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Una vita ibernata Fuori gli amici, i famigliari, tutti sono andati avanti, noi invece siamo rimasti qui immobili. Uscire dalla galera e rientrare nel mondo, trovare faticosamente un posto di nuovo in famiglia, sapere che bisogna “accontentarsi” di poco e non avere troppe aspettative: questo è il “dopocarcere”
(Realizzata nel mese di novembre 2005)
a cura della Redazione
“Castellare”: voce di uno strano verbo, che si usa forse unicamente in carcere, e che significa in pratica sognare, inventare, crearsi un futuro nella propria mente, che forse nella realtà non esisterà mai. Noi in redazione abbiamo provato a discutere di dopo carcere nel modo più lucido e franco possibile, evitando appunto di “castellare” e impegnandoci invece a restare con i piedi radicati profondamente a terra.
Ernesto Doni: Io i problemi li ho qui dentro, non fuori… fuori anche fra dieci anni problemi non ne avrò! Uno i problemi li ha all’uscita dal carcere, se fuori non aveva nessuno e non era seguito; i problemi ce li hanno quelli che fanno uno-due anni di galera, che vengono dentro e sono tossici. Ma se uno è seguito dai famigliari problemi non ne ha. N. per esempio è uscito dopo 27 anni di carcere, ha forse problemi di lavoro? Lui ha la famiglia, può andare da sua sorella, sua cognata, la sua donna… Flavio Zaghi: Ma tu pensi che non sia un problema andare da tua sorella, tua cognata, tuo padre, a chiedere delle cose, mostrare che sei disagiato, che non ce la fai da solo? Ernesto Doni: Ascolta, questo problema te lo stai creando tu, perché se hai una famiglia stai sicuro che dopo anni di carcere ti accoglierà senza farti pesare niente. Elton Kalica: Io penso invece che se fai tanti anni di galera perdi un po’ le amicizie, perdi i contatti, perdi un po’ tutto, non è che poi esci e trovi gli amici nelle stesse condizioni in cui li hai lasciati prima, magari se ne hai uno o due buoni su quelli puoi contare, ma il resto è tutto cambiato. Poi un fattore importante è il contesto sociale in cui si era inseriti prima di entrare in carcere, perché uno che era magari sbandato, o chessò… figlio di alcolizzati o si bucava alla stazione, non è che poi dopo un “passaggio” in carcere trova un contesto accogliente; invece uno che viene da una famiglia “regolare”, nel senso che aveva moglie, figli, genitori, fratelli, tutti inseriti, con dei lavori decenti, se anche esce tra dieci anni ha comunque dove agganciarsi. Marino Occhipinti: Ma se esci a cinquant’anni dopo vent’anni di galera, come fai a presentarti a casa dalla mamma e dal papà e dire: “Mantenetemi voi perché adesso mi ci vorrà molto tempo per riprendermi, per trovare lavoro?”. Ernesto Doni: Se tuo padre e tua madre ti hanno voluto bene per vent’anni, ti hanno passato 50 euro alla settimana, ti hanno portato da mangiare, ti hanno lavato e stirato la roba… porteranno ancora pazienza per alcuni mesi… Ornella Favero: La realtà secondo me è molto più complicata, mi viene in mente l’articolo sul nostro giornale, di una detenuta che a quarant’anni, dopo qualche anno di carcere, adesso torna a casa per i permessi, ma la vita in famiglia coi genitori è dura, sua madre le sta facendo pagare praticamente tutto, rinfacciandole le sofferenze che lei ha causato ai suoi famigliari. È vero, la famiglia certamente non ti abbandona, ti viene a trovare, ma paradossalmente molte difficoltà cominciano al momento delle prime uscite e poi delle misure alternative, perché un conto è assisterti con le tue piccole esigenze da carcerato, un altro conto è che la tua famiglia debba aiutarti mentre tu devi misurarti a 360 gradi con i problemi legati a un percorso di “ricostruzione” di una vita. E quando te la trovi a casa, la persona che era in galera prima, non è affatto facile accettarla. Io la sento nei parenti che mi telefonano, la preoccupazione del dopo. Perché la gioia del primo momento, quando una persona ritorna in libertà, è forte: che bello, è fuori, basta colloqui dentro in galera, basta sofferenza delle separazioni. È dopo che iniziano tutta una serie di preoccupazioni che mi pare qualcuno sottovaluti totalmente. Il primo problema è che, se tu hai quaranta-cinquant’anni, non è che ti basta la sorella o la mamma. Allora se hai delle relazioni, una compagna che ti ha seguito, a volte iniziano lì i disastri, perché quando tu torni a casa le persone sono diverse, e io ho visto poi crollare delle storie che sembravano molto solide. Se invece non ce l’hai, una vita di relazione, se sei stato vent’anni in galera e poi ti trovi fuori, in un mondo di famiglie, gente con figli, gente “regolare”, alla fine non sai più cosa sei. Non sei né quello che va con gli sbandati, perché non ne hai più neanche l’età, né quello che riesce ad integrarsi. Ti cerchi una relazione, vorresti avere una donna, una compagna, allora ti trovi le ragazze di vent’anni che forse sono libere, e tu però di anni ne hai quaranta ma la testa, le esperienze, la vita vissuta sono di uno di venticinque: beh, non è per niente semplice. Ernesto Doni: La preoccupazione dei famigliari è che uno ritorni sulla strada di prima, i famigliari hanno paura che magari anche dopo il lavoro tu vai a fare ancora il balordo. Ma se hai voglia di lavorare lo trovi anche fuori il lavoro. Flavio Zaghi: Il lavoro lo trovi anche, ma fai un lavoro che te ne rimani zitto tutto il giorno e non riesci a rapportarti con nessuno e finisce che parli da solo. Avrai pur bisogno di qualche relazione, di amicizie, di affetti… Ornella Favero: Ma che cosa trovi a cinquant’anni Ernesto, ma dove vivi? Manco le cooperative sociali ti danno lavoro… Ernesto Doni: Io ho visto miei amici, vecchi che escono e lavorano, si sono adeguati… Magari vanno a fare il muratore. Perché, quelli che hanno sessant’anni non possono fare i muratori? Marino Occhipinti: Ernesto, ammettiamo che tu esci e vuoi lavorare onestamente, ti presenti a fare il muratore, ma sai che risate si fanno? Flavio Zaghi: Io sono uscito di qui dopo tre anni scarsi di galera. Da qui, da questo carcere, sono andato in affidamento fuori, ho trovato un monolocale… 750.000 lire al mese, non mi bastavano neanche i soldi che pigliavo in cooperativa. Andavo a lavorare alla Firema, dove fanno i treni qui a Padova, mi spappolavo il culo tutto il giorno per dieci ore al giorno. Ho smesso perché non mi dava alcuna soddisfazione, ho cambiato e sono andato a consegnare mobili, col camion tutto il giorno, arrivavo la sera distrutto: alle dieci di sera dovevo essere a casa, perché al mattino alle sei mi dovevo alzare per farmi di nuovo il culo tutto il giorno, e tu pensi che io vada di nuovo a lavorare così? Ma tu sei pazzo! Questi sono i problemi: che non parli con nessuno. C’erano i ragazzi che lavoravano là che mi guardavano come fossi un alieno, io lavoravo e basta. I loro problemi erano: il telefonino, la macchina e dove vai domenica e qua e là. Io non avevo discorsi da fare di questo genere, quindi non parlavo mai con nessuno, andavo vicino alla macchina del caffè e li ascoltavo, li guardavo e mi dicevo: questi son fuori di testa. E così non sono riuscito ad inserirmi… e infatti sono andato a rubare. Ernesto Doni: Chi fa venti o trenta anni di galera, poi di solito se la sa cavare. Quelli che non sono capaci di arrangiarsi sono la maggior parte di questi disagiati che vanno fuori e trovano gli assistenti sociali che gli stanno dietro, ma poi son sempre dentro e fuori di galera lo stesso. Sandro Calderoni: Io parlo della mia esperienza, se avessi avuto la possibilità di uscire, c’erano già delle persone che mi davano del lavoro da fare, si erano messe a disposizione per aiutarmi. Allora possibile che chi esce dal carcere non abbia degli amici che cercano di trovargli un lavoro? L’operaio normale cosa guadagna? Se tu vuoi uscire regolare, devi metterti a lavorare come un operaio e dimenticarti qualsiasi lusso. Ornella Favero: Però le difficoltà di una persona che è stata abituata in altro modo sono tante. Io ne vedo fuori, di ragazzi che hanno fatto tanta galera proprio perché hanno commesso reati per mantenere un tenore di vita alto. I soldi che guadagni con un lavoro onesto non ti permettono di fare quasi niente. Se tu esci magari da solo, se non si è in due a lavorare, dove te la mantieni una casa quando un affitto minimo è di 500 euro? Elton Kalica: C’è da tener conto di un fattore che è fondamentale. Con quale mentalità, con quale testa si esce fuori? Se uno esce con la testa di fare il regolare, tira la cinghia e ce la fa, se uno esce fuori con la testa di fare la vita di prima, andare nei locali notturni, volere la macchina di lusso, allora certo il lavoro non ti basta e vai a spacciare. Io ho avuto in cella con me un ragazzo che lavora in cucina, lui ha proprio una testa “da regolare”, quelli della cooperativa lo hanno visto, si sono attivati e nel giro di due giorni gli avrebbero trovato il lavoro come cuoco in un ristorante, perché sanno che è uno che lavora, lo hanno visto in cucina a tagliare cipolle come un cinese e non si tira mai indietro quando c’è da lavorare. Altin Demiri: Se uno prende coscienza che questa non è proprio vita, se ha sofferto veramente durante la carcerazione, per me poi fa di tutto per non rimetterci più piede, in carcere. Quello che conta è proprio la mentalità, è il riflettere su cosa tu vuoi fare della tua vita. Ahmet Karaboga: Io sono stato in articolo 21 e in semilibertà, le cose che potevo avere erano molto ridotte e comunque ciò che avevo non mi bastava mai anche se mi sforzavo di farmelo bastare. Ho dovuto andare in giro con la bicicletta anche d’inverno, tu sai che questo devi fare per tre anni finché non finisci la tua galera, però una volta finito prendi la bicicletta e la butti nel primo fosso che trovi. Con questo sto dicendo che ciò che si accetta mentre si è in galera, ciò che si accetta per ottenere la libertà è un conto, ciò che si vuole dopo è un’altra questione. Adesso se tu mi dici: “Io esco e mi faccio sostenere per sei mesi, dopo sei mesi vado a fare il muratore”, mi sta anche bene, però dopo sei mesi che uno fa questo lavoro, si pone la domanda: ma chi sono? Io una volta che ho finito la mia galera torno in Turchia, là ho una casa, una macchina, e c’è mio padre che è commerciante, sono sistemato e non ho nessun problema, questo per dire che non sono un disperato, comunque mi pongo la domanda: che ci farò a casa mia dopo undici anni di galera, a trent’anni di età. Certo non avrò problemi di soldi, ma i problemi sono anche quelli dei rapporti che non sono più gli stessi, che andranno ripresi e rivisti, che forse non funzioneranno più. Sandro Calderoni: Io penso che il punto è proprio quello che non ci accontentiamo della bicicletta. E invece bisogna entrare nell’ordine di idee che se mi metto a fare il regolare andando a lavorare, mi devo anche ridimensionare su quello che magari posso avere dalla vita. Ornella Favero: A parole è stupendo, ma poi, quando sei fuori, tu non ti confronti più con la galera, dopo un po’ smetti di essere contento perché hai di più rispetto a quando stavi dentro e cominci a confrontarti con quello che vedi fuori. Altin Demiri: Ma allora non ti è servita a niente la galera, non sei maturato. Io invece dico che non ci torno più perché a me è servita… mi ha fatto cambiare. Ornella Favero: Io ho capito la posizione di Altin, ma penso che spesso rischia di essere un discorso illusorio che ho sentito fare a tanti, quelli che dicono: io ho provato la galera e non voglio più tornarci dentro. Questo finché si è in galera è un discorso limpido e onesto, e secondo me la gente che lo fa lo fa perché ne è convinta. Quando poi però esci dalla galera, della galera ti dimentichi in un giorno, ti cominci a confrontare con il mondo fuori e lì sei sempre perdente, è questo il problema. Ernesto Doni: Io però resto convinto che dopo trent’anni uno se vuole fare il bravo fa il bravo… Flavio Zaghi: Se fossi una macchina, sì, ti prendo, ti metto lì, ti accendo e ti spengo quando voglio, ma sei un uomo, Ernesto, hai dei sentimenti, delle invidie, provi delle cose che non affronti così semplicemente. Ernesto Doni: Ma se mi segue da vent’anni tutta la mia famiglia, vuol dire che vado fuori e ho una base, da quella base sono io che devo costruirmi qualcosa, se invece per vent’anni ho fatto il balordo e poi vado fuori e li prendo ancora per il culo, allora sono un disgraziato io. Però io con i miei sono sincero. Se voglio lavoro a 1200 euro, come fa un operaio della FIAT... Marino Occhipinti: Adesso io non conosco la situazione tua, per amor del cielo, ma se tutte le persone ragionassero come te, direi che siamo un branco di illusi, perché le difficoltà quando si esce ci sono. Non lo so, io vorrei ragionare in positivo come te, purtroppo ho la sensazione che quando inizierò ad uscire le difficoltà saranno una marea. Già vedo che quando viene qui mia mamma mi tratta come quando ero un bambino: mangia, copriti… tutte le raccomandazioni che non mi faceva più quando ero fuori, ora me le fa, cioè son tornato indietro di una trentina d’anni, son tornato il bambino di dieci anni per lei, e questo sarà un problema. Tu Ernesto che dici che quando esci non avrai problemi, porca miseria speriamo che sia così ma non ci credo. Io preferisco forse aver paura per essere corazzato alle difficoltà, che non uscire con la mentalità di spaccare il mondo. Flavio Zaghi: Sai che cosa mi sembra, Ernesto? Mi sembra che tu sei finito in galera per 20-30 anni, e poi esci e ritorni al bar, ritrovi i tre amici che erano con te al tavolino, e li ritrovi con le carte in mano, e loro ti dicono: dove eravamo rimasti? Ma non è così. Ti sei perso 20-30 anni, queste persone in questi anni hanno fatto strada, tu invece sei rimasto, noi siamo rimasti qui ibernati. Gli amici, tua madre, tuo padre, tua sorella, tua moglie, la tua amante, il vicino di casa, tutti hanno avuto la loro evoluzione, siamo noi che ci siamo fermati qui. Ornella Favero: A parte che molto dipende anche dalla lunghezza della pena, però mi piacerebbe che la discussione che facciamo fosse soprattutto sul tempo, sull’illusione di recuperare il tempo perso, su come cioè si pone una persona che esce dopo un periodo più o meno lungo di galera rispetto agli anni persi in carcere. Mi sembra che l’aspetto più preoccupante dell’uscita sia proprio rappresentato dall’ansia di fare dei bilanci, come dire: “Ecco ho quarant’anni, ho cinquant’anni, non ho fatto niente mentre gli altri hanno figli, casa di proprietà, hanno costruito qualcosa. Quindi adesso devo cercare di recuperare”. Ibrahim Hegab: Ma non puoi chiedere ad uno che è uscito da una tomba cosa farà dopo. L’ansia è di uscire e basta, poi si vedrà domani cosa facciamo. Paolo Moresco: In quello che ha detto Ibrahim c’è una cosa interessante, se si esce da una tomba si ha una concezione statica del mondo esterno, mentre il mondo esterno mica ti aspetta, e questo indipendentemente dal fatto che tu abbia soldi o famiglia. Fuori tutto si evolve, cambia. Gianfranco Gimona: E poi ci sono davvero delle mine vaganti che minacciano gli affetti, perché una famiglia che poteva essere quasi idilliaca precedentemente alla cattura o all’entrata in carcere, cresce senza di te. Tutte le esperienze delle mie figlie per esempio, il primo giorno di scuola, la prima delusione d’amore, io non c’ero e non c’entro nulla con le loro scelte. Entri in una casa che non è più tua, in una famiglia di cui non fai più parte, gli ingranaggi non combaciano più. Passa del tempo e non lo puoi recuperare.
Il piacere della libertà dura un mese. Poi ci si dimentica in fretta del carcere e di quanto sia bello essere fuori
Paolo Moresco: Paradossalmente uno ha una grande fretta di fare, mentre in realtà dovrebbe avere pazienza. È questa l’assoluta semplicità del problema. Mi viene in mente una vecchia canzone di Jimmy Fontana, “Il mondo non si è fermato mai un momento”: cioè, mentre tu sei dentro non è che fuori tutto si fermi per aspettarti, quindi sei tu che devi reinserirti in quel ritmo, non è il ritmo che si può adattare a te. È per questo che dovresti uscire con uno stato d’animo di pazienza, di accettazione delle difficoltà, e invece probabilmente uno esce con la fretta di rifarsi del tempo perso. Marino Occhipinti: Anche qui ci sono situazioni abbastanza soggettive, come il discorso che riguarda l’atteggiamento degli amici quando uno finisce in carcere. Se esce dal carcere uno che è entrato giovane, è chiaro che non li troverà più, gli amici, ma forse li avrebbe persi anche stando fuori. E lo stesso vale per le persone care, che non saranno più come prima. Forse “simili” a com’erano, solamente un po’ più invecchiati, può trovare solo i genitori. Se io penso a me, ho lasciato le bambine piccole, adesso mi rendo conto che, quando scrivo loro, dovrei adeguarmi un po’ a una situazione diversa, loro sono grandi ormai, e invece io son rimasto fermo a dieci, dodici anni fa. Paolo Moresco: Un caso meno estremo è il mio, che è avvenuto in una fase della vita in cui tutto è più stabilizzato: sono entrato infatti in carcere in un’età più matura, con una condanna più breve, però il mondo cambia ugualmente, un po’ di persone di riferimento tue fuori non esistono più non perché sono proprio sparite ma perché hanno ruoli diversi. Marino Occhipinti: Io ho notato che nelle giornate in cui sono entrati qui dentro gli studenti, alla fine degli incontri salivo in sezione stanco morto, eppure non è che abbia fatto delle gran fatiche. Cioè, qui disimpari anche ad avere delle emozioni. Io quando vado a colloquio, per un giorno poi sono stravolto, invece nella vita fuori di cambi di umore, di emozioni, o di stress ce ne sono continuamente. Graziano Scialpi: Fuori davvero ti ritrovi come un estraneo. Anche se fai colloqui regolari, i tuoi famigliari però li incontri sempre più o meno in un certo contesto, poi esci e li vedi parlare delle cose quotidiane, allora ti rendi conto che c’è tutta una parte della loro vita alla quale sei estraneo, i loro sono tutti discorsi da cui sei completamente fuori. Paolo Moresco: Fate conto di avere una condanna di cinque anni, e che ogni anno sia un piano di scale: un fatto è andare al quinto piano con la scala mobile e con gli occhi bendati, che è la nostra vita in carcere, un altro è andare al quinto piano scalino per scalino, vivendo la vita vera, la vita esterna. Elton Kalica: Questa ansia che ti prende, questa voglia di strafare, non è una cosa che riguarda tutti. Io ho visto che chi non ha niente non ha questa voglia di strafare, anzi, è preoccupato, non sa dove andare, la libertà lo spaventa in qualche modo. Chi invece ha qualcosa non prova le stesse paure di chi non ha niente, gli viene quasi istintiva questa voglia di recuperare il tempo perduto. Ho visto di recente che è arrivato un ordine di scarcerazione a uno che era dentro da dieci anni, lui non sapeva nemmeno di essere arrivato a fine pena e non voleva uscire. Io non credo che lui avesse voglia di strafare, di recuperare: la sua preoccupazione era dove andare, cosa fare, dove sbattere la testa. Ornella Favero: Non è proprio un fatto di volere strafare, strafare non è proprio il verbo esatto. Ho visto persone molto diverse, con storie e pene completamente diverse, però quello che ti prende tante volte è un po’ lo stesso, cioè cominci a fare un bilancio e dici: “Io ho quarant’anni, le persone come me che hanno quest’età, cosa hanno di solito?”. Hanno figli, un lavoro, la casa, e allora bisogna che anche tu cominci ad avere qualcosa e ti prende l’ansia di mettere le cose a posto, che a volte, secondo me, diventa assurda, nel senso che le persone fuori non è che vivano tutte felici e contente, abbiano una vita tranquilla, sistemata, relazioni che funzionano, anzi, il mondo cosiddetto “normale” è sempre più pieno di gente che si separa. Elton Kalica: Anche chi va in guerra e sta via tanti anni ha le stesse sensazioni. Tornano e hanno desiderio di costruirsi qualcosa, credo che la lontananza dai famigliari e dalla società per un lungo periodo faccia nascere in modo automatico queste sensazioni. Marino Occhipinti: Il paragone della guerra, rispetto a chi esce dal carcere, in parte è vero perché ti trovi dopo anni catapultato in un mondo che è diverso, però chi tornava dalla guerra non credo che subisse l’esclusione di chi esce dal carcere. Quello che tornava dalla guerra, trovava il ragazzino che voleva conoscere le sue imprese; della galera invece, come diceva Flavio, uno è costretto a parlare con il televisore perché non ha nessuno con cui comunicare. Graziano Scialpi: Credo però che molti escano dal carcere con atteggiamento rivendicativo, questo è il grosso problema. Mi è stata sottratta una parte di vita, si dice, e invece c’è poco da rivendicare, bisogna avere pazienza perché poi la strada più breve è finire nuovamente in carcere o nel crimine. Sandro Calderoni: Nel mio caso, se e quando uscirò, non sarò più un ragazzino, quindi non aspiro neanche più ad una famiglia mia, e non vorrei però neanche più dipendere dalla famiglia di origine, solo avere una mia autonomia. È questo che a volte rischia di farti bruciare i tempi, l’ansia di non dipendere più da nessuno. Ahmet Karaboga: Quando usciamo dal carcere penso che siamo tutti un po’ ansiosi di avere le cose. Uno esce e vede chi, come lui, ha quarant’anni e non riesce a pensare realmente a quello che gli manca senza guardare cosa ha l’altro. Io a venti anni avevo già delle cose che uno a trenta non aveva, avevo il mio BMW ma volevo il Porsche, qui dentro tanti magari avevano la possibilità di farsi una vita decente, invece vogliamo sempre di più. Flavio Zaghi: È vero che i problemi sono soggettivi, però ci sono anche degli altri piccoli motivi di insoddisfazione che possono essere generalizzati per tutti, e sono appunto le difficoltà di rapportarsi con le persone in una certa maniera. Quello di avere delle cose da “rivendicare”, di recuperare il posto in famiglia, nella società… sono trappole, perché io le ho provate su di me e alla fine mi ero fatto le stesse paranoie e sono tornato un’altra volta qui. Bisogna saperle queste cose perché se uno esce impreparato e neanche se le immagina, ci sbatte il muso contro senza avere un minimo di senso critico. Ornella Favero: Una persona quando esce pensa che godere della libertà è così importante, così bello che il resto viene tutto dopo, ma questa sensazione del piacere della libertà, dura un mese. Poi uno si dimentica in fretta del carcere che ha fatto prima, e di quanto sia bello essere fuori, e comincia a sentirsi insoddisfatto della sua vita presente e non si confronta più con la vita di galera, ma con la vita di chi sta fuori, che naturalmente ha sempre più di te, ed è li che cominciano le contraddizioni.
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