Intervista Davide Pinardi

 

Lezioni di scrittura con Davide Pinardi

Incontro nella redazione di Ristretti Orizzonti, aprile 2005

 

Davide Pinardi ha insegnato italiano e geografia nel carcere milanese di San Vittore per vari anni. Nel 1992 ha lasciato: “Anzitutto perché avevo deciso di smettere di insegnare, poi perché pensavo che l’apprendimento, da parte dei detenuti, dovesse avere orizzonti più ampi e aprirsi all’esterno. In quel momento, ma credo che le cose siano cambiate, prevaleva l’idea che l’insegnamento dovesse indurre il detenuto a riflettere sulla sua condizione. I miei alunni non ne avevano alcuna voglia: spesso alcuni rifiutavano di venire a fare scuola perché, mi dicevano, vivevano in galera tutto il tempo e non vedevano il motivo di parlare di galera anche nelle ore di studio”.

Ma lo scrittore milanese continua ad avere rapporti, anche se saltuari, con il carcere. Lo abbiamo invitato nella nostra redazione: ha accettato con entusiasmo e si è trattenuto con noi per due giorni, nel corso dei quali ci ha spiegato le tecniche da utilizzare “per scrivere meglio”.

 

Davide Pinardi: Dunque mi presento. Ho insegnato a San Vittore, come esperienza direttamente legata al carcere, poi qualche volta ho fatto dei viaggi per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per fare delle relazioni, sempre da scrittore, perché io sono soprattutto uno scrittore di narrativa. Ho scritto un libro, in particolare, ispirato al carcere, che è stato forse l’elemento che poi ci ha fatto conoscere. Poi ho anche una attività televisiva seria con la televisione svizzera, nel senso che non ho praticamente rapporti con la televisione italiana, mentre con la Svizzera ho abbastanza lavorato anche con il cinema. Tra l’altro quando sono venuto a far vedere un testo, una sceneggiatura ispirata alla vita carceraria, ed era anche stato presentato al ministero, aveva vinto anche il finanziamento. Poi quest’anno con un colpo di mano, hanno tolto i finanziamenti a questo film, che sarebbe stato molto interessante, anche perché volevo continuare a parlarne, perché avevo avuto dei buoni consigli di quando se ne era discusso qui.

Diciamo che ho un po’ di esperienza giornalistica, quindi se vi interessa qualche cosa su questo fronte se ne può parlare. In più ho anche esperienza nel campo della didattica della scrittura, insegnamento della scrittura, in particolare la scrittura della narrativa, vale a dire la scrittura di romanzi, racconti, sceneggiature di film eccetera. Quindi direi che io dovrei essere un po’ sollecitato in funzione al vostro interesse, perché in relazione a quello che vi può interessare, io posso cercare di fare dei ragionamenti e consigliare le cose basilari, e insegnarvi anche qualche trucco. Magari cercherò di andare più a fondo, e se qualcuno di voi avesse l’idea di scrivere un lavoro, più complesso e articolato, potrei andare in questa direzione. Nel senso  di sviluppare, approfondire un po’ la riflessione su cosa vuol dire scrivere, e soprattutto di cosa vuol dire comunicare un’esperienza di tipo complesso.

Quando io scrivo un racconto non posso credere di limitarmi ad alcune regole tecniche, devo cercare di capire chi possa essere il mio lettore e attivare un meccanismo di comunicazione. Quindi possiamo prendere varie direzioni, devo dire che dipende molto dal vostro livello di interesse di approfondimento, perché se tutti voi foste in un corso di scrittura, io so che ho davanti delle persone che sono interessate a scrivere dei romanzi. Allora si fa un certo lavoro, un certo lavoro di profondità. Se invece non è quello l’obbiettivo ma è quello di scrivere più semplicemente degli articoli come quelli di Ristretti, che a mio parere alcuni sono molto belli, molto forti, molto potenti, allora il mio intervento sarà diverso. Gli articoli ovviamente non hanno le dimensioni di un romanzo, non sono 200 pagine, ma sono 3 pagine, quindi si chiedono cose diverse.

Ornella Favero: Lo stile che usiamo in Ristretti non è esattamente una scrittura giornalistica, ma un po’ una commistione fra una scrittura giornalistica e la narrazione, perché ci sono molte storie raccontate. In più adesso abbiamo un po’ unificato il lavoro redazionale con il TG 2 Palazzi, quindi ci interessano due tipi di comunicazione: uno è la scrittura giornalistica e questa commistione con la scrittura narrativa, l’altro è la comunicazione attraverso il mezzo televisivo. Più o meno sono queste le cose che ci interessano di più. Io tra l’altro ho qui un esempio, ho preso Nicola come cavia, che ha fatto un articolo sull’esperienza di Avvocato di strada che ha dei pezzi bellissimi. Come al solito Nicola ha delle cose caotiche, perché l’organizzazione non è esattamente la sua caratteristica. Molto spesso quando vengo qui, e prendo in mano gli articoli trovo del materiale bello, interessante, a volte un disordine dal punto di vista narrativo, cioè poca esperienza nel costruire un testo. Questo insomma è uno dei difetti, quindi per esempio i limiti, i paletti, la costruzione, l’ordine nel costruire un testo. Ho visto anche i nuovi, ad esempio Mauro e altri che mi hanno dato dei testi, le idee ci sono, ma a volte è proprio l’organizzazione che salta da un punto all’altro e il lettore deve fare dello slalom.

Marino Occhipinti: Io credo che la maggior parte di noi, quasi tutti all’infuori penso di Paolo e Graziano, quello che hanno fatto fino ad adesso è di aver scritto ai propri familiari, e poi ci troviamo qui a scrivere degli articoli, e la prima cosa che mi viene da chiedere è come si comincia a scrivere un racconto. L’inizio, insomma, l’incipit.

Davide Pinardi: Vi do il mio parere, allora, e scusatemi se vi sembra che parta un po’ da lontano, ma credo che sia una questione fondamentale. Se tu scrivi una lettera a casa, o scrivi una pagina di diario, devi scrivere col cuore, cioè ci deve essere lo stomaco dentro, ci deve essere la tua dimensione quotidiana. Se tu scrivi un articolo o un racconto, tu devi sapere che fai un prodotto artificiale, cioè devi avere una mediazione. Non puoi credere che la tua emozionalità e il tuo sentimento possano arrivare così automaticamente solo perché lo metti sulla pagina; allora tu devi fare un operazione mentale. Però viene subito un sospetto, perchè se io faccio un operazione mentale, il mio prodotto diventa freddo, astratto, intellettuale, e questo è un pericolo che tu devi evitare di correre, ma tu devi fare un’operazione mentale. Se vuoi scrivere un buon articolo e un buon racconto, devi cercare di partire mettendoci l’emozione, lo stomaco, il cuore, ci vuole la parte bassa delle viscere, ma ci vuole anche la testa che deve dare un ordine di fruibilità, perché altrimenti chi ti legge non riesce a capire quello che stai facendo. Quindi vedete, se noi ragioniamo su certi film, su dei racconti, su un libro che ci hanno molto emozionato, dobbiamo smontarlo, dobbiamo vederlo perché ci accorgiamo che chi l’ha creato e costruito, ha fatto un operazione mentale per gestire l’emozione, per gestire la problematica. Un film non si gira, non si fa col cuore, cioè parte dal cuore, ma passa attraverso la testa, se non si fa questa operazione, non riesce. Cioè diciamo che il prodotto di quello che dovrebbe saltare fuori non è efficace come potrebbe invece esserlo.

Gianfranco Gimona: Quindi prima il messaggio poi il sentimento, cioè quello che voglio comunicare. E solo successivamente devo sceneggiare ed impressionare?

Davide Pinardi: Sì, esatto, devo sceneggiare. Allora se io faccio un articolo su un banalissimo incidente stradale, per esempio prendiamo un caso classico di incidente stradale: perché un lettore dovrebbe essere particolarmente toccato da un incidente stradale? Non basta vedere la scena, perché molto spesso ci sono dei meccanismi di difesa. Se io poi in realtà vedo una scena, il vedere, l’essere testimone di qualche cosa, può impressionare me che la vedo. Ma se vi dico che mentre andavo in autostrada, a un certo punto ho visto un motociclista che non so, è stato toccato da un camion ed è caduto andando a finire contro il guardrail, voi dite poveraccio, però non vi scatta un meccanismo emotivo, emozionale. Io devo costruire mentalmente un modo per far sì che chi legge questa notizia senta che quella è stata una cosa grave, tremenda, dura, emozionalmente pesante, allora possiamo riflettere su come si fa a costruire l’emozione, come si fa a sceneggiare.

Ma se noi ci fidiamo soltanto del fatto è troppo poco, perché o il fatto è veramente incredibile e straordinario, ma è molto raro che i fatti siano veramente straordinari, oppure non serve a nulla. Può essere straordinario una bomba atomica, un avvelenamento, in una metropolitana, di massa, cioè ci deve essere qualcosa di forte. Ma le storie individuali non sono di per sé sufficienti a perforare la crosta dell’indifferenza altrui, la crosta dell’indifferenza altrui che è la crosta di tutti noi, perché noi stessi siamo forse per abitudine, per necessità, per sopravivenza tesi a isolarci dalle cose degli altri. Per riuscire a superare questa cosa, il racconto deve essere sceneggiato, strutturato, deve esserci un’operazione mentale. Se volete vi posso dare delle indicazioni su come si fa a sceneggiare una cosa, spesso nasce come un senso di fastidio quando ci dicono certe cose, allora sceneggi quella storia, la strutturi, la pensi mentalmente. Allora uno dice, beh allora è fredda, è tecnica, è un imbroglio e c’è l’inganno dietro.

Sandro Calderoni: Il fatto che  un incidente debba essere scritto in una certa maniera, perché sennò diventa banale, vuol dire che c’è una notizia che comunque viene applicata, quindi non è la notizia vera quella che c’è.

Davide Pinardi: Io sono perfettamente d’accordo, il problema è che molto spesso, questo sceneggiare, questo costruire la notizia è un processo di falsificazione. Allora ci deve essere la capacità dell’autore di sapere che lui deve tenere sotto controllo questa falsificazione, deve combatterla questa falsificazione, e far sì che invece sia una autentificazione che diventi vera, ancora più vera, e come si fa? Questo è il problema. Allora prendiamo l’esempio dell’incidente stradale, direi sostanzialmente che ci sono cinque cose che devono essere utilizzate per raccontare bene un avvenimento. Queste cinque cose possono riassumersi in un contesto, bisogna raccontare non dei fatti, ma bisogna raccontare dei mondi. Quando io racconto un incidente stradale non racconto un fatto, io racconto un mondo che si rompe, il mondo di una persona che si rompe, il suo mondo e il mondo che gli sta attorno.

Devo riuscire a far in modo che non sia un fantoccio quello che cade. Perché guardate che, purtroppo, molto di quello che vediamo, ad esempio quando tu vedi un incidente stradale o vedi qualche cosa di spiacevole puoi avere un senso di pietà, puoi avere uno slancio per intervenire. Se poi vedi che la persona è assistita, e vedi che non puoi far niente, vai e riparti. Diverso è se tu ti rendi conto e riesci a trasmettere il mondo di questa persona e il mondo che lo circondava e il mondo in cui questa persona è inserita. Allora che cosa è il mondo di una persona? Il mondo di una persona è fatta di alcune cose, se volete io uso dei termini greci, perché io li ho copiati da un famoso antropologo che è morto di recente e ho usato queste sue definizioni, ma noi possiamo usarle anche in altro modo, il problema è il concetto che gli ci sta dietro.

Ornella Favero: Scusa, se vediamo come esempio un fatto di cronaca, per esempio quello che hanno fatto vedere a “Porta a porta”, quello della madre che forse ha ucciso il bambino, visto che è un nostro tema e ieri ne hanno parlato molto, anche con questo contesto della madre che voleva fare la velina, ecco scegliamo un tema di cui possiamo parlare.

Davide Pinardi: Allora ci sono cinque parole che a mio parere si possono mettere in una sorta di cerchio che possiamo chiamare pentagramma. Se nel mio racconto riesco a toccarle tutte e cinque, allora probabilmente sto creando un buon racconto, sto facendo un buon racconto e un buon articolo, se ne dimentico due o tre probabilmente l’articolo è carente. Allora il primo elemento. Partiamo dal più semplice, che io chiamo topos, i luoghi. Qualunque storia avviene in luoghi, non è in astratto, non è nell’aria, è in luoghi precisi. Tanto è vero che quando fanno un film la prima cosa che ci domandano è il set, in che posto li ambientiamo che è fondamentale, perché se tu la stessa storia la metti su una spiaggia o su una autostrada, sono due realtà che assumono due valenze diverse. Quindi la prima cosa a cui devi pensare sono i luoghi, allora se io scrivo la storia di questa mamma di Lecco, io la prima cosa che devo fare è pensare ai luoghi di questa storia.

I luoghi di questa storia devono essere ovviamente i più significativi possibili. La casa che è una tipica casa prealpina, abbastanza modesta con le porte di metallo, con i vetri smerigliati, con l’ottone anodizzato. Poi non so, in un cortile di quelli dove c’è una macchina posteggiata, cioè di un nucleo famigliare abbastanza benestante, né povero né ricco, quindi cosa significa questo “che sia una casa né povera né ricca”? Che la mia non è automaticamente una storia di miseria, quindi è una condizione sociale tutto sommato accettabile. Il padre, mi sembra il marito, faceva il lavoro in una azienda, quindi vuol dire che non era un lavoro di miseria. La seconda cosa  a cui posso pensare, come luoghi, è per esempio un luogo dove vengono fatti dei provini per lavorare in televisione. Voi vedete che automaticamente ponendo due luoghi e rafforzandoli io comincio a costruire visivamente la storia, quindi non è una storia in astratto. Di questo bisogna sempre ricordarsi.

Ecco, il primo procedimento che faccio è quello di passare dal cuore, la storia di una madre che uccide il figlio, noi facciamo finta che sia così, poi non lo so come il giudice alla fine concluderà la vicenda. Quindi voi vedete che faccio già un primo ragionamento, identifico dei luoghi che rappresentino fortemente quella vicenda, posso anche addirittura, se scrivo una fiction, se scrivo una cosa di fantasia, perché vedete stiamo un po’ a cavallo tra articolo e racconto, se faccio l’articolo vero devo pensare al vero, ai veri luoghi, se faccio un racconto posso pensare ai luoghi. Per esempio il bagno dov’è avvenuto questo fatto, o la sedia, il luogo dove lei si è legata. Quindi vedete che non sono più luoghi generici, devono essere luoghi che hanno una valenza significativa. Quindi come primo punto i luoghi, che io ho chiamato topos.

Al secondo punto ci sono i logos, che è sempre una parola greca ma usando la versione italiana significa linguaggi. I linguaggi non sono soltanto i linguaggi verbali, quelli che si usano parlando, ma sono i linguaggi di ogni genere: i linguaggi gestuali, i linguaggi diciamo di relazione, i linguaggi di vestiti, il modo in cui  uno si veste. Tutto attorno a noi trasmette i linguaggi in quanto vettori. Ecco, nella nostra vicenda quali sono i linguaggi forti? Sono per esempio una certa rispettabilità, guardate che in un racconto possono essere piccolissime cose, ma possono essere per esempio il modo in cui è vestita una persona, i modi in cui si vestono le persone sono sempre molto importanti, ed è diverso anche come una donna per esempio si acconcia. Guardate come sarebbe diverso se lei, la mamma di Lecco la comunichi come una casalinga ormai sfatta è rovinata dalla fatica, oppure al contrario abbiamo l’altra fotografia in cui lei è per il provino della velina dove è tutta truccata e agghindata. Quindi sono due i messaggi che vengono percepiti.

Voi capite che se io trasmetto in questo modo, simbolicamente senza dirlo, ma facendolo capire a chi mi legge, il fatto dell’incredibile storia di una donna che magari aveva delle grandi velleità, di spettacolo, di fama, di ricchezza, e il sogno della televisione e poi, invece, la fatica quotidiana, la tristezza, la solitudine di una vita di casalinga frustata, allora vedete che come i topos, come i luoghi rappresentano la casa e il set diciamo televisivo, il provino televisivo, così l’acconciatura, il vestito, il modo di fare, può rappresentare simbolicamente la dimensione psicologica della persona. Facciamo un altro passo: ogni persona ha un epos, chiamiamola memoria, cioè ogni persona non è solo quello che noi abbiamo davanti. Tu non sei solo questa, la persona che io vedo, non sei solo i linguaggi nel senso la maglietta, gli occhialini, il crocifisso di legno, non sei soltanto i luoghi che frequenti, ma tu sei anche la tua memoria, quindi ogni persona è un portatore di memoria, di ricordi del passato. La storia, nel caso delle persone la storia personale, allora se io non racconto una persona anche toccando la sua memoria e i suoi ricordi, quella persona è carente, perché in realtà ogni persona è portatrice di memoria, memoria accettata e memoria rifiutata, ma ogni persona ha una memoria. Se io racconto, non posso raccontare una persona senza memoria.

Ognuno di noi, ogni persona è una certa persona che è andata a scuola. Questa donna a scuola com’era? Certo molto spesso io non lo posso sapere, non è detto che io debba inventare queste cose, però magari piccoli elementi posso trovarli, basta semplicemente sapere dove andava a scuola. Magari suo padre era uno che ha girato tutta Europa sempre alla ricerca di un lavoro, e quindi lei ha cambiato sistematicamente scuola, e ogni volta cambiando scuola ha trovato una lingua diversa. Allora a 7 anni si è trovata in Francia e aveva compagni che parlavano francese, a 8-9 anni si è trovata in Germania e parlavano il tedesco, quindi c’è un senso di sradicamento. Vedete, sto andando a fantasia, in un racconto posso andare completamente di fantasia, perché mi interessa soltanto rappresentare bene la cosa. Nel caso di un articolo posso cercare di leggere con attenzione, frugare nei particolari. Se fossi un giornalista sul luogo, potrei interessarmi anche non soltanto all’avvenimento, ma interessarmi anche alla vicenda, alla storia dell’avvenimento, a tutto quanto, a tutto ciò che lo circonda, quindi pensiamo sempre.

Io prima facevo l’esempio del motociclista. Il motociclista che cade non è un fantoccio a cui ad un certo punto si tagliano i fili e va contro il guardrail. Questa persona che cade dalla moto e striscia lungo l’asfalto e va contro il guardrail e ci rimane, è una persona che è carica di memoria, capite quello che voglio dire? Ha tutta una memoria dietro, sua e di altri, perché ognuno poi è memoria sua, allora ognuno di voi è memoria per me e io sono memoria per voi, in piccolo. Poi naturalmente le persone importanti sono tanta memoria per noi e tanta memoria per loro. Quindi quando io comunico una vicenda devo parlare anche dei luoghi in cui si svolgono queste vicende, devo parlare dei linguaggi di questi luoghi e devo parlare delle memorie di queste persone, delle persone o dei luoghi. Andiamo avanti, poi caso mai riaffrontiamo ognuno di questi elementi, quelli che magari vi sembrano più significativi. Ogni persona ha dei valori, non esiste persona senza valori. Questa ultima ipotesi è soltanto in una logica di guerra se si negano e se si afferma che l’avversario non ha valori o ha soltanto disvalori. Che ci piaccia o non ci piaccia ogni persona è  portatrice di valori, quindi quando ti comunico e ti racconto una storia, ti devo comunicare dei valori, magari valori in crisi. La storia, in questo concreto caso della madre di Lecco, è il fatto che ci sono due valori a confronto che stanno lottando. Da una parte c’è un discorso di valore maternità, che entra in crisi, che si trova a scontrarsi con la gestione della quotidianità che tutti esaltano ma nessuno supporta, perché molto spesso queste madri sono sole, e dall’altra parte c’è un valore invece super esaltato che è quello della spettacolarizzazione, dell’apparenza, del benessere, della facilità. Quindi sono valori che si contrappongono: etos, io li ho chiamati etos, difatti si potrebbe dire anche etica, ma nel senso più complessivo, più largo.

Un’altra cosa molto importante è la dimensione, che si potrebbe chiamare genos, ma che è per dirla in linguaggio italiano è la dimensione del gruppo. Ogni persona è inserita in un gruppo, in un gruppo famigliare, in un gruppo di amici, in un gruppo e in un mondo di relazioni, non esiste la persona sola, anzi possiamo dire che non può esistere la persona sola, senza nessun legame con il mondo. Voi dite quello la che sta passando per la strada è una persona che non ha rapporti, è sola, assolutamente sola, non ha amicizie, non ha la famiglia e voi cosa dite? Che questa persona di per se è una persona insolita e fuori dall’ordinario. Allora quello che voglio dire è che, normalmente, le persone hanno un inserimento sociale, hanno dei legami ed è per questo che molto spesso, la scomparsa, la morte di una persona è drammatica per la persona, ma in fin dei conti chi muore muore, ma è drammatica per il suo contesto. Il motociclista che cade oramai è morto, poveretto. È drammatico per tutto quello che può succedere dopo; cosa sappiamo di questa persona, dei figli, dei genitori, dei parenti, e delle responsabilità di questa persona? Magari questa persona correva per andare ad aiutare qualcuno.

Sandro Calderoni: Per me c’è un’interpretazione, perché è il particolare che si rileva. È il particolare che puoi rilevare meglio, che comunque dà alla storia una certa diversità. Allora se tu tieni presente questi cinque elementi, in qualunque avvenimento di cronaca, se tu stai facendo un articolo, in qualunque storia che stai raccontando, allora tu devi raccontare le cose, non tutto, perché se tu racconti tutto a un certo punto l’articolo diventa troppo lungo e diventa anche noioso, allora bisogna selezionare. Se hai già cinque elementi che ti raccontano i valori di una persona, e se non ne hai neanche uno che ti racconta dell’inserimento dei rapporti sociali, devi sacrificarne due dei valori della persona stessa. Io direi di usare quei due elementi , quelle due righe, quel pò di spazio che hai, usarlo per raccontare il suo inserimento, ad esempio. Poi volevo segnalarvene un sesto, che da un certo punto di vista è anche molto importante è che forse ancor di più dà il senso alla cosa, che è il contrario della memoria. Ogni persona ha un passato e un futuro, anche il malato terminale è convinto di avere un po’ di futuro.

Altin Demiri: Ma il passato non fa parte della memoria?

Davide Pinardi: Esatto, il passato è la memoria. Guardate che il presente però e un istante della nostra vita, se io faccio così è già passato, questo è il futuro, arriva subito il futuro. Cioè il presente è una dimensione che noi condividiamo, un flusso di vita che ogni volta batte il cronometro e questo è il presente.Però il futuro cosa significa? Che ognuno di noi ha una prospettiva di qualcosa, può essere grandissima, può essere banalissima, ci sono le persone che dicono: “Stasera mi faccio un risotto con i funghi”, e vivere di questo é un suo diritto. Ci sono altre persone che fanno il mutuo di 30 anni per la casa, mettendosi in una certa logica, perché fra 30 saranno finalmente proprietari di quella casa, è un investimento sul futuro incredibile fare una cosa del genere, però esiste. Allora vedete che se noi riusciamo a raccontare una persona con quei cinque elementi più uno, questa persona riesce ed emerge. Il problema è riuscire sempre a far in modo che si raccontino tutte è sei, se riusciamo a raccontarle tutte e sei ed a dare un senso, una traccia di ognuna di queste cose, le persone di cui parliamo non sono più fantocci e caricature.

Gabriella Brugliera: Come si può ben definire il controllo della memoria con un’unica parola?

Davide Pinardi: La si può definire chiamandola telos, in italiano prospettiva, aspettativa, futuro. Telos è lontano, è proiezione lontano, quindi prospettiva, ognuno di noi è un punto, la nostra mente è un momento di sospensione nel presente tra un passato di memorie e un orizzonte di prospettive. Quando si è molto giovani, si hanno pochissime memorie e grandi prospettive, da giovani si pensa di aver potenzialmente tutto il mondo a disposizione: più si invecchia e ci si accorge che le memorie diventano carico e gli orizzonti e le prospettive si restringono, ma non è che si esauriscono perché fin che c’è vita c’è sensazione di prospettiva. Io conosco casi di persone gravemente ammalate, io ricordo mio padre gravissimamente ammalato, e la sua prospettiva era di andare a vedere per l’ultima volta una certa casa in campagna, cosa non possibile ma per lui era la sua prospettiva e la mia lotta era quella di cercare di convincerlo ad aspettare un attimo: vediamo, organizziamo, perché era assolutamente impossibile. Però come fai? Lotti contro la prospettiva, la coltivi, la mantieni, diventa un sogno che però esiste, e anche lui esisteva.

Gianfranco Gimona: Uno di questi punti può essere la partenza di un articolo, di un racconto? E se sì, quali posso tralasciare, quali sono i punti dove si rischia di non raccontare più la verità?

Davide Pinardi: Ecco, questo é molto interessante, ma se mi permetti parto un attimo da lontano. Il problema della verità è che la verità non è umana, non esiste. Se si chiede a 10 testimoni di un avvenimento, assolutamente senza interesse per loro, semplici persone di passaggio, le 10 persone ti dicono probabilmente delle cose diverse. Poi a 20 anni di distanza le cose diventano ancora più complesse, perché si dilatano, si restringono. Non che comunque non sia utile, però devi sapere che la verità comunque è narrazione, è favola, senza dare un significato negativo a questa espressione. La verità è la favola più credibile e più aderente ai dati della realtà. Ma non c’è una verità, è impossibile, anche se sei assolutamente onesto, disinteressato e ti interessa soltanto capire e raccontare. Il problema è che su questa cosa tanti ne approfittano e incominciano a raccontare favole molto diverse, perché politicamente questa vicenda, da un punto di vista di modelli culturali, può essere giocata in una maniera strumentalizzata straordinariamente, perché tu inizi a tagliare certe cose, ne aggiungi altre e puoi farne quello che vuoi.

Ornella Favero: Infatti ieri è stato straordinario il servizio che hanno costruito su questa storia della mamma di Lecco quelli di “Porta a porta”, perché è proprio il discorso della verità che è la favola più credibile. È anche come si sceglie di raccontare un qualcosa, io penso che come ti avvicini alla verità e rispetti tutti questi elementi e cerchi un equilibrio, allora di per sé sia la fotografia e la storia dei provini sono veri, però da quei due particolari hanno costruito l’idea della madre che non era interessata al figlio, perché aveva questa ansia di realizzazione smentita da un sacco di altri elementi. È successo questo fatto e nessuno si è accorto di queste madri. Se queste madri stavano male vuol dire che i padri erano disattenti, distratti, poco attenti, allora è venuta fuori tutta una storia molto moralistica: che viviamo in una società dove le persone sono distratte ecc… Cioè tutta una serie di elementi finalizzati in modo tale da sostenere una data tesi. Ecco, quando tu hai questi elementi penso che sia determinante, cioè se tu ti fai una tesi e vuoi costruire su quella diventa un disastro.

Davide Pinardi: È il problema che si diceva prima: quando incominci e sai che non puoi, non basta la tua emozione. Devi riuscire a raccontarla, devi ragionare, devi costruire, devi riflettere, tu sai che hai il costante pericolo della falsificazione, devi sapere che ci deve essere sempre uno sforzo di costante autocontrollo, perché sennò cadi esattamente in questa cosa, che viene fatto coscientemente dai mezzi di comunicazione di massa.

Sandro Calderoni: Ho sentito nel telegiornale di ieri, che il giudice doveva decidere se mandare questa donna in un centro psichiatrico e alla fine ha deciso che è meglio che questa donna si faccia la galera, che in quel posto dovrebbe stare meglio.

Davide Pinardi: Se mi permettete, qui però usciamo da un discorso tecnico che ho cercato di fare, io sono convinto, e questa è una mia sensazione, che da qualche anno sia in corso un’operazione da parte dei mezzi di comunicazione di massa, di compressione, di criminalizzazione materna nei confronti delle madri, perché siccome in una società in cui le madri sono sempre più sole, io ho un figlio di 3 anni, il primo figlio che ho avuto ecc…, io non credevo e, solo vedendoli di fronte, mi sono accorto di cosa significa un carico per una madre. Il carico in una società che è tutto contro  madre e figli, perfino da come sono fatti i marciapiedi, i servizi. Tutto è contro perché c’è una società in cui i servizi vengono sempre più tagliati, tutto si scarica sempre sui nonni, ma noi non abbiamo nonni, sono morti tutti, quindi non ce n’è neanche uno. Quindi questo meccanismo di criminalizzazione materna è proprio una risposta, non so quanto cosciente o quanto inconscia, di una società che sta scaricando sempre di più il problema delle nuove generazioni soltanto sulle madri. La tesi che viene sostenuta è che le madri stiano basse e smettano di lavorare e di avere grilli per la testa, ecco questo qui è il caso perfetto.

Ornella Favero: Ieri campeggiava la foto di lei che aveva fatto la prova per velina.

Paolo Moresco: Io capisco il primo giorno, fai vedere anche quella fotografia, ma dopo il terzo giorno ancora fai vedere solo quella, c’è veramente una disinformazione informativa.

Davide Pinardi: Allora se tu invece fai un discorso di onestà informativa, tu vuoi raccontare una favola vera, cioè una favola come vi avevo detto che tenda al vero non che tenda al falso per intenzioni politiche, allora tendi a raccontare anche gli orari suoi di lavoro. Ma lei cosa faceva? Era precaria, quali erano le sue alternative di lavoro? Dove poteva mettere il figlio, o non aveva modo di mettere il figlio e che gli orari non c’erano. Cioè la condizione reale, le condizioni di vita, che supporti ha avuto.

Gianfranco Gimona: Questi esempi qua, li metteresti nei luoghi o nella storia?

Davide Pinardi: Per esempio li trasferisci nella memoria sua, perché ad esempio io vorrei sapere se due mesi fa lei ha chiesto di avere un’assistenza, oppure magari si sentiva veramente in crisi, stava male.

Marco Rensi: Secondo me c’è una grande attenzione anche verso Cogne, perché hanno visto che “tira” e hanno fatto grandi audiences perché si tratta di un infanticidio. Ad esempio ho visto dei filmati in Africa, di donne che partorivano e le femmine che non erano gradite le buttavano in acqua e poi venivano mangiate: nessun problema. Solo per il fatto che fossero  femmine, venivano sempre soppresse. In Italia invece gli organi di informazione guardano i numeri e te li applicano, perché la gente vede volentieri certe cose.

Marino Occhipinti: Tornando agli articoli che interessano noi di Ristretti, ti faccio un esempio. Graziano ha scritto un racconto, che in pratica è il suo ingresso in carcere, dove era sotto stretta sorveglianza in isolamento per aver tentato il suicidio. Scrive Graziano nel finale dell’articolo, proprio nell’ultimo paragrafo: “Sono uscito per la prima volta all’aria, all’ora d’aria che ci è concessa, ed ho parlato con P. Gli ho promesso un pacchetto intero di sigarette, in cambio domani mi porterà uno dei suoi rasoi…”. Ovvio che intendeva il rasoio per cercare di suicidarsi, ed io, tutto preso dal racconto, sono corso a cercare la pagina successiva che però non esisteva. L’articolo finiva così. Volevo sapere come terminava, e questa sensazione di sospeso mi ha proprio incuriosito ed attirato. Questo solo per dire che anche il finale di un articolo o di un racconto è importantissimo.

Davide Pinardi: Io l’ho letto e infatti non discuto il contenuto, e se fai caso anche all’attacco ti rendi conto che è molto efficace, perché le prime parole sono: “È il 21 dicembre, è sabato”, e tu incominci a pensare: “Va beh, è sabato. Le strade sono invase da gente che si affanna da un negozio all’altro per gli acquisti di Natale, allora siamo in un ambito di sostanziale serenità. Frase successiva: “L’auto dei carabinieri corre come se rinchiudermi in carcere sia questione di vita e di morte…”. Una delle cose più forti in un attacco è riuscire a mettere in tre-quattro frasi una contraddizione violenta, un violento contrasto.

Paolo Moresco: Comunque il valore di tutto è l’uso del presente, l’uso del presente ti attacca.

Davide Pinardi: In questo sono d’accordo, infatti la testimonianza di quando si fa in prima persona e che se qui fosse al passato, diventerebbe molto più freddo, ad esempio “era il 21 dicembre ed era sabato e le strade erano invase da gente che si affannava da un negozio all’altro per gli acquisti di Natale”. Il passato congela sempre, allontana, distanzia, invece il presente rende più giusto, perché questo è un articolo, un racconto che vuole dare una forte emozionalità. Molto cuore, molta pancia, ma non è una logica di riflessione. Il passato tende a riflettere, a vedere a distanza i rilievi, i particolari, qui io invece voglio darti emozione: bum, un pugno nello stomaco. Inoltre scusatemi, sottolineo questi particolari della contraddizione interna alle righe. Tu dici a e poi al contempo dici non a, cioè questo è strano come discorso, tu annulli dicendo alla gente: “C’è un panorama sereno, all’improvviso uno spara”, capite che io dico solamente queste cose. La gente è serena e uno spara: non possono andare avanti perché c’è una contraddizione, c’è un qualcosa che si urta, nel suo piccolo, visto la differenza.

Questo qui aveva la barba lunga, era sporco, lo chiamavano “er mondezza”, adesso vedete sto mettendo una logica di contrasto, di trasformazione, di metamorfosi, di due cose, e questo sistema direi che è in assoluto il migliore. Per esempio questo è proprio un trucco narrativo, ho una situazione caotica e arriva una persona che tranquillizza la situazione. C’è il caos e arriva un elemento di calma, o viceversa arriva un momento di perturbamento della cosa. Uno dice ma perché l’inizio è tanto importante? Io dico che l’inizio è importante al 50 per cento, almeno le prime frasi, perché io in un articolo parto dall’inizio, non parto da metà. Io parto, vado a vedere un articolo solo per esempio per lavoro. Se lo devo fare per lavoro devo leggere per forza un articolo, e l’inizio non mi convince, allora vado qui, poi vado qui, poi vado qua, ma normalmente un lettore non fa così. Il lettore medio non professionale che non deve leggerlo per lavoro, guarda l’inizio e se non ha disponibilità, guarda l’inizio e la fotografia a volte, ecco perché l’inizio vale il 50 per cento.

Ornella Favero: Io volevo dire una cosa tornando all’osservazione intelligente che faceva Ahmet.  Loro sono abituati a scrivere lettere. Prendiamo, per esempio, l’articolo di Nicola, che secondo me ha delle cose proprio belle, che io userò senz’altro, però lo devo riaggiustare. Quando uno scrive la lettera non si pone il problema di dare un ordine a quello che scrive, c’è il flusso della scrittura, uno prende carta e penna e scrive di getto. Hai di fronte uno che appunto ti conosce, sa di che cosa parli e poi puoi anche fargli fare uno sforzo, perché tanto sai che la tua lettera la leggerà, puoi fargli fare anche la fatica di uno slalom tra un discorso e l’altro. Ma il lettore di un giornale è diverso. Trovo spessissimo negli articoli che ricevo delle cose ottime, quindi io li uso, non è che li prendo e li butto via, li metto da parte, uso quasi tutto prima o poi. Però ci devo mettere le mani perché è fatto con l’idea della lettera, cioè uno scrive quello che gli viene in mente.

Paolo Moresco: Quando scrivi una lettera a qualcuno l’interesse è scontato. Qua si tratta di allungare una mano a uno che non conosci, perché dalla stretta di mano stai benissimo in contatto di interessi.

Davide Pinardi: Una lettera di una persona che conosci, tu la leggi anche se è scritta a mano e non fai fatica a leggerla, perché di per sé è un documento. Un articolo non è un documento, deve darsi valore, deve conquistare il suo valore, questo è assolutamente fondamentale. Però, è per questo che bisogna come operare un processo di cambiamento di programma, a un certo punto sto scrivendo la lettera, scrivo quello che voglio, adesso scrivo l’articolo cambio il programma nel computer, nel computer mentale cambio, devo scrivere in maniera diversa, devo scrivere seguendo delle regole molto precise. Vorrei tornare ancora a guardare per un attimo questo articolo, le prime frasi. Voi vi ricordate che si diceva, ci devono essere sei cose all’interno: topos, luoghi, eccetera. Allora se noi guardiamo in queste frasi le troviamo tutte e sei. Vediamo facciamo una prova, non do per cosa certa, faccio la prova. Allora i luoghi, due fortissimi, per esempio il carcere non è un luogo fortissimo di per sé, il carcere è fortissimo in funzione del contesto. Ad esempio prendiamo “1984” il libro di Orwell. Tutta la società è un carcere che in sé non è fortissimo, ma è fortissimo in funzione del contesto.

Nell’articolo abbiamo due luoghi fortissimi perché sono in assoluta opposizione, come dicevo prima: uno, strade di gente affollate per Natale, è un luogo preciso, non è che io posso dire ma che cosa sono le strade affollate, è chiaro. È il 21 dicembre mancano tre giorni al Natale, la gente è in giro. Due: macchine dei carabinieri che corrono forte, che vanno veloce. I luoghi sono in opposizione. Linguaggi. La gente in questo 21 dicembre che cosa fa? Si affanna da un negozio all’altro per entrare, fare acquisti, quindi c’è una vitalità positiva un po’ stressata ma positiva, dall’altra parte c’è una vitalità, un linguaggio, una modalità di comportamento. Vi ricordate che i linguaggi non sono solo linguaggi verbali, ma sono modalità di comportamento e modo di essere? Se io faccio così trasmetto qualche cosa; se io faccio qualche altra cosa, trasmetto un’altra cosa diversa. I cardinali hanno sempre un modo particolare, cioè si comportano secondo un linguaggio non parlato, non verbale.

Qui ci sono due linguaggi, c’è gente che si muove in due modi, c’è gente che è vitale, ma con un obiettivo di comprare regali, poi c’è un altro modo di muoversi, un altro linguaggio che è un modo di correre affannato ma nevrotico. Può chiudermi in carcere, questione di vita o di morte, io me lo vedo questa nevrosi; guardate come è diverso. Quindi abbiamo trovato i topos, i luoghi, e abbiamo trovato i linguaggi. Per esempio io ho qui in memoria, e forse ne avevo parlato, qui non ne vedo tanta, non c’è ancora, forse sarà nelle prossime frasi, magari c’è, scavando si trova, però vedo telos vale a dire prospettiva: la gente che sta comprando delle cose non è detto che  debba essere più esplicitato, ma è chiaro questa gente compra i regali perché fra due-tre giorni si troveranno tutti in famiglia, il momento si spera di serenità, dove si apriranno questi regali. Tutta una aspettativa, una tensione verso qualche cosa. Dall’altra parte c’è una tensione verso un imbuto: questi qui mi devono chiudere in carcere, chiudere in una gabbia.

Vedete, abbiamo già trovato tre elementi. Abbiamo detto etos, valori simbolici. Ci sono, basta grattare un attimino e li troviamo: da una parte c’è della gente che si affanna a comprare perché ha il valore della festa, di una famiglia che si incontra, il valore di una comunità, dall’altra parte ci sono questi qui, guardate che valore assoluto per questi carabinieri: vita o morte, devo metterti dentro; per me è una questione centrale, ti devo chiudere. Valori assolutamente divergenti e ne abbiamo gia trovati quattro, epos l’abbiamo scartato perché francamente non lo vedo al volo, e che cosa manca? Genos. Anche questo si potrebbe trovare: quelli hanno la famiglia e in questo caso i carabinieri un po’ meno, ecco genos lo vedo un po’ meno.

Marino Occhipinti: Anche perché tutti gli elementi non è necessario che siano nell’ambito di due frasi, anche perché poi usciranno fuori.

Davide Pinardi: Bravo, esattamente questo. Non è indispensabile che ci siano. Però più riesci a metterne più si carica, perché queste due frasi sono così forti, perché non sono soltanto in contrapposizione ma rappresentano due mondi interi che si confrontano, due destini che si spaccano. Chi racconta in prima persona poteva essere in questo momento con quelle persone lì, invece no. È accaduto un taglio radicale per cui si è creato e aperto un bivio. Infatti sono convinto che tutti e sei gli elementi di cui parlavo ci debbano essere entro la prima pagina, è bene che ci siano dentro la prima pagina. Se non ci sono, se ti sembra carente mettici una frasetta dentro per ricordarne uno, quello che ti manca. Vediamo ad esempio l’epos. Abbiamo detto che l’epos manca. Leggiamo ancora qualche cosa e vediamo se lo troviamo: le gomme stridano, l’autista impreca, l’alfa romeo scansa strombazzando i pedoni che scendono dal marciapiede, dalla corsia preferenziale per superare gli ingorghi davanti alle vetrine.

Guardate come in questo caso rinforzo i due mondi che si contrappongono. Registro ogni particolare senza emozione, mi sento come un fantasma che vede continuare intorno a sé una vita di cui non fa più parte. Qui effettivamente la dimensione della memoria è molto schiacciata, nel senso che da un certo punto di vista direi che questo caso è uno di quei casi in cui proprio dalla negazione di uno di questi elementi, in questo momento nella mia memoria c’è del buio, del nero dietro. Perciò io adesso devo guardare solo da questa parte. Qui non posso voltarmi, non voglio voltarmi. Forse lo farò ma adesso in questo momento è nero. Quindi da un certo punto di vista, proprio dall’annullamento della memoria in questo istante si carica ancora di più. Quindi non è che questi sei elementi, come dicevo prima, ci siano, ma se ne manca uno bisogna sottolineare la sua mancanza; adesso stiamo andando un po’ in una tecnica narrativa.

Marino Occhipinti: Quello che poi è successo Graziano lo racconta tre pagine dopo, staccandolo proprio: sembra anche un pezzo che abbia in sé una parte di quello che è successo, e poi sembra proprio che la memoria non ci debba essere, perché uno non vuole ricordarsi.

Davide Pinardi: Esatto. Allora tu lo rimuovi, lo neghi, lo riporti, ne carichi l’aspettativa, ecco queste per esempio sono proprio tecniche che sono gia più tecniche raffinate che possono venire istintivamente, per usarle sempre. Però vedete si tratta proprio di sceneggiare: tu le informazioni al tuo lettore non devi darle tutte insieme, non puoi darle, devi dare un ordine all’informazione. Non è detto che tu  devi dare tutte le informazioni, ma devi dare informazioni che aggancino. Se l’informazione A non ha una forza di impatto, dai prima l’informazione C. Non so come dire, non c’è un ordine: l’importante che alla fine di un articolo una persona si aggancia, e alla fine dell’articolo ricompone tutto il percorso. È quello che viene fatto nel cinema, per esempio con i flashback, con i flash forward, cioè quello che è accaduto che ad un certo punto tu vedi una scena, poi ad un certo punto fai un flashback. Dieci anni prima o pure dieci anni dopo poi torni indietro.

Ci sono dei film, sicuramente ne avrete visti, in cui questo meccanismo della sceneggiatura anche temporale è molto forte. Ci sono dei film che per mezzora, un’ora non capisci la fiction, come in “Prima della pioggia” e “ I soliti sospetti”. Vi sto parlando di film di grande visione che però ti agganciano. C’è addirittura un film che va tutto al contrario. C’è anche il film ““Rapina a mano armata” di Kubric. “Tradimenti” per esempio è semplicemente una storia di una relazione fatta al contrario dalla fine all’inizio. All’inizio non riesci a capire come questi qui si sono lasciati e la scena dopo appaiono i due che litigano, ma allora vuol dire che si sono rimessi insieme? No! È che loro litigano e poi si lasciano, solo che io vedo al contrario e arrivo alla prima scena, cioè la scena finale del film, è i due che si mettono insieme o che si conoscono, si incontrano. Probabilmente basterebbe vederla al contrario, tutto rimontato. Il che forse ti annoierebbe ma questa trovata è tale per cui diventa forte. Allora uno mi dice che in questo processo ho falsificato qualcosa, ma non è così. Il processo è se tu vuoi dire delle bugie o meno: se io nell’articolo racconto quello che interessa, sono fedele al messaggio, a quello che voglio dire, ed è bene che io lo sceneggi, racconto prima cose finali, anticipo, posticipo ecc…

Ornella Favero: Io torno a ribadire che vorrei parlare dell’organizzazione del testo. Intanto un’altra osservazione che mi sembra giusta è quella sull’uso dei tempi. Una cosa che mi colpisce e che non  so da cosa derivi è che io mi ritrovo spesso in carcere con detenuti che usano tantissimo il passato remoto. Da cosa dipende?

Davide Pinardi: Su questo io sono totalmente d’accordo, nel senso che non esiste una lingua più brutta di quella giudiziaria. D’altra parte credo che si crei un po’ una sorta di polarizzazione, visto che gli atti giudiziari sono atti ufficiali e hanno così tanto peso. Cosa succede? Che se vai nel tuo diario, nel tuo personale, ti rifugi in una forte dimensione emozionale e quindi diaristica, di lettera, quando invece si crea una polarizzazione no! Il lato giudiziario è una deformazione di un certo mondo che impone un certo moto.

Marco Rensi: Credo che il passato remoto venga anche dal nostro intento nella storia passata. Diciamo che appartengo ad un periodo molto distante, se si può dire a una frattura temporanea, è importante usare il passato remoto parlando delle nostre esperienze che ci conducono al fiore della vita.

Ornella Favero: Generalmente, per esempio lo studente fuori nella scuola libera, il passato remoto è difficile, quindi tende a non usarlo. Ho letto, invece, che il verbo essere è molto più semplice. Il passato prossimo però nell’articolo, cioè io non sto dicendo che proprio non va usato, però un conto è una narrazione, un romanzo, ma nell’articolo se tu usi il passato remoto fai fare una fatica terribile al lettore ed allontana talmente le cose per cui è di difficile comprensione. Su questo ci ho riflettuto: al sud si usa molto di più, ma non è poi così vero perché mi ritrovo con testi degli stranieri scritti in questa maniera, quindi è proprio un uso. Secondo me nel meridione il passato remoto viene molto più usato, ma non parlo di testi scritti da persone che hanno questo uso per motivi che sono legati appunto al fatto dell’italiano regionale o altre diversità, ma al fatto che al sud viene molto di più usato il passato remoto. Poi un altro vizio è saltare nell’uso dei tempi. Se tu decidi che usi il presente usa il presente. È faticosissimo correggere. È quasi nomale che uno straniero faccia questi salti, cioè tantissimi che narrano al presente poi al passato poi di nuovo al presente. Anche questo, la coerenza del testo per esempio dell’uso dei tempi è un piccolo accorgimento da tenere a mente, perché è molto difficile saltare da una narrazione al presente poi al passato, di nuovo al presente almeno che non sia un effetto voluto.

Davide Pinardi: Sì, gli spostamenti temporali possono essere lenti è poi mantenuti, basta che vai al presente e poi vai nel passato, ma non puoi tornare al presente e poi tornare al passato. Diventa molto faticoso per chi legge. Credo che comunque sia molto importante rileggere ciò che si è scritto ad alta voce, oppure ancora meglio sarebbe farselo leggere da qualcun altro. Perché intanto la lettura ad alta voce fa sì che se c’è un inciampo te lo evidenzia. Se, per esempio, ci sono delle subordinate che non chiudono, te ne accorgi perché ci vai addosso. Se poi te lo legge un altro gli errori si evidenziano ancora meglio. Comunque resta il fatto rispetto a quel discorso che la tecnica è come i fondamentali negli sport. Noi sappiamo che quando un ragazzo di 20 anni fa uno sport lo vedi subito, per lo meno l’intenditore si accorge subito se è fondamentale o no. Perché quando aveva 10-12-14 anni si è messo lì e gli hanno insegnato quattro cose, che gli hanno fatto fare tante volte, poi non è che giochino tutti alla stessa maniera, ma a quella base ognuno metterà il suo. Insomma i fondamentali non sono un nemico.

È la stessa cosa nella scrittura: devi imparare alcune cose che diventino quasi automatiche, cioè che non ti obbligano a pensare. Quando uno gioca a pallone e riceve la palla non sta a pensare a cosa deve fare, è tutto automatico. La stessa cosa è qui. L’attacco deve venirti un po’ in automatico, e come fai ad avere questa abilità? Facendolo tante volte, perché la soluzione del problema non è immediata. Tenete presente che la fatica che state facendo un po’ si deposita, vi costituisce. Se lo fate trenta volte, alla trentunesima potete essere molto più sicuro, avete capito il problema e se avete capito il problema prima o poi lo risolvete. Quindi, a mio parere, è giusto che all’inizio ci sia quella fatica, quello scontro un po’ col muro come si suol dire, fermo restando che il muro alla fine crolla solo se insisti se insisti se insisti.

Mauro Cester: Sai qual è la difficoltà secondo me? Oltre alla stesura, magari di saper dare un titolo adeguato. Io ti posso parlare di una situazione emozionale che ho avuto, però magari uno può avere delle difficoltà a dare un titolo. Ad esempio se scrivo una cosa riguardo al convegno, scrivo del convegno ma trovare  il titolo per me è una difficoltà.

Marino Occhipinti: Non preoccupartene: pensa che nei giornali c’è addirittura chi si occupa quasi solamente di creare i titoli.

Davide Pinardi: Sì, i titoli rappresentano sicuramente una notevole difficoltà, ma limitarsi a fare solo quelli è pericoloso: si rischia di istituzionalizzarli e alla fine sembrano solo un marchio. Tutti uguali.

 

 

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