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Ma esiste una sottocultura carceraria?
Parliamo di etica carceraria, codici comportamentali, gesti e rituali, dinamiche relazionali, regole non scritte, gerarchie
Tutto è cominciato con una tesi di laurea, per la quale siamo stati consultati da una studentessa, Ileana Barchi: "Sto scrivendo una tesi sulla 'Sottocultura carceraria'. 'Che roba è?', tutti mi chiedono. In sintesi sto cercando di stilare una sorta di mappa sull'etica carceraria, sul codice comportamentale, sul significato di gesti e rituali, sulle dinamiche relazionali, sui processi di esclusione, sulle gerarchie e sulle regole 'non scritte' che si instaurano tra detenuti. Noto però pareri molto contrastanti anche tra di loro: alcuni ad esempio parlano di solidarietà e di mutuo soccorso, altri di estremo individualismo. Mi piacerebbe che i 'diretti interessati', ma ovviamente non solo loro, mi aiutassero a far luce su questi temi".
E così di regole ed etica carceraria abbiamo deciso di discutere in redazione. Ornella Favero: Se vogliamo parlare delle regole non scritte e delle gerarchie che si istaurano tra detenuti, io direi di partire subito con una questione che può sembrare provocatoria: qualche tempo fa ho letto la notizia che mentre un detenuto veniva trasferito, l'elicottero su cui viaggiava con la scorta di sette carabinieri è caduto e sono morti tutti. Io vi chiedo: qual è la vostra reazione di fronte ad un fatto del genere? Anche il rapporto con le forze dell'ordine secondo me fa parte della "cultura" carceraria. Nicola Sansonna: Non è però solo una questione di cultura carceraria: se tu, per esempio, frequentassi i centri sociali, assisteresti ad una reazione qualche volta peggiore della nostra. Possono essere reazioni dettate un po' dal mondo in cui uno vive, da quanto si sente in contrapposizione con lo Stato, e con chi lo Stato lo rappresenta. Io sono stato già catturato, con i carabinieri in questo momento non sto combattendo, adesso ho a che fare con persone della società civile, ci siete voi volontarie, ci sono le educatrici, ci sono anche gli agenti: non sento questo bisogno di contrapposizione per forza. Per quanto mi riguarda, mi dispiace che siano morte delle persone, come mi è dispiaciuto per quelli che sono morti a Nassiriya. Tutto il resto è solo cinismo e speculazione, nel senso di voler speculare sulla notizia. Magari però chi sta ancora vivendo una situazione di scontro può darsi che la veda in un modo diverso dal mio. Chi ha intenzione di farci apparire negativamente dirà che noi abbiamo gioito quando abbiamo appreso la notizia dei carabinieri che sono morti a Nassiriya, o comunque di fronte a fatti di questo tipo. Sicuramente ci sarà anche qualcuno che gioisce, nello stesso modo in cui ci sarà sicuramente qualcuno che si comporta così quando muore un detenuto, e magari dirà "meglio, uno in meno". Graziano Scialpi: Bisognerebbe anche andare a vedere le reazioni nelle caserme dei carabinieri quando dei "delinquenti" si ammazzano o in qualche modo muoiono. Ornella Favero: Sì, ma noi non dobbiamo giustificare dei comportamenti solo perché loro fanno la stessa cosa Più che di sottocultura bisognerebbe parlare di "cultura della sopravvivenza al carcere"Marino Occhipinti: Nel termine sottocultura carceraria io invece vedo soprattutto, e mi danno fastidio, certi comportamenti imposti secondo regole non scritte. Per esempio, una volta in carcere ti volevano insegnare come si doveva mangiare, come dormire, come ci si doveva vestire per andare ai passeggi. E c'era comunque chi si adeguava, e si faceva trattare come un bambino per essere ben accettato. Paolo Moresco: Secondo me bisogna capire prima il termine sottocultura, che a mio parere ha di per sé un significato abbastanza duplice, perché ogni gruppo ha una sua sottocultura, parla un gergo. È l'ambiente chiuso che ti porta a questo, è un fatto fisiologico normale, bisogna saperlo distinguere dalla sottocultura come degenerazione, esasperazione di certi comportamenti. Ornella Favero: Infatti le due definizioni del vocabolario sono chiare. La prima definizione è: "Cultura scadente o degradata", la seconda invece: "Varietà di cultura minoritaria o locale", che sono due concetti molto diversi. Uno è pesantemente negativo, uno è invece legato ad un ambiente o ad una minoranza che ha una propria specifica cultura. Paolo Moresco: E quando si parla di sottocultura carceraria si tende, per la brutta qualità del termine "carcerario", a considerare solo il senso dispregiativo della parola. Secondo me questa distinzione va fatta perché in parte è autodifensivo crearsi una sottocultura, in parte è bisogno di identità. Graziano Scialpi: E poi in carcere non c'è nemmeno una sola sottocultura, i detenuti che scendono in redazione, che frequentano i corsi, o seguono le varie attività, hanno un tipo di sottocultura; che è diversa da quella di chi passa i giorni chiuso in cella magari ad ubriacarsi. Nicola Sansonna: Io ho 47 anni e "frequento" dall'età di 18 anni il carcere, e da allora ho passato fuori dal carcere poco più di tre anni: il resto è tutta immersione in questo marasma umano che è diventata la galera, capace di stritolare uomini e coscienze, ed è solo con la forza di volontà, l'autostima, la voglia di riappropriarsi della propria esistenza che si riesce a sopravviverci. Ragionandoci un po' e anche confrontandomi con alcuni miei compagni, sono giunto alla conclusione che alcuni miei concetti di sottocultura o di etica carceraria si possono ritenere un po' datati, e che certi comportamenti bisogna definirli piuttosto "modi di vivere il carcere", o "cultura della sopravvivenza al carcere". Teniamo presente anche che adesso qui dentro ci sono il 30/40 per cento di ragazzi stranieri. In ogni caso credo di aver individuato 4 punti che, in linea di massima, possono essere condivisi da tutti i gruppi che si trovano dentro:
Ecco, chi rispetta questi punti qui dentro viene considerato già un "bravo ragazzo" e quindi accettato dalla comunità, e gli viene data la possibilità di mettersi a confronto con gli altri. Io non accetterò mai un dialogo aperto o un confronto con un pedofilo, come non accetterò mai di mettermi in discussione con uno che ha fatto arrestare venti o trenta persone. Questa per me e per la maggior parte delle persone detenute è l'etica carceraria. Quella regola che dice che non si deve mai denunciare nessunoOrnella Favero: Una domanda immediata che vorrei farvi riguarda la prima regola, "non aver fatto mai arrestare nessuno": se sapete che uno ha commesso una violenza sessuale, che è considerato qui fra i peggiori reati, cosa fate, non lo denunciate perché la prima regola è questa? Paolo Moresco: Io ti dico che se sapessi che in giro c'è un serial killer libero, io lo denuncerei. Quindi tutto dipende dalla qualità del reato. Nicola Sansonna: Paolo, tu qui sei un "turista", e io non posso dire niente ad un "turista" come te, sei in carcere da poco e devi stare qui poco, non possiamo vedere certe cose dallo stesso punto di vista. Ornella Favero: Turista o no, una regola del genere è una degenerazione comunque. Mi preoccuperei se anche Paolo la pensasse come te. Graziano Scialpi: Non è una degenerazione, è la trasposizione in carcere di un codice di una malavita che aveva però dei limiti: cioè che le donne non si violentano, i bambini né si toccano né si violentano, in chiesa non si ruba. Era una malavita che si autolimitava, ed in carcere ha trasposto questi limiti; se vuoi, la degenerazione c'è di più nella malavita che non ha questi limiti. Ernesto Doni: Una volta in carcere venivano punite anche le malefatte compiute all'esterno da elementi della malavita, cioè se io mi comportavo male fuori nell'ambito delle nostre attività criminose, quando entravo in galera prendevo botte. Così certe persone si comportavano meglio e diventavano più educate proprio quando entravano in carcere. Ornella Favero: Sulla questione del denunciare o meno vorrei tornare indietro, a un romanzo russo dell'ottocento, "I demoni" di Dostoevskij, dove c'è un terrorista che vuole cambiar vita, abbandonando il gruppo di terroristi di cui fa parte, e sa che questo gruppo ha progettato una serie di omicidi: allora quello deve uscire ma stare zitto, o uscire e denunciare ed evitare che vengano uccisi degli innocenti? E non ditemi che questa è un'altra cosa, perché è sempre nelle situazioni estreme che si capisce come certi principi non reggano. Stefano Bentivogli: Secondo me c'è un po' di confusione quando si parla di quello che può essere l'atteggiamento personale di fronte a un caso, una persona, e quando poi invece si va a parlare di regole, di codici previsti da una convivenza comune. Allora se io vengo a sapere che quello potrebbe fare questo o quell'altro, secondo me il problema grosso che si pone è: io in carcere oggi, non vent'anni fa, quanto sono libero di agire secondo coscienza, o quanto sono obbligato ancora da queste regole? Certo le cose sono cambiate, su alcune questioni ha ripreso spazio la possibilità di decidere di comportarsi secondo coscienza, o a volte convenienza. Faccio un altro esempio a caso: fino a poco tempo fa quelli condannati per sfruttamento della prostituzione prendevano i calci nel sedere se stavano in sezione, questo non succede più. Allora cos'è successo, sono improvvisamente diventati carcerariamente corretti questi reati? Oppure è cambiato qualche cosa? La mia impressione è che dal momento che alcune realtà criminali hanno preso più potere, con più presenze all'interno del carcere, certi comportamenti sono diventati corretti. Allora quanto c'è di morale e di etico in tutto ciò? Nicola Sansonna: Adesso c'è senz'altro una grande confusione dove tutti pensano per sé. Non esistono più le grandi aggregazioni di centinaia di persone che facevano parte della stessa batteria (banda), una volta chi comandava in carcere comandava anche fuori. Adesso questo non esiste più. Oggi in carcere c'è anche chi se ne sbatte di tutto e di tuttiStefano Bentivogli: Mi trovo anch'io ad affrontare la realtà del carcere da "mezzo turista", visto che non ho esperienza di carcere prima degli anni 90. La situazione che ho trovato io è proprio il convivere del vecchio codice con quelli nuovi, diversi; c'è poi chi non ha neppure un codice fuori, e quindi figuriamoci se ce l'ha in carcere, dove vive senza regole e se ne sbatte di tutti e di tutto. In passato erano ben definiti i ruoli, non c'erano tremila sfumature e questo aveva anche un suo senso, proprio perché il gruppo criminale nella sua composizione era omogeneo. Erano ladri, comunque persone che per sfizio o per bisogno andavano a procurarsi del denaro. Poi hanno incominciato a cambiare le leggi, a partire da quella sui collaboratori di giustizia che scardina proprio il muro che ci deve essere tra la guardia e il ladro. Si è creata addirittura una zona d'ombra, che è quella che a mio parere semina un sacco di casini, dovuti al fatto che nelle leggi sono previsti dei benefici legati alla buona condotta, ma chi va a stabilire se la mia è buona condotta per ottenere la liberazione anticipata, o se a contare di più è il mio essere passato dalla parte delle guardie? Nicola Sansonna: In ogni caso se parliamo di regole generali, sono quelle che ho ricordato io. Che poi Paolo dica "io denuncerei un serial killer", lui lo può dire liberamente, proprio perché c'è stata una maturazione anche da parte delle teste di cazzo come me, che un po' di anni fa probabilmente gli avrebbero dato delle coltellate se solo avesse parlato così. Sono cambiate le cose, non tutti devono pensarla come me, è giusto che lui la pensi così, la società tramite le persone che lavorano dentro il carcere dovrà portare me a ragionare come lui, non lui come me. Ornella Favero: Comunque al centro del discorso sulla sottocultura e sulla sua degenerazione, resta il rapporto tra legalità e illegalità, tra i "valori" e i comportamenti interni e i comportamenti di chi sta fuori. Riguardo alla regola che Nicola metteva come prima, io dico una cosa: un conto è quello che fa il nome dei complici per ottenere dei benefici, un conto invece è il concetto del denunciare, se c'è, una violazione pesante della legge. Paolo Moresco: Metti caso che vedete uno che investe un bambino e fugge, lo denunciate o no? Elton Kalica: Se uno per principio non vuole denunciare nessuno, penso che il minimo che dovrebbe fare è di prendere il numero di targa, e consegnarlo ai famigliari del bambino. Da quello che ho visto, per come funzionano le cose qui in Italia c'è sempre una divisione tra uno che vive in un certo ambiente "regolare" e vede come punto di riferimento le forze dell'ordine, e invece chi vive in un ambiente legato alla malavita e non si rivolgerà per nessun motivo alle forze dell'ordine, neanche per denunciare reati gravi tipo pedofilia o stupro, perché questo è in contraddizione con l'ambiente in cui sta. Piuttosto informerà del fatto i malavitosi che hanno il controllo della zona, perché questo è il suo punto di riferimento. Ornella Favero: Comunque il nucleo del problema è il rapporto della persona con chi si deve occupare di fare giustizia: il cittadino "normale" non ha certo questa idea della giustizia "fai da te" che molti qui hanno. Ogni "vecchio" detenuto ha soprattutto una cultura della gestione del tempoStefano Bentivogli: Più che un codice, in carcere è necessario comunque assumere una cultura diversa, solo per il fatto del rapporto con il tempo. Quando sono entrato, dopo un po' ho iniziato a capire il problema del tempo chiuso, e ho guardato cosa succedeva attorno a me. Mi sono reso conto che il vecchio detenuto sa in che modo farsi la galera, ha una cultura della gestione del tempo a tutti gli effetti. Se uno guarda la nuova generazione, tipo quelli del circondariale, è tutta un'altra storia, nel senso che lì non si sono ancora consolidate delle strategie per soddisfare i bisogni. E, anche se alcuni punti della vecchia cultura del carcere non piacciono neanche a me, sono comunque dei punti di partenza consolidati con i quali non si può fare a meno di confrontarsi. Anche perché spesso sono le uniche cose che ti restano in mano quando entri. Questo lo dico per esperienza personale, perché io quando sono entrato mi sarei sparato, invece nella prima cella decente dove sono stato, dopo l'isolamento, che era una vecchia cella di vecchi detenuti comuni, ho avuto questo passaggio di incoraggiamento, di attenzioni che trovi solo in questi ambiti. Nicola Sansonna: Io appena entrato ero incazzato e cattivissimo, perché avevo un reato per cui sui giornali chiedevano l'ergastolo: in carcere mi hanno preso per mano e mi hanno fatto scuola nel vero senso della parola, mi hanno fatto vedere cosa c'era di buono, mi hanno insegnato come comportarmi dentro, e come comportarmi con le persone che avevo all'esterno e molte altre cose. Non c'erano educatori allora, c'erano soltanto il prete e gli agenti, e nessun altro. Questa non era cultura, era una politica di sopravvivenza, e vista la mia esperienza è una cosa che io in seguito ho fatto con altri. Se arriva uno nuovo in sezione, cerco prima di vedere che tipo è, poi nella maggior parte dei casi mi metto a disposizione e cerco di aiutarlo per quello che posso. Graziano Scialpi: Io invece ho notato, nei cambiamenti di carcere, che le prime persone che incontri sono le più espansive. In realtà c'è anche qualcuno che sta solo saggiando se hai i soldi, se hai le sigarette, se puoi comprargli il vino. Per cui il primo mese non do confidenza a nessuno, le persone con cui vale la pena di avere a che fare poi emergono da sole. Ornella Favero: Allora, già dal tuo intervento viene fuori che ci sono dei comportamenti di sopraffazione, per esempio di quello che deve comperare per forza delle cose per altri. Ma allora esiste questo tipo di comportamento o sono fantasie? Nicola Sansonna: Sono situazioni che possono crearsi, ma dalla maggior parte di noi non sono accettate, e quindi se qualcuno viene a conoscenza di una situazione di questo tipo, farà il possibile per risolvere in qualche modo il problema. Comunque si tratta sempre di casi isolati. Stefano Bentivogli: È una situazione che è classica nelle sezioni, forse però una volta con la vecchia cultura c'era più solidarietà, adesso che certe regole sono meno sentite c'è il marasma. Adesso nessuno, o quasi, va a rischiare i giorni di liberazione anticipata per risolvere certe questioni. Nicola Sansonna: Sicuramente io non lo farei, però non starei zitto davanti a casi di abusi, anche se non cercherò più di risolvere il problema in modo violento, come avrei fatto una volta. Sandro Calderoni: Una volta si agiva, proprio perché o era bianco o nero, adesso ci sono tante zone d'ombra, c'è confusione, non ci sono più regole fisse, quindi ti muovi in base alla tua coscienza.
Noi diciamo a chi sta fuori che bisogna distinguere tra il reato e la persona che lo commette, ma poi qui dentro cosa facciamo? Nicola Sansonna: Sandro si riferisce a quelli che noi chiamavamo gli "azionisti", erano un gruppo di persone che quando succedeva qualcosa in sezione, quando qualcuno trasgrediva le regole, agivano, cioè si occupavano di risolvere il problema e menavano. Il fatto è che una volta se tu eri in una sezione dove avevano messo un infame o un pedofilo, venivi apostrofato così: "Se ve lo tenete lì vuol dire che siete come lui o incapaci di mandarlo via". Da quando è arrivata la legge Gozzini però automaticamente è andata in cantina la vecchia regola della giustizia "fai da te". Personalmente io preferisco andare finalmente a casa, quindi adesso se ci mettono in sezione uno che disprezziamo, un violentatore o un pedofilo, cerchiamo di farlo andare via in modo diverso, magari facendo capire all'agente che se non cambiano sezione a quella persona non si sa come va a finire... In questo modo nessuno si prende altri anni di galera, lui non si prende le mazzate e gli agenti imparano a non mettere certe persone tra i detenuti comuni. Cerchiamo comunque di tornare al discorso delle regole, ad esempio la regola che in sezione non devono esserci pedofili o responsabili di reati di questo tipo. Possiamo dire che questa regola è condivisa non solo dai detenuti, ma anche dagli agenti e dalla maggior parte delle persone all'esterno. Sarà una regola discutibile ma io la ritengo giusta, perché chi commette atti di un certo tipo nei confronti di persone deboli come donne e bambini non dovrebbe neanche esistere, non sarò mai disposto ad accettarlo come mio pari. Paolo Moresco: Io trovo che ci sia un fondo di ipocrisia in carcere su questa questione, perché noi come giornale, come persone che vogliono dialogare con la società esterna, che discorso facciamo? Diciamo che bisogna distinguere tra il reato e la persona che c'è dietro, che non dobbiamo giudicare la persona per quello che ha fatto, ma dobbiamo vedere com'è la persona e la storia che c'è dietro. Non essere però disposti a farlo per quelle persone che hanno certi tipi di reato mi sembra contraddittorio e ipocrita. Diciamo anche che non solo la condanna a morte non va bene, ma neanche l'ergastolo, perché comunque una persona deve avere una possibilità. Ma se poi dal punto di vista della sottocultura carceraria una possibilità per persone che hanno commesso certi reati non esiste, allora vuol dire che, se potessimo, le uccideremmo. Perché in realtà questa è la risposta: "Non dovrebbero neanche esistere". Io la trovo una cosa di un'assurdità assoluta, e dico: ragioniamoci sopra. Nicola Sansonna: Effettivamente discutere di queste questioni mi ha fatto riflettere su certe contraddizioni pesanti: per esempio, il fatto che qui si considera il violentatore una persona indegna, che non può essere accettata da noi, mentre viene accettato quello che ha ucciso una donna senza violentarla. Ornella Favero: Mi sembra sia proprio questo il punto, bisogna ragionarci su, perché anche fuori io sento delle semplificazioni sulla violenza sessuale e sulla pedofilia, e francamente non mi pare sia quella la strada, il che non vuol dire giustificare il reato. Il ragazzo semi ritardato che fa violenza a un altro, oppure quello che ha subito continuamente violenze nella sua vita, e a sua volta diventa un violentatore: queste sono storie abbastanza diffuse; lì tu non vai a giustificare la violenza, vai a parlare delle persone e fai le dovute differenze, e secondo me anche rispetto all'opinione pubblica ragionare così è importante.
In carcere i principi che c'erano fuori valgono molto poco, perché bisogna iniziare una lotta per non soccombere Elton Kalica: Questa regola di non accettare violentatori tra i detenuti comuni in altre parti del mondo non esiste. Ho letto qualche libro che parla delle carceri negli Stati Uniti, ho visto che lì ci sono parecchi detenuti che stanno scontando condanne per violenze carnali, e che non solo sono tra i detenuti comuni, ma se ne vantano anche, mentre nelle carceri italiane è sempre un reato di cui vergognarsi. Questo forse perché qui la malavita ha cercato di porre dei limiti riguardo alle donne e ai bambini. Poi c'è un altro aspetto delle regole in carcere: se si vuole sapere se il detenuto appena arrivato in sezione ha infamato i suoi compagni durante il processo, non si fa perché si è dispiaciuti per i suoi compagni condannati per colpa sua, ma perché ci si deve difendere: se questa persona l'ha fatto una volta, potrebbe farlo ancora e in qualche modo potrebbe danneggiare gli altri detenuti, insomma si fa per un interesse personale. Secondo me quando si entra in carcere i principi che c'erano fuori valgono molto poco, perché bisogna iniziare una lotta per non soccombere, cioè bisogna difendersi da tutti i comportamenti che possono nuocere, e questo porta a porsi queste regole. Marino Occhipinti: Elton diceva: c'è gente che fuori aveva molti principi e dentro non ne ha più, ma io ne ho conosciuto anche tanti che fuori di principi non ne avevano nemmeno uno e dentro ne hanno un sacco. Improvvisamente riscoprono tutti i buoni principi: questo non si fa, quell'altro non si fa, i bambini non si toccano. Magari fuori ha ucciso venti persone, però il bambino non si tocca. Nicola Sansonna: Per me è una politica di sopravvivenza al carcere, non è che uno prima non avesse dei principi, è che probabilmente qui dentro non sono più validi allo stesso modo. Qui vigono delle regole e prima le capisci meglio vivi. Nel senso che, quando io dico ad una persona di tenere lontano l'infame, lo dico perché so cosa vuol dire la galera, so che è sofferenza, e l'infame si è comportato così per alleviare la sua galera. Magari dopo avere rubato con me ed aver rubato anche la mia parte, non vuole farsi neanche un terzo della galera che devo farmi io. Permettimi di odiarlo. Ornella Favero: Tu hai detto una cosa intelligente, che dimostra che queste cose vanno discusse. Ma un conto è fingere che questi siano dei principi, un conto è dire che sono le leggi per sopravvivere, è radicalmente diverso. Gianfranco Gimona: Abbiamo detto che come regola interna i pedofili e gli infami vengono allontanati da quella che è la società carceraria. In fin dei conti è la stessa cosa che succede fuori, anche fuori il pedofilo va tenuto lontano, non posso accettare un amico o una persona vicina che sia un pedofilo. Ornella Favero: Certo che anche fuori è cosi, però secondo me bisogna distinguere fra le regole per sopravvivere, e quella che uno ritiene sia una regola morale. Portando alle estreme conseguenze il tuo ragionamento, fuori non è che isolerebbero solo il pedofilo o il pentito, isolerebbero l'omicida, il rapinatore, il ladro, questo perché ogni gruppo sociale ha delle sue regole che sono di volta in volta più o meno restrittive. Generalmente la società esterna mette al bando tutte le categorie che si possono trovare all'interno del carcere, quindi tutti voi sareste esclusi. Con questo non sto dicendo che uno non deve avere un giudizio pesantemente negativo sui pedofili, né che voi da domani dovete essere bravi e andare in sezione ad abbracciare i pedofili, non è questo il problema. Quello che però noi cerchiamo di fare, dentro e anche fuori, è mettere in discussione la rigidità della regola, il fatto di scambiare la regola di sopravvivenza per un principio morale.
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