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Misure alternative: è possibile incentivarne la concessione? “É fondamentale che si possa realizzare la trasformazione della persona nella direzione del suo recupero” Un incontro in redazione col Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Giovanni Tamburino, dove si è parlato di misure alternative, di discrezionalità dei magistrati, di reati ostativi alla concessione dei benefici, e di recidiva, che alla fine poi è la vera questione fondamentale
(Incontro avvenuto nel giugno 2007)
a cura della Redazione
Dopo l’indulto, ragionare sul senso della pena e sull’applicazione delle misure alternative è diventato, per noi di Ristretti Orizzonti, un momento fondamentale del nostro lavoro. In questo percorso di approfondimento abbiamo incontrato nella nostra redazione il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, Giovanni Tamburino.
Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Per cominciare, ci piacerebbe capire come si forma la decisione sulle misure alternative nelle Camere di Consiglio: quanto conta il reato nella valutazione della persona che chiede una misura alternativa, e quanto invece le relazioni degli operatori penitenziari e il percorso detentivo? E che ruolo hanno gli esperti nell’ambito della Camera di Consiglio stessa? Giovanni Tamburino: Non ci sono regole fisse rispetto a questa domanda e in particolare rispetto al ruolo che hanno gli esperti. Sapete che il Tribunale di Sorveglianza è formato da due magistrati – li chiamiamo “togati” – cioè di carriera, di professione, e due esperti, che non sono magistrati di carriera e neppure necessariamente dei giuristi. Dunque, non è detto che abbiano conoscenza di diritto, ma debbono averne in materia di aspetti diversi della realtà delle persone. Sono psichiatri, psicologi, criminologi, medici legali, e simili… La magistratura di sorveglianza interviene dopo la condanna, che è la “retribuzione di un reato”, ossia la conseguenza in termini sociali e giuridici di un illecito penale, e arriva alla fine di un processo che deve verificare se vi è responsabilità penale. Questo può sembrare ovvio, ma non lo è se si tiene conto del fatto che, nella fase successiva alla condanna, vi sono delle modificazioni che vanno ad incidere sulla portata della pena. Ci si può chiedere perché la condanna – che è la “giusta retribuzione” del reato commesso – venga cambiata. Perché dico che è la retribuzione “giusta” del reato commesso? Perché il processo, nella fase di cognizione, non mira solo a determinare se vi è stata responsabilità di un determinato reato, ma anche a definire esattamente qual è il trattamento retributivo/sanzionatorio di quel reato. Tant’è vero che ognuno di voi sa che rispetto alla pena – alla commisurazione della pena – i vostri difensori hanno chiesto che la pena venga determinata in un modo piuttosto che nell’altro. Per esempio, con la concessione delle attenuanti, col giudizio di prevalenza delle attenuanti, con il fatto che, se la pena è stabilita dal Codice tra un minimo ed un massimo, ci si possa lamentare del fatto che è stata determinata in modo eccessivo, elevato. Tutto questo si discute già durante il processo che noi chiamiamo di cognizione, cioè il processo che si è concluso con la condanna. Se questo è vero, da un punto di vista concettuale quella condanna è la retribuzione giusta, e allora ci si può chiedere: perché questa condanna viene ritoccata/modificata? Questa domanda è una domanda sociale, nel senso che non ce la stiamo ponendo soltanto noi qui in questo incontro, ma è la società che se lo chiede. Vi sono contestazioni rispetto allo stesso ruolo della Magistratura di Sorveglianza e rispetto al fatto che vi sia una modificazione della pena dopo che essa è stata definita. Una parte dell’opinione pubblica sostiene che ciò determina l’incertezza della pena e chiede che vi sia maggiore certezza della pena. In effetti si può rispondere a questa domanda solo trovando una radice forte a giustificazione della modificazione della sanzione che è stata determinata con la condanna. Intendo dire che questa modificazione non può essere lasciata ai buoni sentimenti, non può essere lasciata ad una valutazione “scarsamente impegnata” e poco consapevole del fatto che si va a toccare un punto molto sentito nella società. Questa radice forte c’è nel nostro sistema istituzionale-giuridico ed è rappresentata dall’art. 27 della Costituzione. La radice forte sta nel fatto che la nostra Costituzione dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Questo e non altro – a mio parere – è ciò che giustifica la possibilità di modificare la pena giusta che è stata determinata con la condanna. Solo un valore forte, costituzionale, come quello della rieducazione giustifica che qualcuno – un giudice – possa ritoccare quello che un altro giudice – alla fine di un percorso, che è un percorso molto complesso, quello del processo – ha definito come pena giusta. Questa rieducazione voi sapete che viene ritenuta un mito da una parte dell’opinione pubblica in Italia e non solo in Italia: un obiettivo mitico in quanto molto difficile da raggiungere e che – alla prova dei fatti – con una certa frequenza statistica fallisce. E quindi ci si è chiesti – in particolare nel sistema americano – se non sia il caso di abbandonare questo obiettivo, ritenendolo appunto troppo difficile da raggiungere. Richiamo il sistema americano non certo perché mi piaccia, ma perché esso rappresenta un punto di riferimento evidentemente non secondario, tenuto conto del fatto che spesso ciò che avviene in quel paese a distanza di tempo si estende ad altri paesi. Per fortuna la cultura europea è una cultura diversa, in particolare diversa è la cultura italiana. Dico per fortuna in quanto ritengo che quell’approccio sia sbagliato, anzi disastroso. Dove c’è l’obiettivo della rieducazione – e noi lo abbiamo come obiettivo posto dalla Costituzione e conseguentemente non eludibile neppure dalla legge ordinaria – questo obiettivo, dunque, passa attraverso la modificazione della persona. Questo è un punto molto importante. Bisogna considerare che, nel giudizio davanti al giudice della cognizione, tale giudizio fa riferimento a un fatto. Noi abbiamo un sistema giuridico – ormai collaudato da secoli – che è un sistema legato al fatto: si giudicano i fatti. Ciò può sembrare ovvio, ma non lo è per nulla, perché non sempre è stato così. Inoltre, vi è chi critica questo sistema, perché trascurerebbe la valutazione della persona. In effetti può accadere che una persona “buona” compia un atto cattivo. E questa persona verrà condannata, nonostante sia “buona”. Ciò accadrà raramente, ma può accadere. Così come accade – per fortuna meno raramente – che una persona “cattiva” compia azioni buone e naturalmente non verrà condannata, pur essendo una persona “cattiva”. Il nostro sistema – e non solo il nostro – è un sistema di giudizio sul fatto: ognuno di noi/voi viene chiamato a rispondere di fatti, dunque di azioni commesse. Questo si chiama, in termini tecnici, il sistema della “tipicità”, perché il fatto deve essere un fatto “tipico”, previsto dalla legge penale. Certo si tiene conto anche della persona, ma solo nel momento in cui si determina la pena, non nel momento in cui si va a vedere se è responsabile o no. Nel momento in cui si applica il criterio costituzionale della rieducazione, il fatto – per così dire – passa in secondo piano. Ciò che conta è la trasformazione della persona. Attenzione: non la persona, ma la trasformazione della stessa, in quanto ciò che si chiede per procedere alla modificazione della sentenza è che la persona voglia trasformarsi e riesca a farlo. Torno a dire: questo è un obiettivo che sembra a molti enorme, eccessivo rispetto alle possibilità che ha un sistema di operare. Però è quello che vuole la Costituzione, ed è anche, se volete, un’utopia – nel senso buono del termine, cioè non qualcosa che è solo un’illusione o una fantasia, ma qualcosa che non esiste ancora, ma può essere raggiunto – dunque un’utopia vostra, di ciascuno di voi, ed anche un’utopia sociale, perché la società spera/confida che questo avvenga. Per ottenere tale risultato si mettono in opera una serie di sistemi, che voi vedete nell’ambito del carcere: vedete ciò che fa l’Amministrazione, ciò che fanno gli operatori. Tutto questo è funzionale a raggiungere quell’obiettivo: che si possa realizzare – nel maggior numero di casi possibile – la trasformazione della persona nella direzione del suo recupero, della sua rieducazione, come dice il testo costituzionale. Quindi certo il reato conta, perché questa trasformazione deve essere messa in relazione a quel soggetto che uno, due, tre... dieci anni prima ha commesso quel determinato reato. Ma quello che è decisivo nella fase post sentenza, che è la fase gestita dalla Magistratura di Sorveglianza, è questo elemento – ricavato da un dato o, meglio, da un insieme di dati – che riguardano la trasformazione di una persona. Gli esperti aiutano concretamente a rendere più completo il giudizio dei magistrati di professione – che sono giuristi e basta – rispetto a questa trasformazione della persona. Il diritto non è in grado da solo, normalmente, di valutare se e quanto vi sia stata questa trasformazione della persona, perché ciò attiene di più ad elementi quali la psicologia e la sfera delle dinamiche relazionali, della famiglia, della società. Sapete infatti che non in tutti i sistemi penitenziari la parte del giurista è importante e pesante come in Italia. Altrove la gestione delle forme/misure alternative è rimessa in maggior misura ad organi amministrativi, che a loro volta agiscono integrati con gli psicologi e gli altri esperti. Anche da noi si ritiene che in questo tipo di valutazione il ruolo del diritto sia certo importante, ma non così pesante da poter poi decidere da solo. Nel nostro sistema, e nel Veneto per il Tribunale di Sorveglianza che presiedo, agli esperti cerchiamo di dare – direi con ottimi risultati – tutta la voce che è utile che abbiano nella decisione. Proprio in questi giorni stiamo rinnovando gli esperti che fanno parte del Tribunale di Sorveglianza, e devo dire che ci sono molte domande per entrare a far parte del Tribunale di Sorveglianza. Valuto ciò come un segno molto positivo, di un interesse forte a far parte di questa funzione sociale e anche forse il segno che ci si rende conto che si va a portare un contributo importante rispetto alla decisione.
Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Il nostro giornale esiste da dieci anni e credo da dieci anni noi discutiamo della discrezionalità dei magistrati perché è un po’ un problema… Se è vero che ogni persona è una persona a sé, è anche vero che ci sono Tribunali di sorveglianza in cui le misure alternative vengono concesse pochissimo e altri molto di più. Dunque noi a più riprese ci siamo domandati se non si possa tendere ad una maggiore uniformità, di modo che la persona non viva come un terno al lotto il fatto di dover scontare la pena in una città piuttosto che in un’altra. Quanto poi alle misure alternative, quando si presenta all’opinione pubblica il tema della pena che “si modifica”, forse sarebbe il caso di enunciare i dati dell’inchiesta fatta dall’Amministrazione penitenziaria, che testimonia come per i detenuti che hanno affrontato un percorso di reinserimento con misure alternative la recidiva crolla al 19% contro un 70-80% della recidiva di coloro che si sono fatti tutta la pena in carcere. Non dovrebbero questi dati far riflettere anche la Magistratura di Sorveglianza? Giovanni Tamburino: Attenzione, perché quando ci sono dei limiti alla discrezionalità, di regola sono limiti che vengono posti al potere del giudice di concedere qualcosa. Non ho mai visto limitazioni alla discrezionalità scritte in questi termini: “Il giudice deve dare questo, dare quell’altro..”. No: tutte le limitazioni della discrezionalità che voi potete vedere nella storia del diritto penitenziario sono limitazioni della discrezionalità in senso inverso, cioè: “Il giudice NON dia in questo caso”, oppure restringono i termini, chiedendo che si sia scontato un certo limite della pena. Facciamo il caso di qualcosa che tutti conoscono: nel nostro Codice penale tutte le pene sono comprese fra un minimo e un massimo. Ebbene, i casi in cui le pene sono irrogate nel massimo sono enormemente più rari di quelli in cui la pena viene data verso il minimo. Direi che anche i casi in cui le pene vengono date a metà tra il minimo e il massimo sono molto, molto più rari di quelli in cui la pena viene data verso il minimo. Questo esempio deve far riflettere su cosa significhi discrezionalità. Perché se la tendenza è quella di dare pene verso il minimo, la riduzione della discrezionalità vorrà dire semplicemente che il minimo viene alzato. Se una misura prevede che – poniamo – la semilibertà possa essere espiata a metà della pena, la riduzione della discrezionalità probabilmente vorrà dire – come è avvenuto – che rispetto a certi reati non si richiede più la metà ma si richiedono i due terzi. Le riduzioni di discrezionalità sono sempre, e direi in modo strutturale, nel senso di restringere. Su questo a me sembra che occorra riflettere quando si dice che c’è eccesso di discrezionalità. Nel caso della Magistratura di Sorveglianza poi si tratta di giudizi estremamente personalizzati: bisogna tener presente cioè che sono giudizi più personalizzati di quanto avvenga nei giudizi della cognizione. Dunque la distinzione da caso a caso è una distinzione inevitabile. Certo, si potrebbe costituire un sistema – e si è anche pensato di farlo nelle riunioni organizzate periodicamente dai Magistrati di Sorveglianza di tutt’Italia – che preveda delle griglie grazie alle quali sia possibile ridurre, restringere i margini della discrezionalità. Personalmente non sono contrario ad un’ipotesi di questo genere, diciamo che di fatto in qualche modo avviene già, nel senso che la regola di fondo della Magistratura di Sorveglianza è che quando si può la misura la si dà. La tendenza è quella di dare tutte le misure possibile, quando si ritiene che il successo, il buon esito sia sicuro o fortemente probabile. È evidente che la Magistratura decide su proiezioni nel futuro e il futuro non lo conosce nessuno, direi neppure l’interessato. Si tratta dunque di un giudizio che ha un margine di rischio. Però la Magistratura di Sorveglianza quando decide tende a rispondere positivamente tutte le volte che ritiene di poterlo fare a ragion veduta: ossia quando c’è una alta probabilità del buon esito della misura. Quindi alla fine, nonostante le potenziali griglie, non si potrà sfuggire a questo imbuto, rappresentato da questa semplice domanda: questa misura riuscirà bene? E questo nell’interesse della persona e anche della tranquillità sociale. Nella valutazione entrano in gioco tutta una serie di elementi che hanno sfaccettature anche molto personali, che dipendono, di nuovo, da moltissimi elementi. La valutazione dei diversi tipi di rischi rientra in queste variabili. Personalmente ritengo che si debba valutare in maniera diversa il rischio di reati a carattere violento dal rischio di altri tipi di reati. Sono tutti reati, dal punto di vista del diritto. Ma, sebbene non ci sia scritto da nessuna parte, secondo la mia opinione la ricaduta – anche sociale – dei reati di tipo violento è diversa da quella degli altri. Certo può accadere che una persona giudicata a Venezia riceva un giudizio diverso da quello di una persona giudicata a Roma. Ma la domanda è: in che misura ciò può essere evitato? E ancora: è poi così giusto che si cerchi di evitarlo? Ancora una volta torno a dire che se si fa una regola generale che deve essere rispettata da tutti, potrebbe essere una regola generale di segno restrittivo.
Ornella Favero: Ma la legge Gozzini per esempio al contrario ha allargato queste possibilità, e comunque magari alcuni criteri per uniformare si potrebbero trovare. Anche questa indagine del DAP sulla recidiva mi pare che dovrebbe essere conosciuta da tutti, perché potrebbe dare nuove motivazioni all’applicazione delle misure alternative Giovanni Tamburino: La Magistratura di Sorveglianza considera le misure alternative, pur con tutte le cautele e l’attenzione che occorrono, un valido strumento. Se potremo dire a ragion veduta – dunque con un sostegno di carattere statistico – che la recidiva diminuisce con le misure alternative, ciò sarà un ulteriore elemento, e molto forte, per utilizzarle ancora di più, perché alla fine tutto si gioca sulla recidiva, che è la vera questione fondamentale, così come sostengo da sempre. Se non si riduce la recidiva siamo al fallimento. Significa che tutto il nostro lavoro, quello degli operatori, della polizia penitenziaria, degli psicologi, degli assistenti sociali, dei volontari… è un lavoro che finisce nel nulla. Dunque porterebbe ad un senso di fallimento e frustrazione tutti coloro che lavorano in questo settore e credono in questo lavoro. Non è solo il fatto che la recidiva è negativa per l’individuo e la società: è un punto che riguarda in modo diretto e specifico chi lavora credendo – sebbene in modo critico/realistico – che questo lavoro debba servire. C’è un grande investimento sociale e anche economico. Una delle ragioni portate nella scelta statunitense di abbandonare il criterio della rieducazione è che costa troppo rispetto a ciò che rende. La pena che tende alla rieducazione è una pena che costa di più in termini economici, ma che è vantaggiosa se vi è una ricaduta sociale di effettivo miglioramento. Ora – ed è per questo che mi trovo in disaccordo con la scelta statunitense – se c’è questa ricaduta, e dunque la riduzione della recidiva, allora non c’è spesa che sia da considerare sprecata. In conclusione, poiché certamente la recidiva è la misura di riferimento, costituisce un forte argomento a favore della applicazione delle misure alternative la riduzione di recidiva che sia ad esse riferibile. Rispetto a questo fenomeno tutti siamo chiamati ad interrogarci. Essendo una persona che da 30 anni e più frequenta le carceri so che non è facile, non sto sottovalutando la realtà di nessuno di voi ed è chiaro che le difficoltà sono enormi. C’è anche una cultura, una mentalità che si è formata. Però ognuno deve chiedersi se è possibile cambiare. Questa idea del cambiamento è sicuramente un’utopia. Ma è altrettanto un’utopia anche rimanere sempre uguali. Non cambiare sembra più semplice perché l’uomo è un animale abitudinario. Però si possono rompere/cambiare anche le abitudini.
Elton Kalica (Ristretti Orizzonti): Lei prima ha detto che la valutazione delle concessione delle misure alternative viene fatta sulla persona, e ha detto anche che rimanere uguali è pure questa un’utopia, perché le persone cambiano. Però ci sono state alcune leggi che hanno escluso certe categorie di reati dalla concessione dei benefici, quindi andando contro entrambi i principi che lei ha appena citato. Nel primo caso perché si annulla l’individualizzazione del trattamento e dunque non si va più a valutare sulla persona e sul suo percorso – appunto personale – ma invece si rimane fermi al titolo del reato. Secondo, si va ad annullare il principio del cambiamento, dando per scontato che chi ha commesso quel reato non può cambiare e quindi non merita di seguire un certo percorso. Non le pare che queste leggi emergenziali – anche se forse necessarie nel momento in cui sono state emanate – siano ingiuste? Giovanni Tamburino: Esattamente come dicevo prima, quando si riduce la discrezionalità sempre la si riduce per contenere l’atteggiamento giudiziario che evidentemente ha dato prova, rispetto alle valutazioni sociali esterne, di lassismo o comunque di atteggiamenti non sufficientemente rigorosi. Questo è avvenuto anche in epoca emergenziale davanti ai fenomeni del terrorismo, della criminalità organizzata, mafiosa etc. Queste riduzioni della discrezionalità – perché in alcuni casi la discrezionalità è completamente tolta, il giudice non ha alcuna possibilità di concedere misure se non ricorrono determinate condizioni – certo sarebbero contro il principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione, se trascurassero completamente gli elementi di trasformazione del soggetto. In effetti ci sono state numerose eccezioni in questo senso, proposte alla Corte Costituzionale, perché si è ritenuto, da parte del giudice dinanzi al quale la questione era stata prospettata, che essa non fosse manifestamente infondata. La Corte Costituzionale ha detto però che non sono norme illegittime perché consentono alla persona di dare un’attestazione del fatto che c’è stato questo cambiamento, sia pure nel caso della criminalità organizzata con la dissociazione. In altri termini la Corte Costituzionale ha salvato queste norme dicendo: “La trasformazione in questi casi deve innanzi tutto essere una rottura col passato che ha visto questa persona inserita in un’associazione per delinquere”. Se non c’è questa rottura/abbandono è inutile pensare di valutare la trasformazione di questa persona, perché questo elemento ha una tale importanza che, se non c’è, diventa preclusivo rispetto alle misure. Da questo punto di vista sono norme che attualmente sono ritenute compatibili col dettato costituzionale. Aggiungo che, guardando alla situazione attuale carica di preoccupazioni perché sotto la minaccia del fenomeno del terrorismo internazionale, ritengo che sia improbabile che ci si adoperi per dei cambiamenti di peso su questo terreno; anzi, dopo il famoso 11 settembre, c’è stata anche una direttiva europea che chiede agli Stati – anche a quelli europei – di affrontare il terrorismo con un’attenzione ed una severità adeguate al rischio che si riscontra in questo fenomeno. Dunque vedo difficile che per reati con connotazioni riferibili al concetto di terrorismo si possa pensare a una marcia indietro rispetto alle restrizioni. Inoltre, considerando quello che avviene in altri paesi, non mi sembra che in Italia ci sia una normativa particolarmente rigida.
Ornella Favero: Però il 4bis comma 1 resta comunque molto rigido. Lei ricordava che il principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione deve sottostare alla condizione che vi sia stata dissociazione. Ovviamente il cambiamento della persona è un percorso lungo, che certo non si compie dall’oggi al domani. Allora quando passano 10-15 anni dal momento della commissione del reato gli elementi che andrebbero valutati dovrebbero riguardare il percorso di quella persona, perché una persona può anche non aver collaborato subito dopo aver commesso il reato, ma avere in seguito compiuto un forte cambiamento. A distanza di anni vedi delle persone che non hanno più nulla a che fare con la malavita – a volte non hanno nemmeno mai avuto a che fare – cui non vengono concesse le misure alternative. Succede quindi che persone che hanno commesso gravissimi reati di sangue possono a un certo punto della loro carcerazione iniziare un percorso che prevede anche di uscire in permesso, e poi in semilibertà, insomma si ritiene, giustamente io credo, che possano essere rieducate, mentre lo stesso non vale per chi ha commesso anni fa un sequestro o un reato fra quelli ostativi, senza spargimento di sangue e, a volte, e penso a tanti stranieri, senza appartenere alla malavita organizzata, ma magari solo a una associazione messa in piedi per quel reato e finita poi nel nulla... allora uno si chiede: ma è davvero giusto? Giovanni Tamburino: Non tutte le regole sono coerenti e logiche, non tutto il sistema penale è privo di sbavature. Ci possono essere contraddizioni ed anche leggi incomprensibili. Allo stato la questione è stata posta più volte e la Corte Costituzionale l’ha sempre respinta. D’altra parte una qualche differenza rispetto ai reati associativi esiste perché – nonostante anche questo sia discutibile – si dice che rispetto ad un’associazione per delinquere il rischio che tu continui a farne parte esiste sino a che non hai rotto, ma per rompere ti devi mettere contro. Questa affermazione, in particolare per quanto riguarda i fenomeni mafiosi, è alquanto concreta: chi ha studiato a fondo questi fenomeni sostiene esattamente questo, e cioè che si rimane legati sino a che non si rompe e per rompere bisogna mettersi contro. Quindi, l’alternativa del legislatore da questo punto di vista e in questi limiti può avere una sua ragionevolezza. Diverso è un reato orrendo, efferato, ma che ha riguardato un legame familiare. Potrebbe essere mille volte più orribile, ma in questo caso non c’è il rischio che un legame associativo rimanga.
Ornella Favero: Le leggi emergenziali credo che stritolino dentro un meccanismo, nato in situazioni particolari, anche persone che, dopo anni, con quel meccanismo e quelle situazioni non c’entrano poi molto. Giovanni Tamburino: La mia opinione – ma dovrebbe cambiare la legge – è che laddove si abbia la certezza che i legami con l’ambiente in cui è avvenuto il reato sono venuti meno, si dovrebbe ammettere la misura.
Elton Kalica: Recentemente è emersa la questione dei controlli della Polizia penitenziaria (invece che delle forze dell’ordine) rispetto alle misure alternative. Noi ci siamo interrogati soprattutto sulle modalità con le quali questi controlli vengono fatti, e sul rischio, sempre presente, che siano davvero “invasivi” e che creino ulteriori squilibri alla situazione già precaria del detenuto nel suo ambiente lavorativo e familiare. Giovanni Tamburino: Su questo punto non voglio esprimere alcuna opinione. Sono però sicuro che i controlli affidati alla Polizia penitenziaria verrebbero certamente svolti con modalità tali da non andare contro le finalità delle misure alternative. E questa mi sembra la questione più importante.
Marino Occhipinti: Per finire, una domanda sulla liberazione condizionale: è formalmente applicabile anche a persone che non hanno mai usufruito dei benefici? Giovanni Tamburino: La liberazione condizionale esisteva prima del 1930 (quando è stato creato il Codice penale) ed è stata sempre applicata. È una misura “forte”, che fino al 1974 veniva concessa dall’allora Ministro di Grazia e Giustizia. La Corte Costituzionale con la sentenza 4 luglio 1974 ha esautorato il Ministro da tale potere, rimettendolo nelle mani della magistratura. Se prima di tale passaggio la liberazione condizionale era molto rara, dopo, quando la possibilità di concederla è stata attribuita alla magistratura, è divenuta più frequente. Ora la sua concessione è tornata ad essere abbastanza rara, perché ci sono i benefici di legge, ma è comunque formalmente applicabile a tutti.
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