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Sicurezza dei diritti, non diritto alla sicurezza “La sicurezza è la ricaduta benefica che c’è solo se io riesco a garantire maggior tutela dei diritti di tutti, soprattutto dei più deboli”
(Realizzata nel mese di settembre 2005)
Intervista al criminologo Massimo Pavarini, a cura della redazione
Massimo Pavarini, docente di Diritto penitenziario all’Università di Bologna, lo si sta ad ascoltare sempre con piacere, perché è brillante, caustico, pessimista quanto basta, mai scontato. A Belluno, durante il Seminario di studi “Quale sicurezza ci rende sicuri?”, lo abbiamo invitato a parlare di sicurezza, e lui ha scardinato tutte le banalità che imperversano sui mass media a proposito di questo tema diventato ormai così squisitamente “elettorale”.
Oggi la sicurezza è diventata una delle ossessioni di tutte le campagne elettorali, dei mass media, delle discussioni da bar. Ma viviamo davvero in un mondo più insicuro? In realtà ritengo che stiamo soffrendo una singolare contraddizione: dal punto di vista dei livelli di sicurezza oggettiva, noi, che viviamo nel cosiddetto Primo Mondo, godiamo di livelli di sicurezza mai goduti nel passato, eppure oggi ci sentiamo o diciamo di sentirci sempre più insicuri. Le generazioni che ci hanno preceduto erano molto più insicure di noi: ad esempio i nostri nonni avevano aspettative di vita più ridotte. Solo un secolo fa, spostarsi da una città all’altra voleva dire affrontare seri pericoli. Se vogliamo anche restringere il tema della sicurezza a quello determinato dal delitto, il rischio di essere vittima di un attentato alla persona era più alto una volta: solo tre generazioni fa, chi usciva di notte ed era ricco, di regola era armato (poi, certo, per chi era povero e non possedeva nulla, il rischio di essere vittima di un delitto era abbastanza improbabile allora come lo è oggi). Noi oggi viviamo quindi un paradosso: stiamo in una società più sicura, più capace di calcolare i rischi e proprio perché siamo capaci di calcolare i rischi alla fine siamo sempre meno disposti a correre dei pericoli.
C’è stato o no un aumento della criminalità nel periodo più recente? Sì, non c’è dubbio: come in quasi tutti i paesi occidentali un certo tipo di criminalità – quella contro la proprietà in particolare – è aumentato molto, moltissimo. Si potrebbe dire, in parole semplici, che la criminalità predatoria è aumentata in ragione diretta dell’aumento della ricchezza materiale della società. Insomma: siamo diventati più ricchi e in termini proporzionali sono aumentati i furti. È, se volete, il prezzo che si deve pagare al benessere economico raggiunto; nei paesi poveri, poverissimi i delitti contro la proprietà sono pochi, pochissimi, salvo poi scoprire che proporzionalmente sono società in cui il rischio di subire un delitto contro la persona è più elevato di quanto lo sia nelle società ricche. Anche l’Italia, quindi, dalla metà del secolo scorso ha sofferto un trend crescente di delittuosità contro la proprietà; ma bisogna anche dire che l’Italia è il paese che ha registrato nell’ultimo secolo - secolo e mezzo - una drastica riduzione dei reati contro la persona. Da questo ultimo punto di vista l’Italia dell’ottocento era uno dei paesi europei più insicuri. Non so se qualcuno di voi sa cosa raccontano i diari dei nobili e ricchi borghesi del nord Europa che venivano nel giardino d’Europa a visitare le bellezze naturali ed artistiche del nostro paese: l’Italia d’allora era ai loro occhi un paese sanguinario, che terrorizzava qualsiasi visitatore straniero. Dagli assalti dei briganti agli omicidi, al duello, che era diffuso sia nelle classi aristocratiche sia nelle classi popolari, l’Italia dell’ottocento era un paese selvaggio, primitivo e pericolosissimo. E non sempre quelle paure erano infondate: abbiamo indici statistici di omicidi commessi in Italia a partire dall’unificazione. Ebbene: l’Italia del 1860 conosceva indici di omicidi dolosi superiori a quelli che oggi soffre la Colombia, che come non tutti forse sanno è il paese che registra il più alto tasso mondiale di omicidi. Oggi l’Italia, nonostante la presenza ancora diffusa della mafia e di altre organizzazioni criminali che non si fanno certo scrupolo di uccidere, è un paese a indice di omicidi consumati e tentati, ovviamente di tipo doloso, assai contenuto, ad esempio quattro volte inferiore a quello degli Stati Uniti. Allora: se gli omicidi nel tempo sono diminuiti di cinquanta volte e i furti sono aumentati forse di 1000 volte, dobbiamo concludere che la criminalità è aumentata o diminuita?
Il diffondersi oggi dell’insicurezza determina anche una diversa considerazione sociale del carcere? Direi di sì, anche se il rapporto è più complesso di quanto si possa pensare. Direi che bisogna partire da un dato di fondo: nelle ultime due decadi nel mondo occidentale abbiamo assistito ad un progressivo ma significativo passaggio da una cultura dell’inclusione sociale a una dell’esclusione. Il modello inclusivo, che si è realizzato a fare corso dalla metà del XX secolo e che si è tradotto nelle forme più o meno avanzate di stato sociale di diritto, ha determinato anche una particolare cultura penale, quella del trattamento rieducativo. Parlo di modello inclusivo, perché in buona sostanza al fondo della retorica dello stato sociale c’è l’idea che la forma migliore di governo dei conflitti sia quella volta ad includere politicamente e socialmente i soggetti, anche e soprattutto quelli emarginati e deboli, come ad esempio i detenuti. La crisi del welfare state e dello stato sociale di questi ultimi anni ha fatto sì che anche l’ideologia della rieducazione entrasse in crisi.
Che cosa ha messo la parola fine al modello sociale inclusivo? Ora, per dirla con una battuta, direi che ad un certo punto qualcuno si è alzato in piedi e ha ordinato a tutti: “La ricreazione è finita, adesso tutti seduti”. Il grave è che questo comando è stato progressivamente condiviso da sempre più persone. Tutto sembra sia iniziato nei primi anni settanta del secolo scorso negli Stati Uniti d’America, quando un mediocre attore è stato eletto presidente; poi questa idea che bisognasse ridurre lo stato sociale che era diventato il paradiso dei fannulloni e degli scrocconi, ha attraversato l’oceano ed è approdata in Europa. Insomma, fuori di battuta: l’ideologia neoliberista ha avuto il sopravvento su quella solidarista dello stato sociale. Bene, il tema della sicurezza nasce con questo cambiamento: la sicurezza dalla criminalità è la parola nuova che diventa moneta corrente nel passaggio dallo stato sociale verso modelli neo liberisti. È all’interno di questo contesto che nasce il tema della sicurezza: dai miei genitori, che hanno vissuto l’ultima parte della loro vita nello stato sociale di diritto garantito, alla mia famiglia che vive oggi nel post welfare, dal punto di vista dei pericoli oggettivi di essere vittima di un qualche reato, è cambiato ben poco. Certo sono aumentati alcuni reati predatori, ma in sostanza io godo della stessa sicurezza dei miei genitori quando esco la sera o attraverso la mia città di notte. La questione è ben altra: è che la sicurezza da bene pubblico si è progressivamente trasformata in bene privato.
In che senso la sicurezza è ormai un bene privato? La sicurezza è diventata una risorsa privata, un bene privato che si può comprare sul mercato. Quando oggi si parla del problema della sicurezza non si fa riferimento alla sicurezza come era intesa nello stato sociale, che intendeva la sicurezza come bene sociale per tutti. La sicurezza sociale nello stato sociale era lo scopo e l’effetto del buon governo: più un’amministrazione è corretta, attenta, capace di supplire alle inefficienze del mercato, capace di prevenire le situazioni critiche, capace di risolvere i problemi, più i cittadini godono di sicurezza sociale. Invece oggi la sicurezza è diventata un nuovo bene, un bene però non garantito a tutti indistintamente, ma come la proprietà è un bene privato. Questo è il vero punto in cui oggi ci troviamo: quando qualcheduno invoca e pretende maggiore sicurezza, la rivendica con la pretesa di avere una fetta di sicurezza aggiuntiva in più, per sé, non per tutti. Allora cominciamo a capire che la sicurezza è un bene privato, che pone un problema irrisolvibile riguardo alla distribuzione delle risorse.
Cosa succederà allora con le scarse risorse disponibili per la sicurezza dei cittadini? Facciamo un esempio: io abito in un quartiere, voglio più sicurezza nel mio quartiere. Ma oggi chiedere maggior sicurezza nel mio quartiere comporta la minor sicurezza del territorio limitrofo. Quando io dico: voglio più polizia, voglio più videosorveglianza, voglio più controllo, è chiaro che se certi quartieri debbono essere più sicuri, inevitabilmente altri, più poveri, soffriranno di una quota aggiuntiva di disagio sociale nel proprio territorio. Si apre così un conflitto perenne. Questo conflitto come lo risolvi? Se ti muovi in una dimensione privata della sicurezza, non c’è dubbio che gli attori più forti si accaparrano quote maggiori di sicurezza a scapito dei più deboli. Già adesso si vendono gli immobili con il valore aggiunto della sicurezza: questa abitazione in questo quartiere vale il 20% di più, non perché c’è più verde, ma perché è più sicura. È ovvio che ci saranno case che varranno poco, sempre meno, perché sono in quartieri definiti poco sicuri.
Un paese impreparato a confrontarsi con le diversità, perennemente in bilico tra ostilità, xenofobia e razzismo
Ma il conflitto nasce anche in un altro senso, ad esempio tra la mia sicurezza e la tua nella fruizione dei diritti fondamentali. Il desiderio di non avere membri della comunità Rom tra le scatole può mai coincidere con la sicurezza dei Rom di veder rispettata la loro etnia? Il conflitto c’è ed è irrisolvibile. Oggi non si parla più della sicurezza come sicurezza dei diritti, ma di diritto alla sicurezza, e pertanto di un bene scarso. E in quanto bene scarso esso determina competizione sociale e politica. I partiti politici cercheranno allora di guadagnare consenso vendendo promesse di rassicurazione e si porteranno a casa nuovi voti. Anche questo è mercato. Ed è ciò che già oggi avviene e che apre un conflitto permanente sul piano dell’esercizio dei diritti. Pertanto io parlo della sicurezza come sicurezza dei diritti di tutti: un bene pubblico che lo Stato può produrre se riesce a garantire maggiore tutela dei diritti, soprattutto dei più deboli.
Ma che attenzione si deve prestare ai bisogni di sicurezza della gente? Quando si dice che si deve prestare la massima attenzione alle paure della gente, si dice una cosa giustissima. Ciò però non vuol dire che la paura della gente debba essere assunta cosi com’è: così com’è, essa provoca esclusione sociale, e pertanto bisogna essere cauti. Ad esempio: oramai sappiamo dell’esistenza di un corto circuito tra sentimenti socialmente costruiti di insicurezza e imprenditorialità nelle campagne morali sulla sicurezza. Cosa s’intende per imprenditorialità morale? C’è chi ha fatto di questi sentimenti un business, un grande business: è diventato imprenditore dei sentimenti, li ha costruiti, manipolati, orientati verso obiettivi che rendono. E questo tema dell’imprenditorialità morale sulla questione appunto dei sentimenti di insicurezza è quello che poi ha trasformato la politica nel senso più ampio. L’imprenditorialità morale sul tema dell’insicurezza può essere benzina sul fuoco, ad esempio, rispetto alle politiche di integrazione degli immigranti e rispetto ai processi immigratori più in generale, in un paese come il nostro impreparato a confrontarsi con le diversità, perennemente in bilico tra ostilità, xenofobia e razzismo. Ma di più: se i processi migratori sono sempre stati sofferenza per chi li ha vissuti, è pur vero che in altri momenti storici essi si sono sviluppati all’interno di modelli economici e culturali di tipo inclusivo. Non dico che i nostri italiani emigrati tra Otto e Novecento negli Stati Uniti d’America siano stati accolti con le fanfare, ma va riconosciuto a quel grande paese di allora di essere stato capace di esprimere una cultura dell’inclusione sociale dello straniero.
E nel nostro paese come si affronta la questione immigrazione-sicurezza? La nostra logica invece è quella che assume in partenza la prospettiva dell’esclusione: l’immigrato che delinque, è comunque alla fine espulso, o attraverso una misura di prevenzione, o una misura di sicurezza, o una pena sostitutiva o una accessoria. Meglio: si vorrebbe espellerlo, perché ben sappiamo quanto poi sia difficile nei fatti dare esecuzione sempre e comunque a questa volontà. Ma non importa: dal punto di vista culturale, l’Italia oggi esprime una cultura dell’esclusione nei confronti degli stranieri e non certo una dell’inclusione. Diciamolo con sincerità: non c’è una chiara volontà di integrazione dello straniero. Certo ci fa comodo che gli immigrati facciano alcuni lavori ingrati a cinque euro lordi all’ora; che facciano le badanti sì, anche questo va bene, ma poi non li vogliamo integrati. Deve essere però a tutti chiaro che così facendo non si limita il flusso di stranieri nel nostro paese. Questa strategia è quindi destinata a fallire: ma se le risorse sono poche e il nostro sistema economico non prevede per il futuro, neppure per la seconda generazione, un vero modello di inclusione degli immigrati e dei loro figli, allora è facile essere profeti di sventura. Per chi lavora nel sociale, oggi giorno sono ancora “rose e fiori”: l’emergenza sicuritaria scoppierà quando i figli degli immigrati, nati in Italia, entreranno nella fase dell’adolescenza e della gioventù. Sul punto la letteratura è concorde: il vero problema della devianza è la seconda generazione, che parlerà con l’accento dialettale delle nostre comunità, ma che avrà comunque la pelle nera e che, se non integrata, si sentirà – e a ragione – di serie B. È questo il momento in cui scatta il conflitto di valori e si determina quanto è già successo in Francia e in Inghilterra. E in Italia fra 5 o 6 anni questi giovani nati da genitori immigrati entreranno nella fase più pericolosa, sia per loro che per noi. Quindi bisogna prepararci e sinceramente non capisco perché non ci si prepari a un evento annunciato e sicuro. Del tema sicurezza bisogna quindi farsi carico ma senza legittimarlo nei termini con cui è stato finora costruito. In qualche modo il nodo è ineludibile: bisogna arrivare al più presto a definire un nuovo patto di cittadinanza rispetto al quale fondare i nuovi criteri dell’inclusione sociale. Nello stato sociale il criterio su cui si fondava l’inclusione era il lavoro. Una volta si diceva che tra l’inclusione e l’esclusione dal mondo del lavoro si giocava il diritto di cittadinanza, vi ricordate? Per cui chi lavorava era incluso, chi non lavorava no. Ma oggi non possiamo più richiamarci a questo criterio. Se lo sviluppo economico che avanza non prevede lavoro per tutti, ma lavoro per sempre meno persone, perché questo sistema economico ha allocato diversamente le risorse e accetta come inevitabili tassi elevatissimi di disoccupazione, che facciamo: escludiamo dai diritti di cittadinanza chiunque non si inserisce nel mondo del lavoro? O cerchiamo altri criteri su cui fondare il nuovo patto di cittadinanza?
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