Giovanni Pavarin e Antonio Cappelleri

 

Misure alternative e discrezionalità dei Magistrati

Proviamo a immaginare di essere un Tribunale di Sorveglianza

 

Quanto pesa la sentenza e quanto il comportamento in carcere nella concessione delle misure alternative? Ne abbiamo parlato in redazione con i Magistrati di Sorveglianza di Padova, Giovanni Maria Pavarin e Antonino Cappelleri

 

(Incontro avvenuto nel maggio 2007)

 

a cura della Redazione

 

A Padova i Magistrati di Sorveglianza hanno la buona abitudine di entrare in carcere e incontrare i detenuti, e anche di venire nella nostra redazione, e accettare di discutere con noi. Questa volta, il tema dell’incontro è stato proprio quello più “classico”: la discrezionalità dei Magistrati e i criteri sui quali si basano le loro scelte nella concessione delle misure alternative.

 

Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): La prima cosa che vorremmo sapere è quanto influisce il reato, e quanto il fascicolo del detenuto, nel giudizio di un magistrato, che deve valutare se una persona è pronta ad uscire per ricominciare la vita fuori dal carcere, e quanto contano invece il percorso detentivo e le relazioni degli operatori penitenziari: insomma, come formate il vostro giudizio…

Ornella Favero (Ristretti Orizzonti): Sappiamo che qualcuno ha pensato anche all’ipotesi di prevedere una griglia dove tutti questi elementi siano valutati in un modo più chiaro. Io vorrei però toccare anche un altro punto, visto che con voi si può fare dal momento che siete dei Magistrati che entrano in carcere, e non è dappertutto così. Sappiamo che ci sono dei Magistrati di Sorveglianza che non vanno regolarmente in carcere, allora noi ci siamo domandati: come fa un Magistrato a formarsi un’idea sulla persona, sul suo percorso e sulle sue prospettive per il futuro, senza averla mai incontrata?

Giovanni Maria Pavarin: Se io le chiedessi da cosa è formato il giudizio che lei ha di me: se da quello che ci siamo detti o da quello che ha sentito dire di me, o ancora da quello che lei ha letto delle cose che io ho scritto, è difficile quantificare.

Direi che ci interessa tutto, tutto influisce sul giudizio. Il giudizio è il momento finale, che è sempre provvisorio, di una somma di fattori: quindi è ovvio che si parte dalla sentenza; se fosse possibile partiremmo anche da prima, cioè da quando uno è nato, da quello che ha fatto, da quello che era quando ha commesso il reato a quello che invece è diventato dopo. Siamo consapevoli che prima di tutto una persona cambia: ogni giorno noi cambiamo; abbiamo sì un substrato tendenziale di staticità, però ogni persona, anche se non avesse delle relazioni con gli altri, credo che cambierebbe, quindi io non so se la griglia alla quale vi riferite voi sarebbe applicabile ed efficace.

Direi che conta molto la lettura della sentenza, come conta la lettura di quello che uno ha fatto nel corso della detenzione. È ovvio che si tiene conto del fatto se abbia o non abbia avuto delle occasioni trattamentali, perché uno che ha il 41-bis ha pochissimo trattamento, ha meno occasioni di dare prova di essere cambiato rispetto a come è incollato e bollato dal titolo di reato o dal provvedimento ministeriale che lo ha considerato pericoloso, per cui è difficile valutare una persona nel suo complesso. Poi c’è la conoscenza del personale che ha avuto in carico il detenuto, ma nessuno di questi elementi di conoscenza ha un valore prevalente rispetto ad altri, sta a noi fare un saggio mix.

È ovvio che alcuni fattori sono più importanti di altri: se uno ha molte condanne è più difficile vincere un naturale pregiudizio che una persona si forma quando legge il suo curriculum; invece per chi ha una sola condanna il lavoro tutto sommato è più semplice, però va sempre svolto caso per caso. Ci sono persone rispetto alle quali il giudizio è difficilmente formulabile, e ci sono persone verso le quali il giudizio è abbastanza sicuro; ci sono discussioni che in Camera di consiglio possono durare cinque minuti oppure quarantacinque, a seconda del carattere sfuggente del materiale che si ha. Insomma è tutto molto difficile, ma potete anche voi allenarvi a fare questo giochetto: immaginare di essere un Tribunale di Sorveglianza, avere sul tavolo i fascicoli di altri compagni, fingere di essere un uomo che dà o non dà misure alternative e vedere il tipo di discussione che si potrebbe accendere tra di voi.

Vedreste allora come sono diversi i giudizi, e come sia difficile tirare le somme.

Antonino Cappelleri: Ma in ogni caso il reato ha una forte influenza sul giudizio. Ci sono reati che impediscono addirittura il giudizio del Magistrato o del Tribunale perché sono ostativi a determinate misure, oppure prolungano i termini perché si possa accedere alle misure alternative, come nel caso della ripetizione dei reati cioè della recidiva. Questo credo che possa far capire quanto pesante sia in quella griglia di cui dicevamo il significato del reato, che sotto il profilo del principio è anche il momento essenziale dal quale parte il percorso trattamentale e poi rieducativo.

 

Ornella Favero: Sì, è vero che ci sono i reati cosiddetti ostativi, però è una questione abbastanza controversa perché l’articolo 27 della Costituzione dice che comunque la pena deve tendere alla rieducazione. Mi ricordo che a un recente convegno a Roma, indetto dal Coordinamento dei Magistrati di Sorveglianza, l’ex ministro della Giustizia Flick ha sostenuto che non esiste “polifunzionalità” della pena perché la pena deve tendere alla rieducazione, punto e basta, allora che ci siano dei reati ostativi a me sembra che faccia a pugni con la Costituzione, perché inchioda una persona al momento del reato, e non si vede dove possa esserci un percorso graduale di rieducazione. Sento parlare di progressione del trattamento, ma io non la vedo molto se il reato continua ad avere così tanto peso. Il dottor Pavarin ci ha invitati a provare a fare come se fossimo un Tribunale di Sorveglianza: in un certo senso molte volte lo facciamo, perché leggiamo le sentenze di vari Tribunali, e qualche volta si ha la sensazione che conti solo il reato. Per questo forse poniamo il problema di ragionare di più sui criteri per la concessione delle misure alternative.

Giovanni Maria Pavarin: La prima osservazione che un difensore della Costituzione potrebbe fare è che l’articolo 27 dice che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato, ma è tutto da dimostrare che rieducazione significhi la concessione della misura alternativa prima che la pena finisca. L’idea che anche la misura alternativa sia una forma di espressione di quella stessa pena è un’idea non molto affermata ancora nella coscienza giuridica: ci sono reati di elevato allarme sociale, soprattutto perché sono considerati spie di esistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, quindi il legislatore dice: stop. Solo liberazione anticipata, le altre misure alternative no!

Questo naturalmente forse appartiene ancora ad una concezione della pena formatasi nelle emergenze dei primi anni ‘90 che troverei giusto rivedere, su questo sono d’accordo con lei. Il sequestro fatto da una persona che mi sta vicino (Elton Kalica, ndr) può essere meno grave, per le modalità di comportamento, di uno che da una vita rapina le banche con il mitra, ma l’articolo 628 terzo comma del Codice penale non ha sbarramenti, come invece succede per l’articolo 630. Convengo con lei sul fatto che si potrebbe rivedere la tipologia del reato nella prima fase, si potrebbe reintendere il sistema alla luce di criteri diversi, ma questo non toglie l’utilità della legge attuale: mai si sarebbero affrontati i problemi di criminalità organizzata senza pensare alle spinte che abbiamo dovuto dare alle persone che stando dentro alle cosche, hanno collaborato con la giustizia, hanno consentito quindi di sgominare certi fenomeni particolarmente temuti dallo Stato.

Certo che se uno ha una condanna di quel tipo si può dire che in questo momento storico è particolarmente sfortunato, perché per quel reato non è consentito entrare nel merito e creare e costruire una misura alternativa: quindi quando il Tribunale dice che l’istanza è inammissibile, è come se dicesse che non può neanche leggere cosa c’è scritto, perché la legge fa praticamente divieto al giudice di guardare in faccia quel condannato. Una norma che secondo me potrebbe essere ripensata, però non vedo come ci sia una collisione con l’articolo 27 della Costituzione, posto che anche la pena eseguita tutta in carcere può avere una finalità di rieducazione.

 

Ornella Favero: Ma secondo lei è possibile che una persona passi venti, trent’anni tutti in carcere e a fine pena esca rieducata dal carcere?

Giovanni Maria Pavarin: In linea teorica direi di sì. Se il carcere funziona ed è come la legge lo immagina, questa sarebbe la funzione del carcere. Che poi una pena così lunga possa avere questo effetto è del tutto opinabile, visto che in altri Paesi le pene detentive non hanno una durata così elevata, si arriva al massimo a 15 anni.

Antonino Cappelleri: In questo momento in Italia il sistema delle sanzioni prevede pene e misure di sicurezza che sono due binari spesso divergenti. In altri Stati c’è un sistema di pene diverso; per esempio per i “sex offenders” la Svizzera non fissa la pena, come facciamo noi, in un certo periodo – 5, 6 o 7 anni – ma incarcera e condiziona la durata della pena, un po’ come succede per la nostra misura di sicurezza, al superamento della condizione patologica che può spingere al reato; ovviamente questo poggia su un sistema capace di curare. Allora ancora di più se ci fosse una riforma del nostro ormai antichissimo modo di punire, questo discorso del rieducare in carcere e fuori del carcere potrebbe essere modificato e ripensato, rielaborato, quindi non è una cosa così fissa che il carcere non rieduca e la misura alternativa sì.

 

Marino Occhipinti: Le misure alternative forse non rieducano, però almeno dalle ultime statistiche sembra che chi ha fatto un percorso carcerario con le misure alternative recidiva al 19 per cento, mentre la media di chi non ha fatto questo percorso è al 68 per cento, quindi questo dovrebbe essere un bell’indicatore per quando si tratta di concedere le misure alternative.

Antonino Cappelleri: Certo, però è un indicatore tendenziale, valido se la statistica è stata fatta bene e se i dati che la sorreggono sono giusti. Allora questa è l’obiezione principale: se io vengo ammesso alle misure alternative sono già ad un certo punto della rieducazione, quindi in realtà i due campioni, quello che ha recidiva in più e quello che ne ha in meno, sono già distinti alla base come tendenza alla recidiva, però devo dire che in ogni caso questa prima statistica che esce dopo anni e anni di silenzio è indubbiamente confortante sulla validità delle misure alternative.

 

Elton Kalica: Sono tanti che prendono con molta cautela i dati di questa statistica, perché dicono che chi è in misura alternativa è un soggetto che è portato a non recidivare o che comunque ha avuto un percorso positivo, però la concessione delle misure alternative non è che sia così uniforme, magari a Padova le misure alternative vengono date con più facilità rispetto ad altre città, allora vorrei dire che non tutti quelli che non escono con le misure alternative sono delle persone tendenzialmente portate a recidivare, quindi quando si dice che quasi il 70 per cento di chi sta in carcere fino alla fine della pena poi torna a recidivare, in quelle statistiche rientrano anche i detenuti di quelle città, dove le misure alternative vengono applicate pochissimo. E mi pare anche poco ovvio che i detenuti di Padova siano migliori dei detenuti di Napoli, e che sia colpa dei detenuti di quelle città se non vengono ammessi alle misure alternative.

Giovanni Maria Pavarin: È ovvio però che la recidiva interessa più quelli che non hanno avuto una misura alternativa, ma perché? Perché erano quelli che evidentemente o non erano meritevoli di averle oppure non avevano le condizioni per averle, come la casa, il lavoro eccetera. Quindi sono usciti dal carcere nelle stesse condizioni in cui sono entrati, e nulla è cambiato: per cui è un dato che trovo abbastanza logico e scontato, anche se sono io per primo a dire che quando uno ha chiesto fiducia, la merita e la ottiene e comincia a mettere il naso fuori dal carcere, è molto più facile che si incanali bene sul binario giusto prima che la pena finisca, binario dal quale poi non trova motivi per uscire, però i due dati vano letti insieme.

Sulla valutazione della diversa applicazione delle misure da parte dei Tribunali di Sorveglianza, è ovvio che già gli uomini si trovano in disaccordo tra di loro quando devono ricostruire i fatti del passato, e devono giudicare se Tizio ha commesso o no una certa azione: figuratevi il disaccordo che ci può essere quando si prova a prevedere il futuro, cioè la previsione di un futuro incerto è fonte di valutazioni diverse e difformi. Non è un giudizio scientifico, è un giudizio prognostico che prevede qualcosa che nessuno sa come finirà. Poi ci sono Tribunali con realtà diverse, per esempio il mio collega di L’Aquila ogni tanto mi dice: “Cosa vuoi che faccia con i miei detenuti? Sono tutti con il 41-bis, non posso dare niente, li conosco tutti, mangio anche con loro, ma non possono avere benefici e non dipende da me…”. Quindi dipende anche dal tipo di reato; ci sono poi Tribunali che sono più severi o più seri, non lo so, usate il termine che volete; a parte che il Tribunale è fatto da due giudici togati e da due laici, che sono l’espressione della società civile, e oltre che ad essere esperti fanno da cassa di risonanza della società rispetto al fenomeno della pena: è un modo per far partecipare il popolo all’amministrazione della giustizia penale, per cui vale il loro voto come il nostro, non è che possiamo fare come vogliamo noi.

Mi rendo anch’io conto che ci sono dei Tribunali che dispensano le misure alternative con il contagocce, che però sono ampiamente compensati da altri Tribunali che forse tendono ad un investimento maggiore nella concessione di una fiducia non sempre esattamente certificata - almeno nelle motivazioni delle ordinanze. Per uniformare le varie realtà, si potrebbe fare anche diversamente: invece di lasciar decidere al Tribunale se dare la misura alternativa negli ultimi tre anni, si potrebbe prevederne la concessione “d’ufficio” salvo prova contraria, cioè invece di dartela te la devono respingere con delle motivazioni. Questo però implicherebbe che il carcere funzionasse in tutte le sue componenti, quindi non solo nell’area della sicurezza, ma soprattutto nell’area rieducativa. Però qui a Padova è un caso eccezionale, anche perché ci sono spinte positive sostenute dalla società civile che entra in carcere, più che dall’amministrazione che non ce la fa perché gli organici sono limitati e le presenze degli operatori insufficienti. In un carcere così quanti educatori sono previsti e quanti in realtà ce ne sono? Però se il carcere funzionasse e raggiungesse lo scopo per cui è stato costruito, si potrebbe ad esempio arrivare a dire che negli ultimi tre anni tu vai in affidamento in prova salvo che qualcuno (il Tribunale) dica che tu non te lo meriti, non invece come adesso che bisogna dire che te lo meriti per averlo.

Antonino Cappelleri: C’è poi da dire un’altra cosa che riguarda la prospettiva di codicizzare le attuali misure alternative come pene ordinarie, e non, come oggi, trasformazioni della pena inflitta: è previsto ad esempio anche nella stessa miniriforma Mastella che possa essere il Giudice di merito – così come concede la sospensione condizionale della pena – a concedere direttamente una misura alternativa. A me fa impressione l’idea di spostare la misura alternativa dalla competenza del Magistrato di Sorveglianza a quella del Giudice di merito. Ad esempio, io vengo accusato di furto e portato davanti al giudice. Posso prendere un tot di reclusione oppure, secondo la riforma che può essere approvata, posso essere direttamente rimesso in misura alternativa che, come suo presupposto, ha una sorta di patto tra me e lo Stato perché io accetti di essere risocializzato. Il mio difensore dirà al Giudice che sono innocente, che il furto non l’ho fatto, e mi chiedo come si possa nello stesso tempo dire: “Beh, se però lo ha fatto è comunque pentito di averlo fatto e merita una misura alternativa…”. Mi sembra veramente una difficoltà grossissima per la stessa parte che si difende e che si difende schizofrenicamente in questo senso, e per il Giudice del processo penale, perché gli è vietata l’osservazione della personalità dell’interessato, per esempio gli è vietata la perizia criminologica sulla pericolosità sociale. Mi chiedo quindi come si possa approvare una norma del genere, se non con un pasticcio, a meno di creare un processo penale a due fasi: la prima sulla responsabilità del fatto e la seconda poi sulla personalità e capacità di rieducazione, il che significa che se oggi un processo può durare anche dieci, quindici anni, immagino che poi duri ancora di più.

 

Ornella Favero: Vorrei tornare un attimo a quello che diceva il dottor Pavarin, che è poi l’obiezione che viene fatta sulle percentuali della recidiva per chi ha portato a termine un percorso con le misure alternative: è ovvio, si dice, queste persone erano già quelle più “attrezzate”. Guardi, ho riflettuto un attimo, e non sono del tutto d’accordo. Cioè, lei ha ragione a dirlo guardando Padova, che è una città in cui mediamente le misure alternative vengono applicate, ma non credo, per esempio, che persone incarcerate in altre città siano più criminali dei detenuti che vanno in misura alternativa a Padova. Allora ritengo che in quella statistica siano incluse tantissime persone che avevano le stesse condizioni dei detenuti che a Padova vanno in misura alternativa e però non ci vanno: perché?

Penso che lo sappiate meglio di me, che ci sono moltissimi rigetti legati quasi esclusivamente al reato, con persone vicinissime al fine pena che però non escono. Allora quella statistica è più interessante di quel che sembra. Anche perché mi sono studiata tante altre ricerche – più limitate, è vero – fatte sulle misure alternative, per esempio in Toscana, ed erano statistiche che dicevano che comunque, anche nell’ambito dei soggetti più a rischio tipo i tossicodipendenti ed i recidivi, quelli che hanno un percorso graduale che comprende l’essere messi fuori in misura alternativa, come fase di “decompressione” prima della libertà, raggiungono dei risultati apprezzabili.

D’altra parte l’avete detto tutti che con l’indulto sono state messe fuori delle persone senza controlli, senza niente, ed era meglio se venivano date loro le misure alternative, così da farle uscire in modo graduale e controllato. Quindi veramente, quando ai cittadini si parla di sicurezza, bisogna avere il coraggio di dire che forse tenere la gente in galera fino alla fine per la sicurezza non è un grande investimento. Cioè il Magistrato che non dà le misure alternative forse si sente più tutelato, però la società non è più tutelata se si mettono fuori le persone a fine pena.

Giovanni Maria Pavarin: Quello che lei dice è chiarissimo, ma diciamo che bisogna partire dal presupposto che se c’è una tendenza a conservare la pena come in origine è stata decisa dal giudice della cognizione, perché di questo si tratta, c’è chi dà le misure più volentieri e chi le dà meno volentieri. Chi le dà meno volentieri perché lo fa? Perché gli sembra di fare uno strappo a quello che il Giudice della cognizione ha deciso, perché non si fida, perché ha paura, perché gli sembra di dover interpretare così il ruolo che la società gli demanda facendo il Magistrato di Sorveglianza? Bisogna sempre chiedersi il perché del comportamento degli altri.

 

Ornella Favero: La società avanza certe richieste a volte perché è male informata.

Giovanni Maria Pavarin: Ma non scandalizzatevi e tentate di capire; insomma, è giusto anche indignarsi ma non arrabbiarsi, tentare sempre di capire gli altri e pensare di costruire il dialogo con le persone che decidono in un certo modo. Ed è dal dialogo, dal confronto, che nascono la caduta delle paure oppure la miglior comprensione delle ragioni degli altri, e anche un abbassamento del livello di sdegno, perché noi ci sdegniamo a volte quando gli altri tengono un comportamento che noi non avremmo tenuto se fossimo stati nei loro panni. Il fatto che ci sono delle decisioni che vengono prese nel posto X, e che non sarebbero state prese nel posto Y, appartiene alla vita, per cui mi sembra giusto quello che voi dite. Però pensate anche che uno dei parametri attraverso i quali noi potremmo e vorremmo misurare il livello di maturità della persona è quello dell’accettazione della pena.

Mi hanno dato dieci anni, dieci anni sono, non hanno detto dieci anni, forse sette anni sicuri e tre anni in misura alternativa. Il sistema è congegnato in modo tale che la pena che è stata inflitta è quella che poi si può trasformare se e quando e con gli strumenti che sapete, però il primo momento di pacificazione della persona con se stessa è quello di accettare la pena. Chiedere la trasformazione della pena in misure alternative non è un diritto soggettivo, è un’ipotesi che la legge fa e che prevede che sia possibile raggiungere con il concorso di tanti elementi, tra cui, purtroppo, ha un peso grandissimo la valutazione discrezionale del magistrato. È vero che è una discrezionalità vincolata perché si basa su certi parametri, però c’è pur sempre tanta discrezionalità in questa materia, discrezionalità intesa come carenza di binari, di ragionamenti imposti dalla legge. Bisogna accettare il fatto che un Magistrato la eserciti in un modo e un altro Magistrato in un modo diverso; la legge dice “quando uno se lo merita, quando è poco pericoloso…”, ma non ti spiega in cosa ciò consista di preciso. È ovvio, una persona può leggere un’ordinanza di rigetto e non trovarsi come la descrivono le motivazioni del rigetto o le carte degli operatori: “Ma io non sono più così, no, no, questi non hanno capito niente…”, e però allora questo è un motivo in più per farsi conoscere oppure per dire in maniera pacifica che non condividete il giudizio dato nei vostri confronti, però non bisogna scandalizzarsi più di tanto. Appartiene proprio al gioco della vita.

 

Ornella Favero: Sì, ma qui non è in discussione la vita, è in discussione la “non vita”, perché in carcere l’accettazione delle persone ha dei limiti, e lo diceva anche lei che nel nostro Paese ci sono pene molto alte, allora pene alte – perché siccome ci sono le misure alternative le condanne spesso vengono date con larga generosità – e per giunta fatte tutte in carcere, finisce davvero che c’è una differenza enorme tra una pena scontata a Padova e una in un’altra città, insomma è dura da accettare. Va bene la discrezionalità, però c’è qualcosa che forse non funziona nel sistema.

Elton Kalica: Io vorrei fare una breve considerazione sul concetto di accettazione. La mia opinione è che non ci sono alternative ad accettare la condanna che ci è stata inflitta, però io distinguerei l’accettazione della pena e l’accettazione della condizione in cui questa pena viene espiata. Sta nella natura degli uomini cercare di migliorare le condizioni in cui vivono, quindi io credo che non sia così ragionevole che un detenuto accetti la condizione in cui vive con rassegnazione. Fino a qualche anno fa ero in una sezione di Alta Sicurezza, e oggi non sarei in redazione se non avessi fatto dei progressi interiori, ma anche se non mi fossi battuto per uscire da lì, per ribadire che io c’entravo poco con quella realtà. Cioè nel mio spirito ho accettato la condanna, ma non ho accettato di dover stare, per il mio reato, in Alta Sicurezza e per questo ho cercato di andarmene da quella sezione.

Antonino Cappelleri: Quindi, aldilà del discorso sulla diversità dei metri di giudizio delle magistrature delle varie zone, io leggo una prima critica alla pena, cioè quello che stride è sentirsi sottoposti a una pena che non funziona, mi pare che alla fine vogliamo dire questo.

In qualche modo bisogna però superare la netta separazione pena carcere-pena extra carcere, pena cattiva-pena buona. In realtà il carcere non è un monolite, qui a Padova, per esempio, secondo me abbiamo un carcere che funziona meglio degli altri. Alla fine devo anche accettare la sorte, tutto è perfettibile ma ci sono dei limiti anche obiettivi, di opinione pubblica, della classe politica…

 

Marino Occhipinti: Guardi, non è comunque facile accettare la sorte. A volte ci arrivano in redazione lettere di persone detenute in altre carceri, e si nota subito la “rabbia” di chi vive una detenzione di venti ore al giorno chiuso in cella e le altre tre-quattro in un cortile a camminare avanti e indietro rispetto a chi, invece, vive una detenzione un po’ più “costruttiva”, magari con un lavoro, con lo studio, con le attività, con i volontari che entrano. Insomma, penso che quando vengono date delle possibilità, e qui a Padova le opportunità ci sono, le persone possono anche cambiare, riflettere. È ovvio che non può essere data a tutti l’opportunità di sedersi di fronte ad Olga D’Antona, di ascoltarla, di percepire il suo dolore, così come forse non è possibile partecipare a qualcosa come 16 incontri con 70-80 studenti ogni volta, come abbiamo fatto noi in questi mesi, ed anche se è una fatica terribile, penso però che siano delle opportunità irripetibili.

Giovanni Maria Pavarin: Mi colpisce però questa idea tutta italiana di voler sempre cambiare le leggi. La Costituzione non va bene? Allora cambiamola, mentre in realtà leggendola ho avuto la sensazione che sia bellissima, ma a volte, siccome non ci va bene la realtà così com’è, ne pretendiamo un’altra senza renderci conto che basterebbe attuare gli strumenti che abbiamo. Se noi dessimo attuazione all’Ordinamento penitenziario non avremmo l’esempio che ha fatto Marino Occhipinti sul detenuto che sta venti ore in cella: io vedo, leggo, vi seguo sempre, e sono contento perché usate il vostro tempo e le vostre capacità, e allora perché non lo fate anche per chiedere quello che già rientra nei vostri diritti? Chiedete allo Stato che attui quello che ha scritto per voi: cominciate a chiedere le cose che vi spettano con calma ma anche con fermezza. Per sistemare 50mila persone in carcere non servono miliardi di euro, ne servono molto ma molto meno, e vincendo questa battaglia civile si convincerà l’opinione pubblica che se si chiedono queste cose nessuno può dire nulla. È solo il carcere che funziona davvero quello che può davvero produrre misure alternative, stroncare la recidiva e fare tutte le cose utili che sono nella sua natura e nelle sue funzioni.

 

 

Precedente Home Su Successiva