termine anch’esso, magari non con gli stessi ampi ambiti spaziali e temporali concessi quando il detenuto lavora, al fine di reperire un’altra attività lavorativa. Nella mia esperienza a Milano, quando facevo il Magistrato di Sorveglianza, era un sistema assolutamente normale, lo si faceva di solito per 15 giorni, che poi potevano venir prorogati se l’équipe riceveva un’offerta di lavoro e la doveva vagliare prima di fare la proposta del nuovo programma di trattamento. Si tratta di un modo di operare non vietato da nessuna norma, che fa parte della personalizzazione delle misure alternative.

 

Non si forma una giurisprudenza nè la giurisprudenza formata si evolve, se non si creano dei casi

 

Francesco Morelli: Ma nel momento in cui ci viene respinta una richiesta di ammissione alla semilibertà, proprio con la motivazione che il lavoro a termine non è adeguato, possiamo fare un ricorso, e basandoci su quali elementi?

 

Monica Vitali: Il provvedimento di sorveglianza è ricorribile in Cassazione. Ho già detto che non è scritto da nessuna parte che il lavoro per la semilibertà deve essere a tempo indeterminato, ma si tratta di una valutazione in termini di adeguatezza ai fini del reinserimento.

Apro una parentesi che si ricollega al discorso di prima sui reclami e le cause ordinarie di lavoro: non si forma una giurisprudenza né la giurisprudenza formata si evolve, se non si creano dei casi. La Cassazione ha bisogno di essere investita di casi per formare una giurisprudenza. La tutela dei diritti è un’attività che si esercita in pratica attraverso la proposizione di cause e quindi attraverso ricorsi in Cassazione contro delle decisioni, altrimenti la giurisprudenza non fa passi avanti. Il problema culturale è suscitare una riflessione all’interno della magistratura, perché la magistratura opera in un solo modo, cioè attraverso le sue decisioni, e se queste non vengono suscitate non è che può farlo il giudice, alzandosi la mattina e dicendo: "Ah caspita! È entrata in vigore la legge delega 14 Febbraio 2003 n° 30, allora mi pongo il problema di quanto sono compatibili questi lavori con la posizione di detenuto". No, il sistema non funziona così, ma agisce su casi concreti che vengono posti all’attenzione del giudice, si creano una serie di decisioni omogenee, intese come un orientamento giurisprudenziale, in un senso o in un altro e in questo modo si arriva a quel famoso dibattito, quantomeno culturale, a cui accennavo prima, che però deve essere presente anche all’interno dei meccanismi giurisdizionali di tutela dei diritti e non solo nei convegni.

Tutte le giurisprudenze si formano attraverso il tempo, tutte le leggi nuove hanno bisogno di una elaborazione pratica, la stessa legge Gozzini l’ha avuta, non è che il primo giorno che è entrata in vigore tutti sono usciti in permesso premio, tanto per citare l’esempio di una grandissima novità per i detenuti all’epoca.

Uno degli appunti più significativi che i detenuti muovono alla Magistratura di Sorveglianza è l’estrema diversità di decisioni da un distretto all’altro, che vuol dire disomogeneità della giurisprudenza dei Magistrati e dei Tribunali di Sorveglianza. La mia risposta da giurista è che esiste un unico modo, che in una certa misura permette l’omogeneità della giurisprudenza: si tratta di muoversi verso l’alto del vertice della piramide della magistratura e quindi permettere che si formi una giurisprudenza della Corte di Cassazione. Non esiste altro meccanismo, e non solo in ambito penitenziario, ma in qualunque ambito del diritto.

 

Ornella Favero: A noi sembra però che la condizione del detenuto sia comunque estremamente "bloccata". Nel suo libro lei parla di diritto di sciopero, e, almeno per chi lavora fuori, lei dice che è un diritto anche per un lavoratore detenuto. Il problema è che per esercitare questo diritto il detenuto dovrebbe rimanere in carcere, col rischio di farsi chiudere dalla misura alternativa.

 

Monica Vitali: Siccome esiste un principio nel nostro ordinamento che si chiama gerarchia delle fonti ed è piramidale, in cima vi è la Costituzione e le leggi costituzionali, poi più in basso ci sono le leggi ordinarie, e ancora più sotto i regolamenti. Così mi risulta difficile comprendere come in ambito giuridico si possa sostenere che una disposizione regolamentare vieta l’esercizio di un diritto costituzionale, e questo è il senso del contenzioso, che è l’unico strumento di affermazione concreta dei diritti.

 

Le affermazioni di un diritto sono anche una vittoria morale e una vittoria per il futuro

 

Graziano Scialpi (Ristretti Orizzonti): Sono d’accordo, la questione è però che per noi i contenziosi possono risolversi in tante vittorie di Pirro, perché se anche alla fine mi danno ragione, magari c’è poi una direzione che a sua discrezione mi può far trasferire da un’altra parte, dove forse il lavoro non c’è, dove forse non è possibile avere i benefici di legge, per cui alla fine la nostra rischia di essere solo una vittoria morale.

 

Monica Vitali: Potrei rispondere che in realtà quasi tutte le affermazioni di un diritto sono anche una vittoria morale e una vittoria per il futuro. Mi rendo conto che, dal punto di vista individuale, questo è un discorso molto pesante da sopportare, però da un punto di vista del sistema è l’unico discorso che esiste. Non voglio teorizzare il sacrificio di qualcuno per molti, però si tratta di un processo evolutivo, il primo che avanza il riconoscimento di un certo diritto forse non riuscirà a goderne, ma certo è che se nessuno comincia, nulla può cambiare.

 

Graziano Scialpi: E’ che si rischia di finire a Canicattì, trasferiti a mille chilometri dai famigliari.

 

Monica Vitali: Fuori, nel mondo del lavoro libero, il rischio è di non avere i soldi per dar da mangiare ai propri figli. Scusate la brutalità, ma siccome in questo periodo ho tra le mani continuamente cause di licenziamento, mi rendo conto che ciascuno ha davanti a sé il suo mondo, però purtroppo i mondi sono tanti, spesso e volentieri in conflitto tra di loro in guerre tra poveri. Moltissime persone perdono il lavoro, non ne trovano un altro, oppure lo trovano con delle modalità che non consentono di sopravvivere, ed allora cosa fanno? Non chiedono la tutela dei loro diritti, perché in questo modo si fanno la fama di quelli che fanno le cause e quindi nessun altro gli darà un lavoro? Ricordiamoci che se la persona che ha fatto la causa contro il licenziamento illegittimo la vince, recupera il suo posto, visto che l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori esiste ancora.

Bisogna dire comunque che le categorie del diritto del lavoro non sono semplici, mentre l’approccio dei non addetti ai lavori tende a semplificare; invece, gli spazi per la tutela dei diritti nascono se si utilizzano gli strumenti del diritto del lavoro in modo estremamente tecnico. Io prima ho detto che se la persona che ha fatto sciopero viene chiusa, è facile fare e vincere un reclamo contro questa decisione, perché in base al principio della gerarchia delle fonti, non ci può essere la negazione di un diritto costituzionale sulla base di un provvedimento della direzione. Quello che voglio dire è che non ci sarà mai nessun provvedimento che motiverà la fine della misura alternativa con la partecipazione del detenuto allo sciopero. La pratica, però, è molto più complessa, e cercherò di fare un esempio che chiarisce il problema: nel caso di licenziamento incolpevole, a una persona libera semplicemente si pone la questione di come guadagnare per dare da mangiare ai figli, quando ha finito i risparmi. Un detenuto che viene licenziato senza colpa, oltre ai problemi di un normale lavoratore, deve affrontare anche quelli connessi alla sua condizione di detenuto ammesso ad una misura alternativa. Ma i due piani non possono essere confusi e questo presuppone una capacità tecnico-giuridica di chi deve valutare la situazione, compresi gli avvocati, che in questi nostri discorsi di oggi sono i grandi assenti. La funzione dell’avvocato è di occuparsi della tutela dei diritti, perché il nostro sistema non funziona con il giudice che a una persona incontrata per strada che gli riferisce di essere stata licenziata, può proporre: "Domani vieni in udienza, che ti faccio il processo". Sul tavolo del giudice deve arrivare un atto di qualcuno che si lamenta di qualcosa. Per questa ragione io prima dicevo che è un problema culturale, perché riguarda non solo la Magistratura di Sorveglianza, ma anche l’avvocatura. E non è solo un problema di soldi, ma anche di capacità tecniche dell’avvocato, che a volte è già in difficoltà sull’Ordinamento penitenziario, figuriamoci quando si tratta di capire come mettere insieme Ordinamento Penitenziario e diritti dei lavoratori!

 

Francesco Morelli: In ogni caso io non credo che i detenuti siano particolarmente tutelati quando lavorano, sia all’interno che all’esterno, per un semplice motivo, che si trovano in difficoltà nel momento della richiesta del riconoscimento di un diritto perché temono all’interno di perdere il posto di lavoro, che è già una rara conquista, e all’esterno una serie di altre ripercussioni come la chiusura dalla misura alternativa. Quindi non è semplicissimo parlare di diritti, e anche la sicurezza sui posti di lavoro a volte non è affatto rispettata. I detenuti spesso hanno a che fare con dei lavori malsani, e forse se fossero persone diverse ci sarebbe nei loro confronti una maggiore attenzione, nel timore di un ricorso o una denuncia.

 

Monica Vitali: Lei parla da detenuto, io ho visto in certe aziende come lavorano i non detenuti e ho visto, per esempio, in quali condizioni vengono messi a lavorare gli immigrati extracomunitari.

 

La soglia della tutela dei diritti si è abbassata per tutti

 

Francesco Morelli: Lo so, c’è chi probabilmente è in condizioni peggiori, ma qui stiamo trattando il problema del lavoro ai detenuti e secondo me non si può dire che i detenuti siano particolarmente tutelati, la condizione di detenuti rende molto più difficile il fatto di poter rivendicare il diritto a un lavoro sicuro e giustamente remunerato.

 

Ornella Favero: Ho capito il ragionamento di Francesco, perché per esempio qualche giorno fa si discuteva del lavoro domestico all’interno del carcere, e si diceva che quasi tutti lavorano più ore di quello che vengono pagati e tutti accettano di farlo perché hanno paura di perdere il posto. C’è però anche l’altro aspetto del problema, credo culturale, e cioè che i detenuti spesso hanno il vizio di non misurarsi mai con la realtà fuori, dove c’è ugualmente gente che fa un sacco di ore di straordinario, non pagate, pur di non rischiare di perdere il lavoro.

 

Monica Vitali: Vorrei dire due cose, prima sulla sicurezza sui posti di lavoro e poi, più in generale, sulla tutela dei diritti, che, secondo me, si legano anche al tema delle modifiche del mercato del lavoro, perché nel futuro, io credo, la situazione non migliorerà. Quanto alla sicurezza sul posto di lavoro, gli infortuni stanno aumentando per effetto della precarizzazione: siccome le misure antinfortunistiche costano, questo è un momento in cui si sta abbassando pesantemente la tutela per tutti, e ribadisco per tutti, perché voi avete la percezione della vostra situazione, io per esempio ho la percezione della situazione dei lavoratori extracomunitari, che vengono messi a fare lavori che nessun italiano accetta di fare, con orari e condizioni spesso impossibili, e ai quali spesso manca addirittura la consapevolezza di essere soggetti con dei diritti. Più in generale, cominciamo a renderci conto che la soglia della tutela dei diritti si è abbassata per tutti; con questo non voglio entrare nella polemica se i detenuti abbiano una soglia di tutela più elevata o meno rispetto al lavoratore che sta fuori. Vorrei però che fosse chiaro come in questo momento il livello di tutela si sta abbassando per tutti. E l’evoluzione del mercato del lavoro con la diffusione dei contratti atipici, di breve durata, che presuppongono grande intercambiabilità tra le persone, perché comunque le professionalità sono basse, non mi induce a sperare in un innalzamento del livello delle tutele. Ecco perché bisogna misurarsi in concreto con questa realtà fuori, e non limitarsi ad un dibattito centrato esclusivamente sul lavoro dei detenuti.

 

 

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