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Quegli operatori sociali di nuova concezione, capaci di lavorare sul passaggio dal dentro al fuor Gli operatori che lavorano fuori, non conoscendo il mondo interno al carcere, non sanno come rapportarsi concretamente con i detenuti; e un uguale ma opposto spiazzamento si verifica per chi, abituato a lavorare dentro il carcere, non sa dare un orientamento extramurario alla propria funzione. Ne abbiamo parlato con Sonia Ambroset, psicologa e criminologa
(Incontro avvenuto nell’aprile 2004)
A cura di Paolo Moresco
Per tutti i detenuti che accedono alle misure alternative – ma tanto più per quelli, e sono la maggioranza, che non possono contare sull’attivo sostegno della propria famiglia e su ancor saldi rapporti nel territorio – la transizione dal "dentro" al "fuori" rappresenta una sfida impegnativa e piena di zone d’ombra, in cui è fin troppo facile lasciarsi prendere dall’affanno e dallo scoramento. Ed è appunto nell’intento di dar vita a una sorta di "ponte" fra il carcere e il mondo esterno che da qualche anno si è sentita l’esigenza di creare la figura dell’orientatore-tutor, un operatore di nuova concezione il cui compito consiste, essenzialmente, nell’affiancare il detenuto in questa delicata fase di transizione, aiutandolo ad affrontare e a risolvere i mille problemi, grandi e piccoli, che rischiano di trasformare in una frustrante gimcana il suo percorso di reinserimento. Del tutor, della sua funzione e dei suoi rapporti con il detenuto e con il sistema della giustizia abbiamo parlato – in una tavola rotonda organizzata presso la nostra redazione – con la psicologa e criminologa milanese Sonia Ambroset, una delle prime e più convinte sostenitrici della tutorship in ambito penitenziario.
Paolo Moresco (Ristretti Orizzonti): Nel suo ultimo libro, "Pagine sul metodo, pagine sul carcere" (ne parleremo più diffusamente in uno dei prossimi numeri della rivista - ndr), lei affronta il tema del tutor e descrive con molta chiarezza quali sono le competenze che deve possedere e quali sono le mansioni a cui deve adempiere. Mi parrebbe però interessante, prima di entrare nel merito dell’argomento, che ci raccontasse quando e come questa nuova figura di operatore ha cominciato ad affacciarsi nella realtà penitenziaria italiana. Sonia Ambroset: Dobbiamo risalire a una decina di anni fa, a quando cioè – lavorando a San Vittore, a un progetto che raggruppava quindici realtà del privato sociale milanese – cominciammo a renderci conto che i molti cambiamenti positivi che erano avvenuti in quegli anni all’interno del carcere (finalmente i volontari e le cooperative entravano, si promuovevano corsi di formazione, fiorivano in continuazione nuove iniziative) rischiavano di perdere incisività in mancanza di un efficace collegamento con il mondo esterno. Questo scollamento fra il dentro e il fuori era messo in evidenza dal disagio dei detenuti, che cominciavano sì a trovare opportunità di lavoro grazie alle cooperative e alle associazioni di volontariato, ma che tuttavia – una volta proiettati al di fuori delle mura del carcere – si sentivano dei pesci fuor d’acqua. Non solo risentivano, e pesantemente, della mancanza di un minimo di relazioni sociali nel territorio, ma si sentivano disorientati, impotenti, nei confronti di un mondo rispetto al quale non riuscivano più a relazionarsi: come destreggiarsi nella città? come entrare in rapporto con i servizi? dove sbattere la testa per cercare lavoro? come fare per trovare un alloggio? Partendo proprio da queste difficoltà, spesso soprattutto di ordine pratico, con altre due o tre persone ci ponemmo il problema di promuovere la formazione di operatori sociali di nuova concezione, capaci appunto di lavorare sul passaggio dal dentro al fuori. Ci rendevamo conto infatti che gli operatori che lavoravano fuori, non conoscendo il mondo interno al carcere, non sapevano come rapportarsi concretamente con i detenuti; e un uguale ma opposto spiazzamento si verificava per chi, abituato a lavorare dentro il carcere, non sapeva dare un orientamento extramurario alla propria funzione. Demmo vita così, attorno al ‘96, a un primo sportello destinato a rappresentare un punto di riferimento esterno per i detenuti ammessi alle misure alternative che già avevano partecipato, in carcere, al nostro progetto di reinserimento. Era un piccolo esperimento, tutto di volontariato, ma gli educatori, gli assistenti sociali e i volontari che vi erano coinvolti non tardarono ad accorgersi che i detenuti - incontrati fuori dal carcere - erano già persone diverse rispetto a quelle che avevano conosciuto dentro. E tale cambiamento era tanto più notevole, e allarmante, per quel che riguardava i tossicodipendenti. Cominciammo allora a riflettere sulla necessità di individuare persone di riferimento su cui i detenuti potessero appoggiarsi in quel delicatissimo momento di transizione, e capimmo che quel lavoro spettava a noi; che eravamo insomma noi, operatori, a dover imparare a stare con le persone uscite dal carcere, in quella fase critica, aiutandole nella ricerca di un lavoro e di un alloggio, nello sviluppo di relazioni quotidiane più soddisfacenti, nella delicata ripresa di contatto con la famiglia, lasciata magari da parecchi anni. Per riuscire in un compito del genere occorreva però avere delle capacità specifiche: bisognava infatti sapersi relazionare sia con il carcere che con il mondo esterno, ma anche sapersi rapportare con persone che non erano più dentro ma che non erano ancora completamente fuori, e che quindi spesso vivevano una situazione di profondo disagio. Persone, insomma, che avevano bisogno sì di un confronto, ma non necessariamente con l’assistente sociale del CSSA e neppure con lo psicologo del consultorio. Sostanzialmente, avevano semmai bisogno di operatori davvero in grado di vivere al loro fianco quella complessa e precaria stagione della loro vita.
Marino Occhipinti (Ristretti Orizzonti): Insomma, se ho ben capito siete dovuti andare… a scuola, perché una cosa è individuare la necessità di svolgere una certa attività, ben altra cosa è imparare concretamente a farla, specie se si tratta di un’attività così innovativa e dai contorni così difficilmente precisabili. Chi vi ha aiutato, in questo passaggio dall’idea dell’orientatore-tutor alla formazione di operatori capaci di svolgere concretamente questo difficile ruolo? Sonia Ambroset: Il primo, e purtroppo per ora unico corso di formazione (200 ore di lavoro davvero mirato), fu finanziato nel 1998 dalla Regione Lombardia. Vi presero parte una ventina di ragazze e ragazzi, alcuni laureandi, altri operatori sociali, altri semplicemente volontari, che si occupavano già da tempo di carcere. Il nostro obiettivo consisteva nel mettere in campo venti persone formate per fare effettivamente questo mestiere, e per questo abbiamo dovuto far ricorso anche ad insegnanti un po’ speciali: sì, gli stessi detenuti, perché solo un detenuto o un ex detenuto sa davvero cosa vuol dire vivere sulla propria pelle questo passaggio dal dentro al fuori. Una volta terminato il corso di formazione, quei venti operatori non hanno messo in piedi nuove associazioni o nuove iniziative, ma sono andati a lavorare dentro le cooperative che già ospitavano detenuti o dentro associazioni di volontariato. Noi non abbiamo mai immaginato infatti l’orientatore-tutor come un nuovo ruolo professionale, con tanto di albo e tutte queste cose qui; e tanto meno abbiamo mai pensato che a questo tipo di attività potessero accedere solo gli psicologi o gli assistenti sociali, o gli educatori; volevamo che la tutorship potesse essere esercitata da persone magari anche prive di competenze professionali con tanto di qualifica, ma che avessero la voglia, l’interesse e anche la capacità di stare davvero insieme ai detenuti in uscita. Oggi ci sono numerosi operatori sociali, all’interno di associazioni di cooperative o di progetti, che svolgono esattamente questa attività, consistente sostanzialmente nel dare un supporto alle persone che escono dal carcere. Quello che contava per noi, in fase di messa a punto di questo tipo di lavoro, e che continua a contare ora nella sua applicazione concreta, è che non venga fatto in termini assistenziali. Il concetto, in sostanza, è il seguente: hai qualcuno che ti dà una mano per un po’ di tempo, ma solo per un po’ di tempo, e non deve essere uno che fa delle cose "per te", ma uno che le fa "con te", così tu impari a farle e poi te le farai per conto tuo.
Nicola Sansonna (Ristretti Orizzonti): Io sono dentro da parecchio, e ricordo quando diversi anni fa si cominciò a parlare dell’introduzione della figura del tutor. Devo dire che, al di là dell’idea in sé, certo apprezzabile, fra i detenuti era abbastanza radicato il sospetto che il tutor poi, nella realtà, finisse per trasformarsi in un ulteriore elemento di controllo; insomma, uno stratagemma un po’ ruffiano del sistema della giustizia per chiudere ancora di più il cerchio intorno al detenuto. Ritiene che avesse un senso, quella nostra diffidenza? Sonia Ambroset: Non solo era una paura legittima, quella che potevate avere voi detenuti, ma era una preoccupazione anche nostra. E proprio per mettere bene in chiaro l’autonomia del tutor rispetto al sistema della giustizia, in quel primo corso di formazione abbiamo stabilito, come condizione preliminare, che sta al detenuto e soltanto a lui scegliere se avvalersi o no dell’assistenza di questa figura di supporto, e che fra il tutor e gli operatori della giustizia il rapporto deve essere il più possibile distaccato. Riconosco, però, che questo è un concetto non facile, da far passare. Perché mentre il tutor sa come muoversi - su questo punto siamo stati infatti molto chiari - gli operatori della giustizia si trovano un po’ spiazzati, rispetto al nostro modo di lavorare. Abbiamo tuttavia visto con chiarezza che se gli operatori che assumono la funzione di tutor conoscono il sistema, sanno relazionarsi al CSSA e sanno relazionarsi con il detenuto, in genere riescono a imporre l’autonomia del loro ruolo e a stabilire un rapporto corretto con gli operatori della giustizia. Comunque, e più ci siamo inoltrati su questa strada e più ce ne siamo resi conto, per adempiere alla funzione di tutor non basta essere un operatore sociale, e neppure una persona di buona volontà; per fare il tutor occorre sapere come funziona questo sistema, perché solo se conosci il sistema ti ci puoi destreggiare. Per quel che riguarda inoltre l’autonomia dei tutor rispetto al sistema della giustizia, faccio notare che le persone che svolgono quest’attività non fanno relazioni di osservazione scritte e, quando vanno a parlare con il CSSA, lo fanno esclusivamente "in accordo" con il detenuto e "con" il detenuto. Se si organizza un lavoro d’équipe, per fare un esempio, non lo si fa mai solo fra operatori. Questi per noi sono principi cardine, dai quali non si può transigere: altrimenti si rischierebbe davvero di fare da supporto agli assistenti sociali.
Paolo Moresco: Vorrei portare la nostra riflessione su un altro aspetto. Se la funzione dell’orientatore-tutor è sostanzialmente quella di affiancare il detenuto nel delicato passaggio che dalla carcerazione conduce al reinserimento, aiutandolo a formarsi quella "competenza di vivere" senza la quale ogni vero reinserimento è impensabile, non si corre il rischio che si venga a creare, fra lui e l’operatore, un rapporto di dipendenza paragonabile, in un certo senso, a quello che spesso si viene a creare fra paziente in analisi e psicoanalista? Non c’è il rischio, in breve, che si venga a determinare un rapporto che sarà poi difficile troncare? Sonia Ambroset: Questo è un rischio che in effetti esiste, e che è peraltro assolutamente reciproco, sia per il detenuto che per l’operatore. È insomma un rischio reale, quello di andare avanti per tutta la vita assieme, come appoggiandosi l’uno all’altro; è un rischio che tuttavia esiste in tutto il lavoro sociale. Per evitare che ciò possa avvenire, noi abbiamo posto dei paletti molto precisi, il primo dei quali consiste nello stabilire subito con il detenuto che il tutor è a sua disposizione per un tempo prestabilito, diciamo un anno. Se entro quell’anno le cose non si risolvono, non è che andiamo avanti comunque, nell’attesa che prima o poi qualcosa succeda. Il concetto è: o te la giochi bene, quest’opportunità, oppure a un certo punto essa scade. Questo modo di chiarire fin da subito tempi e termini dell’azione di tutorship mette l’operatore nella condizione di sapere, lui per primo, che ha un tempo limitato a disposizione; e mette il detenuto nella condizione di capire che deve approfittare in fretta dell’opportunità che gli viene offerta, perché non deve diventare un assistito a vita. Questa logica ha ricevuto più di una critica, al punto di essere definita addirittura inumana da parte di non pochi operatori sociali. Noi però su questo punto restiamo molto rigidi, convinti come siamo che più dai un limite temporale preciso, all’azione di supporto, e più le persone imparano a valorizzare il tempo che hanno a disposizione, e poi te ne sono grate. D’altra parte non è che i "ritardatari", poi, li abbandoniamo a loro stessi… Cessiamo di seguirli, come tutor, ma li affidiamo comunque ad altre realtà e ad altre forme, più tradizionali, di assistenza.
Nicola Sansonna: Il fatto che il tempo a disposizione sia così limitato, tagliato con l’accetta, mi lascia un po’ perplesso. Un anno potrà andare bene per un detenuto normale, con una buona padronanza di sé; ma per uno che ha problemi di tossicodipendenza, per esempio, o che magari ha maturato in carcere, come purtroppo avviene spesso, una vera e propria dipendenza da psicoformaci, un anno può essere una scadenza troppo ravvicinata... Non ci vorrebbe da parte vostra un po’ di elasticità in più, almeno in casi del genere? Sonia Ambroset: I tempi non sono infatti così rigidamente definiti, e uguali per tutti e per tutte le situazioni. Diciamo che il rapporto che si crea fra detenuto e tutor è sempre molto personale, e quindi sensibilmente variabile da caso a caso. Nella realtà, le cose procedono così: io, tutor, incontro te, detenuto, e tu mi dici che vuoi il mio aiuto per uscire dal carcere in un certo modo; insieme stabiliamo qual è il percorso che dobbiamo fare e insieme stabiliamo anche in che termini e in che tempi ce lo gestiamo, questo tratto di strada da percorrere insieme. Il concetto insomma è che tu, fin dall’inizio, sai che hai un certo spazio di tempo a disposizione, concordato insieme, perché se non ci diamo una scadenza fin da principio è inevitabile che fra tre anni siamo ancora qui, a ciacolare insieme. Insomma, darsi un tempo è un aspetto fondamentale, perché altrimenti sia la logica dell’operatore che quella della persona che ha bisogno è quella di rimanerci a vita, in questa situazione.
Sandro Calderoni (Ristretti Orizzonti): Finora abbiamo parlato del tutor in generale, ma esistono allo stato attuale realtà concrete in cui i tutor già operano in modo non occasionale? E inoltre: nel confronto con la situazione e con la persona reale, il tutor riesce ad attenersi al modello "teorico" che fin qui lei ci ha descritto? Sonia Ambroset: Attualmente io sto seguendo diverse équipes, che lavorano per diverse realtà e per diversi bisogni, perché i modelli di partenza – alla prova dei fatti – in effetti sono stati poi sensibilmente modificati, per meglio adattarsi alle concrete e variabili situazioni in cui sono costretti a calarsi: e così il lavoro di queste équipes in alcuni casi è particolarmente centrato sull’inserimento lavorativo, in altri sull’inserimento abitativo, in altri ancora sull’inserimento di tipo relazionale. Normalmente si lavora sulla base di una conoscenza che si sviluppa nell’arco di un mese, nel corso del quale il tutor e la persona puntano essenzialmente a capirsi e a stabilire un rapporto di fiducia e di dialogo efficace. In seguito viene stilato un progetto, insieme, nel quale il tutor e il detenuto ragionano su come muoversi per far fruttare al meglio il tempo che si sono dati per portare a termine la loro strada comune. Non esistono quindi criteri selettivi in base ai quali si dice questo sì e questo no. C’è, invece, questa prima fase di osservazione reciproca, in cui si valuta e si decide insieme il da farsi. E in genere già in questo primo mese si capisce chi ce la farà e chi non ce la farà, e soprattutto chi davvero ha intenzione di mettercela tutta. Comunque, si lavora sempre sul bisogno della singola persona e mai su modelli predefiniti. Tant’è che ci sono casi di ex detenuti che si reinseriscono in fretta e bene (magari perché avvantaggiati dall’aver conservato buoni rapporti con la famiglia e una valida rete di rapporti personali nel territorio, oppure perché in possesso di buone competenze professionali, che li aiutano a reinserirsi in fretta nel mondo del lavoro) e che tuttavia, di tanto in tanto, sentono la necessità di un confronto con il tutor, non foss’altro che per fare il punto sulla situazione.
Paolo Moresco: Personalmente mi ha interessato molto, a un certo punto del suo libro, il discorso sul rischio. Lei scrive: "L’elemento del rischio è un dato strutturale di questo modo di lavorare, come un dato strutturale è che un detenuto che va in permesso possa non rientrare in carcere. E proprio per questo progettare e lavorare in carcere vuol dire imparare a gestire il rischio". Mi pare che il concetto dell’accettazione del rischio, il considerarlo cioè come "fisiologico", sia particolarmente importante, direi centrale, nella concezione del tutor come figura che opera a supporto del detenuto in piena autonomia dal sistema giustizia. Sonia Ambroset: Ho inserito questo discorso sul rischio perché mi sono sempre stupita di chi si stupisce. D’altra parte, senza rischi non si cresce in generale, figuriamoci in situazioni di questo tipo. Va detto poi che la cultura del rischio, il considerarlo cioè strutturale per chi lavora in ambito penitenziario, vuol dire sostanzialmente accettare l’idea che l’altro, il detenuto, è una persona che può fare le sue scelte. Vuol dire non starsene rintanati nella logica infantilizzante, passivizzante, che è tipica della galera. Non solo, ma che è tipica anche di come è strutturato in genere il lavoro dell’assistenza, dove tutto è teso a proteggere costantemente "l’altro" dal rischio. I rischi bisogna imparare a viverli, sia come operatori sia come detenuti. Il concetto di rischio, del resto, è strettamente legato a quello di responsabilità, personale e collettiva. E ragionare in maniera aperta e spregiudicata su responsabilità e rischio potrebbe essere utile, sia con le persone detenute, sia con gli operatori.
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