Le discussioni di "Ristretti"

 

"Trattare" per reinserire qualcuno riesce ancora a farlo?

 

Il trattamento rieducativo è individuale ed è teso al reinserimento sociale, dunque "trattare" una persona detenuta dovrebbe voler dire seguirla in un percorso graduale da dentro a fuori, carcere-misure alternative-libertà. Eppure è difficile credere al trattamento, in un paese in cui ci sono 56.000 detenuti e poco più di 500 educatori (ma speriamo che i recenti concorsi portino forze nuove all’interno delle carceri). Ed è difficile anche fare una discussione seria sul trattamento, perché una discussione seria dovrebbe partire da dati concreti, che sono però difficili da reperire: bisognerebbe sapere cioè se la recidiva riguarda di più le persone che se ne sono state tutto il tempo del carcere "in branda", senza essere coinvolte in attività trattamentali di qualche tipo, o se invece non c’è differenza tra i non "trattati" e le persone che hanno seguito un percorso graduale di reinserimento, prima dentro e poi con l’accesso ai benefici.

Abbiamo provato a parlarne in redazione.

 

"Nei confronti dei condannati e degli internati deve essere attuato un trattamento rieducativo che tenda, anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale degli stessi. Il trattamento è attuato secondo un criterio di individualizzazione in rapporto alle specifiche condizioni dei soggetti". (Articolo 1 dell’ordinamento penitenziario)

 

Paolo: Il problema è anche capire l’utilità reale delle attività formative e "trattamentali": il mio compagno di cella ha frequentato un corso di… e io scherzando gli ho chiesto: ma cosa te ne fai? E lui mi risponde che quando "andrà in una banca" porterà il diplomino. È paradossale, però questo tipo di formazione non ha una concretezza e un’attinenza con quella che è la storia di una persona, per cui probabilmente è difficile che possa recargli un dato positivo fuori dal carcere.

Ornella (volontaria): Prima di entrare a fare la volontaria avevo un’altra idea della parola "trattamento". Questo termine di solito si usa nelle concerie con il pellame, nelle tintorie, c’è il trattamento dei rifiuti tossici. Trattamento di una persona… questo termine lo trovo abbastanza strano, mi ricorda l’idea di manipolare, di adattare, di plasmare un materiale.

 

La recidiva al 70% penso sia la testimonianza che il trattamento così com’è serva a poco

 

Marino: Nella teoria il trattamento dovrebbe servire a chi è in carcere per essere rieducato (anche se il termine non mi piace molto), ma vorrei chiedere a tutti i presenti, a chi commetteva reati a scopo di lucro, se il carcere gli ha insegnato dei principi solidi, sani e di onestà tali, da convincersi che quando uscirà dal carcere non andrà più a fare reati. Secondo me pochi si salvano dalla recidiva: chi lo può fare è perché ha raggiunto in tanti anni di carcere la convinzione che il periodo di vita che gli resta da vivere lo vuole trascorrere cercando il più possibile di fare tutte le cose che stando in carcere non ha potuto fare; oppure chi si è fatto un’attenta analisi ed ha capito personalmente che non vale la pena continuare o chi in carcere c’è entrato per un "incidente" senza aver mai avuto frequentazioni di ambienti criminali. Le persone che appunto si salvano dalla recidiva lo fanno per scelta personale, o perché sono cambiate col passare degli anni, e non perché il carcere ha insegnato loro qualcosa o perché le ha rieducate.

Mi dispiace essere pessimista, ma la recidiva al 70% penso sia la testimonianza che il trattamento così com’è serva a poco. Secondo me le attività invece sono una sfida, cioè, io ti dimostro che saresti stato in grado di fare anche ben altro da quello che hai fatto.

Credo quindi nelle attività perché possono diventare un momento di riflessione, posso credere nel carcere perché a volte forse è necessario per far fermare le persone, ma non credo che due-tre o quattro colloqui all’anno con l’educatore e con lo psicologo possano improvvisamente far capire che bisogna cambiare vita. Chi invece è capitato in carcere per una disgrazia o per un singolo reato, ma prima che questo accadesse aveva dei principi saldi, probabilmente li avrà anche dopo, dico probabilmente, perché dal carcere così come è adesso è molto più facile uscire peggiorati.

Graziano: A me sembra che la questione del trattamento e della rieducazione sia di ottimo principio ma estremamente velleitaria, nel senso che pensare a un’attività di trattamento e rieducazione generalizzata è assurdo, il trattamento, e lo dice anche l’ordinamento, deve essere individuale e questo non accade (vedi mancanza di educatori, di psicologi ecc.). Cioè, continua ad esserci una dicotomia tra un principio che vuole il reinserimento sociale delle persone e il sistema di pene che invece scaraventa quelle stesse persone fuori dalla società. Faccio un esempio: prendi una persona di trent’anni che per un reato prende trent’anni di condanna, poi esce a sessant’anni o poco meno, per lui reinserimento sociale cosa vuol dire? Allora, o c’è un sistema dove puoi valutare che questo singolo detenuto, dopo aver scontato una parte di pena, ha rimesso in discussione il suo passato, che si è "rieducato" e che quindi può essere reinserito, e continuare a farlo stare in carcere non ha più senso, oppure, come succede ora, non resta che fargli scontare dieci anni, valutare la sua condizione, e poi constatare che l’individuo può essere reinserito ma che purtroppo, mancando ancora vent’anni al fine pena, non c’è niente da fare.

Ornella: Tu hai posto un altro problema, strettamente legato al trattamento, che è quello delle pene lunghe.

Nicola: Io comunque ritengo che dal 1975 il trattamento è la cosa più importante che sia stata fatta per i detenuti e dico anche che andrebbe sostenuto, rafforzato, difeso, perché è l’unica alternativa al carcere custodiale, ad un carcere dove non ci sarebbero più possibilità di crescere in qualche modo, rimarrebbero solo l’aria e la cella.

Marino: Se io faccio una critica non voglio dire di abolire il trattamento, voglio solo dire che così com’è non funziona. E poi non confondiamo il trattamento con i corsi e le attività, perché sono due cose diverse. E troppi corsi spesso sono solo intrattenimento, qualcosa che se si vuole ti dà la possibilità di trascorrere qualche ora della giornata fuori dalla cella, e basta.

Quanto alla revisione critica del passato, per il 99% dei casi, quando esci dal carcere esci con buoni propositi, ma poi la realtà è ben diversa da come te la aspettavi.

Annamaria (stagista, laureanda in Scienze dell’educazione): Io sono d’accordo che il trattamento dovrebbe essere fatto in maniera individuale, fatto sulla persona e sulle possibilità che ha la persona dopo. Ma come sapete sono pochi giorni che ho messo piede in un carcere e quello che so in questo momento è quello che ho letto sui libri.

Marino: Comunque tieni presente che quello che vedi qui non è la realtà di tutte le carceri, questa è un’isola felice rispetto ad altri istituti, immagina quindi come possono essere gli altri. Io dico questo non perché voglio essere critico, ma perché se uno, come tanti di noi, ha girato qualche carcere si è reso conto di come stanno le cose.

Graziano: Qui stiamo facendo un discorso non tanto puntato su Padova quanto su una realtà generale. La media di noi ha girato 3-4 carceri, ha visto le differenze. In gran parte delle carceri d’Italia, togli la scuola, per il resto ti riduci a trascorrere 20 ore chiuso in cella. Quella alla prova dei fatti è la rieducazione.

Nicola: Penso che il trattamento andrebbe suddiviso per fasi. Nel primo periodo di carcerazione mi sta anche bene che il tempo venga impegnato tra i vari corsi, ma quando si avvicina il momento di poter accedere alla semilibertà, il trattamento allora sì che dovrebbe essere personalizzato. Se si hanno delle attitudini vanno individuate e la persona va indirizzata in quel senso per una prospettiva di lavoro esterno, basata appunto sulle capacità del singolo, perché fuori se non hai una specializzazione fai ben poco. Quindi lo sforzo, l’impegno di energie e risorse andrebbero fatti soprattutto nella fase finale della detenzione. All’inizio invece ci vuole l’attenzione, perché, soprattutto per chi non ha mai avuto a che fare con questo universo qui, il carcere è una realtà scioccante, mentre è un po’ diverso per chi come noi è entrato e uscito più volte, e ormai ci ha fatto il callo.

Luigi: A volte capita, come a me, di non avere mai avuto problemi con la giustizia e di trovarsi di colpo catapultati in questo mondo per 30 anni. È tutto l’ambiente carcerario che andrebbe cambiato, per fare dei percorsi adatti a persone diverse, perché solo così si può dare, forse, una possibilità di rientro nella società, più che di rieducazione. Molti di noi sanno come ci si deve comportare fuori, piuttosto abbiamo dovuto imparare a comportarci all’interno di questi posti. Personalmente avevo 30 anni quando sono entrato in carcere, e prima avevo sempre lavorato e condotto una vita più che regolare. Avevo una mia famiglia. Di punto in bianco mi sono ritrovato in un ambiente che non era il mio e mi sono dovuto adattare, rendendomi subito conto, in questi dieci anni di carcere, che da questi posti non esci migliorato, anzi, a volte sembra facciano tutto il possibile per farti peggiorare, incattivire, anche se prima come indole non avevi queste abitudini.

Aggiungo inoltre che un trattamento dovrebbe iniziare già nelle aule dei tribunali, perché la prima persona che ci giudica è quella che in fin dei conti ha in mano tutta la nostra vita, e non è di primaria importanza l’entità della condanna, è come ti viene imposto di scontare la pena che dovrebbe far riflettere, perché moltissime persone potrebbero essere reinserite senza il timore di reiterazione del reato.

Ornella (volontaria): L’ultima circolare del DAP dice che il trattamento è "finalizzato alla rieducazione ed alla reintegrazione sociale del reo". Allora, vorrei fare alcune considerazioni sul concetto di rieducazione e reintegrazione sociale.

Rieducazione per una persona di 30, 40 o 50 anni non so esattamente cosa voglia dire, io penso che in questi posti si possa solo fare un’operazione di riduzione del danno, ridurre i danni da carcere.

E, anche ammettendo che sia possibile la rieducazione di un adulto, ci sono cose, come la deresponsabilizzazione totale delle persone in carcere, che vanno esattamente in senso opposto. Qui dentro le persone le vedi ridotte a bambini, non c’è quasi nessun margine di adesione volontaria a un percorso, di scelta. Quindi come fa una struttura che toglie qualsiasi responsabilità alle persone improvvisamente a rieducare? Qualche giorno fa la direttrice della Giudecca, parlando del libro delle donne detenute, e di dove si racconta come il carcere infantilizzi, faccia diventare bambini insicuri, ha raccontato un episodio significativo che le è capitato. Era in coda a un ambulatorio per fare delle analisi, quando si è accorta che ad aspettare c’era anche una semilibera, agitatissima perché evidentemente le cose andavano a rilento e lei rischiava di rientrare in carcere in ritardo. A quel punto, la direttrice si è fatta avanti e, per rassicurarla, ha chiamato il carcere avvisando del possibile ritardo, ma neppure la sua telefonata è riuscita a tranquillizzare la detenuta. Ecco, si torna bambini, in ansia perché le regole da rispettare sono tante e non ci sono margini di scelta, ma solo obbedienza.

Luigi: Anche perché molto spesso accade che quello che porta alla revoca di un beneficio nella maggior parte dei casi non è un reato, ma più semplicemente una trasgressione a delle regole imposte non sempre facendo un’attenta valutazione della persona. L’esempio più classico è una persona che prima di essere detenuta non ha mai avuto problemi di alcol, poi magari sei in semilibertà, bevi un bicchiere di troppo, ti ubriachi e quindi rischi la chiusura dal beneficio e per anni non puoi chiedere di essere riammesso.

Stefano: Io ripartirei dal discorso su come uno viene "trattato". Per cui il trattamento non sono i corsi di formazione per avere magari un lavoro fuori e altro, al contrario è un po’ tutto, o meglio, è di più. Quello che intendo io per trattamento è un insieme di attività che sono ricreative, culturali, formative, lavorative, relazionali e personali. Se mi fanno fare un colloquio in condizioni poco umane, se la persona che mi viene a trovare è trattata male dal personale, è umiliata, il mio colloquio cosa diventa? Uno schifo, solo uno schifo. E anche questo deve rientrare nel trattamento.

Le situazioni nelle quali il detenuto si trova a vivere quotidianamente contano, perché dovrebbero permettere alla persona di non regredire, di non sentirsi esclusa dal mondo esterno, di non isolarsi in cella o mentalmente. Quindi di consentirle delle relazioni decenti. Per cui vedo malissimo un carcere dove dal primo giorno ti mettono a lavorare o ti impegnano in altre attività, ma senza un’ora di socialità umana, un carcere così personalmente non lo vorrei mai provare.

 

Il balordo che c’è in me è ancora vivo, ma l’ho mandato in pensione e lo sto facendo morire di morte naturale

 

Nicola: Io ho fatto 25 anni di carcere, sono entrato a 19 anni ed ho trascorso fuori solo due anni, da latitante, più sei mesi in semilibertà. Il balordo che c’è in me è ancora vivo, ma in qualche modo l’ho mandato in pensione e lo sto facendo morire di morte naturale. Non perché qualche simpatica persona a cui mi sono anche affezionato mi abbia rieducato, semplicemente per una mia scelta, perché voglio riappropriarmi di quella fetta di vita che mi rimane, accontentandomi di quello che la vita mi vorrà ancora offrire. Non puoi dire a certe persone che magari hanno già 45-50 anni: io ti modello come voglio, ti cambio, "ti raddrizzo". Non c’è più niente da cambiare. Quello che non faccio è perché io non voglio più farlo. È importante però che non ti rendano incapace di affrontare il mondo esterno quando ti verrà data la possibilità di farlo, ma al contrario ti diano la capacità di far fronte ai disagi che immancabilmente ti si presenteranno, altrimenti in un attimo si rischia di perdere tutto quello, per ottenere il quale si sono fatti sacrifici enormi.

Graziano: Ma rieducare chi? Quando lo Stato è il primo a non rispettare le regole, a chiuderti in una cella con altre 7-8 persone, a non applicare il regolamento del 2000. Il carcere in questa situazione non è molto rieducativo, e questo è quello che accade nella stragrande maggioranza delle carceri.

Ahmet: In tutti gli anni trascorsi in carcere ho fatto tutto quello che era possibile fare. Buon comportamento, lavoro, rieducazione ecc. Tanto che sono uscito in art. 21 e poi sono stato ammesso alla semilibertà. Dopo aver fatto tutto questo percorso mi sono sentito dire che, a causa della mia immaturità sociale, e della mia personalità che non è quella che loro pensavano, dovevo essere chiuso da tutto, e ora sono qui con voi.

Elton: Io vorrei sottolineare la situazione degli extracomunitari, perché se il trattamento è così irto di difficoltà per i detenuti italiani, figuriamoci come deve essere per noi che non abbiamo nessuna tutela. Se gli italiani si lamentano dei colloqui, cosa dovremmo dire noi che per la stragrande maggioranza non ne possiamo fare e che l’unica possibilità che abbiamo per contattare i nostri famigliari sono i 10 minuti di telefonata settimanale?

Luigi: Sul reinserimento sociale mi sono fatto anch’io un’idea negativa, perché la mia esperienza mi ha insegnato che già nelle aule di Tribunale decidono di eliminarti dalla società e poi quando inizi a frequentare questi posti per tanti anni ti rendi conto di quanto poco conti ora per la società, e non importa a nessuno chi eri, cosa facevi, perché l’hai fatto o altro. Hai sbagliato e ora paghi. Punto e basta. Sono convinto che se ci fosse veramente l’intenzione di reinserire le persone nella società i modi si troverebbero e non sarebbe così difficile come vogliono farci credere.

Graziano: Dopo aver sparato a zero, secondo me qualcosa da salvare comunque c’è. Vedi anche questa realtà di Padova, cioè la redazione e le varie attività con cui si collabora. Il fatto non da poco di poter trascorrere una parte della giornata qui in redazione e senza un controllo assillante da parte degli agenti è già qualcosa di positivo, si riesce a ritagliarsi un po’ di autonomia e comunque è proprio grazie a questa autonomia che ci responsabilizziamo. Secondo me questo dare fiducia, questo dare autonomia maggiore, funziona nel trattamento. Ma in questa forma però, che non è infantilizzante. Dove ho visto concedere queste aree di autonomia alle persone vedo che c’è un cambiamento di atteggiamento, una presa di responsabilità.

Luigi: Personalmente penso che attività come queste sono strutturate molto bene, ma purtroppo ancora per un numero limitato di persone. Creano o rischiano di creare delle discriminazioni. Innanzi tutto prendere come esempio Padova e le attività come la nostra è sbagliato per tutto quello che può o possono pensare gli altri detenuti che restano nelle sezioni. Qui si hanno più possibilità di incontrare persone come educatori o altri, qui gira più gente che conta e quindi ottenere qualsiasi cosa diventa più facile di come sarebbe se restassi in sezione.

Stefano: È fondamentale comunque che ci sia uno spazio che si basa sul senso di responsabilità e autocontrollo, cosa che invece non viene praticata da nessuna parte tranne in quelle poche realtà come la redazione, la Rassegna Stampa, il TG. Cioè, ci sono degli spazi dove effettivamente si può lavorare sulla persona, però non in senso rieducativo (che ti cambia la testa), ma nel senso di darti la possibilità di sperimentare degli spazi tuoi, mentre per altre attività (faccio un esempio: imparare a dipingere o a fare le pizze) a parte la formazione tecnica non c’è nient’altro. Allora io sono più interessato per la mia persona ad avere spazi che mi garantiscano questo tipo di cose, perché non mi serve a niente imparare ad usare un pennello o qualsiasi altra cosa se non riesco ad imparare a gestirmi uno spazio di autonomia e responsabilità nella società. Rischio di continuare ad essere quello che ero prima.

Ornella: Allora il discorso di Luigi andrebbe capovolto. Dovrebbero essere ampliate le aree in cui le persone abbiano un minimo di autonomia.

Luigi: Sono d’accordo ed è questo quello che volevo dire in effetti. Chiedo solo di immaginare questo istituto con 350 detenuti (che è la sua reale capienza) anziché 750. Come si vivrebbe? Quante possibilità in più ci sarebbero? Come verrebbero seguiti i detenuti?

Ernesto: Io farei un trattamento del genere: se metti dieci persone a fare gli imbianchini, devi dargli la possibilità di continuare anche dopo a fare quello che hanno imparato. Se poi ci sono dei corsi di formazione professionale ben vengano, ma devono avere delle finalità e dare a chi ha imparato qualcosa la possibilità di lavorare.

Ornella: Questo sembra un discorso ragionevole, ma io ci credo solo in parte. Ieri ero alla Giudecca e una donna mi ha fatto l’esempio della Germania, dove in carcere il lavoro è obbligatorio. Ma se uno entra in carcere e svita e avvita bulloni, o impara a fare le pizze, fa un corso stupendo e dopo ha un lavoro assicurato, secondo me non basta. Perché io ho visto tanta gente fare un buon lavoro… ma poi siccome il vicino di casa spacciando guadagna dieci volte di più la tentazione è forte… se tu non cominci a ragionare in modo diverso, non basta. In Olanda vige un altro sistema, quattro ore di lavoro e quattro di attività culturali, lì è già più intelligente la cosa.

Ernesto: Allora bisogna essere sinceri nella vita, a me non mi salva più nessuno, Nicola ha già fatto 25 anni di galera… noi siamo nati ai tempi delle rapine, noi siamo un capitolo a parte, ma oggi l’80% dei detenuti è dentro per droga, tra questi ce ne sono molti che prima facevano i pizzaioli, i parrucchieri, comunque avevano un’attività, hanno iniziato a usare un po’ di roba e poi per continuare ad usarla hanno cominciato a venderla. Io dico che sono questi che si dovrebbe recuperare, perché non è possibile condannare a 10-15 anni un ragazzo che ne ha solo 20 per aver spacciato 100 grammi di cocaina. È lì che non si recupera la persona. Queste persone non sono criminali, ma vengono giudicate come tali.

Nicola: Probabilmente con quei ragazzi è più facile lavorare sul trattamento.

Ornella: Ma perché sono arrivati a quel punto? Si vede che già prima qualcosa non funzionava, per cui non basta dare a queste persone una buona formazione e mandarle fuori, così, allo sbaraglio…

Luigi: Allora trattamento deve essere quello di dare ai detenuti la possibilità di essere seguiti per quelli che sono stati i reali motivi che li hanno fatti finire in questi posti, mentre invece tutto questo non avviene perché i detenuti sono diventati sempre più come gli ingredienti di un minestrone.

Marino: Il trattamento secondo me parte molto anche dalle relazioni con gli operatori, che non sono solo gli educatori. Gli stessi agenti devono avere un ruolo fondamentale… soprattutto gli agenti. Sono loro che stanno a contatto con noi 24 ore al giorno e ci conoscono meglio di chiunque altro. Se un agente ti tratta come una pezza da piedi non ti sta insegnando niente. Mentre, se ti tratta con un po’ di considerazione e ti fa sentire ancora un uomo, ti è certamente di maggior aiuto. A mio avviso questo è un altro aspetto fondamentale, basilare affinché si possa parlare di vero trattamento, e invece troppo spesso l’idea di trattamento si limita a qualche attività, qualche buon corso, qualche colloquio con gli operatori e nient’altro.

 

 

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