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La nostra è una società che chiede soprattutto di rinchiudere chi ha commesso un reato e di buttare la chiave
(Realizzata nel mese di maggio 2001)
A cura di Francesco Morelli
Sui temi della sicurezza, della necessità di evitare le pene inumane e crudeli, del ruolo del difensore civico per le carceri abbiamo parlato con Mauro Palma, che rappresenta l’Italia nel Comitato Europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti
Mauro Palma rappresenta l’Italia in quel Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti, che di recente ha prodotto un rapporto severo sulla situazione delle carceri e dei centri di detenzione temporanea in Italia. Con lui, a Padova durante la Giornata di studi su "Volontariato penitenziario e informazione", abbiamo parlato di sicurezza, di pene alternative, del ruolo del volontariato penitenziario, dell’importanza del difensore civico per le carceri. Lei ha affermato che il volontariato non dovrebbe svolgere una funzione di supplenza, laddove si verificano delle carenze istituzionali, ma piuttosto essere il soggetto che crea un’osmosi tra carcere e società. Quanto è importante che l’informazione entri ed esca liberamente dal carcere, e che dei problemi della detenzione si occupino anche i "non addetti ai lavori"? Penso che il problema della giustizia non debba essere ristretto agli addetti ai lavori. È un problema che riguarda la società nel suo complesso, è una spia del nostro livello di democrazia. Per questo dobbiamo cercare di sensibilizzare i non-operatori, quell’insieme sociale che invece oggi sembra delegare ai tecnici le proprie contraddizioni, come il problema di quali debbano essere i ruoli, i confini e le forme della propria potestà punitiva. La nostra è una società che sembra soltanto chiedere di non vedere le contraddizioni che sono al suo interno, di rinchiudere chi ha commesso un reato e di buttare la chiave; che chiede, giustamente, sicurezza, ma la chiede in termini timorosi, anche egoistici, soprattutto rincorrendo l’effimera ipotesi che una maggiore segregazione possa portare a una minore insicurezza.
Se l’opinione pubblica è orientata prevalentemente in questo senso, come riesce a "giustificare", di fronte ad essa, la funzione svolta dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura, cioè la tutela dei diritti di quelle persone che hanno violato le regole sociali? Rispondo con un concetto che riprendo da autorevoli costituzionalisti: potremo sostenere di aver raggiunto la pienezza costituzionale quando avremo capito che la tutela dei diritti fondamentali, quelli che attengono alla persona e alla sua dignità, non viene meno per l’aver commesso un reato e per l’essere sottoposto a pena. La pena ha una sua fisionomia, una sua determinazione, una sua durata, una sua ragionevolezza: ogni ulteriore connotazione o accentuazione, fuori da quanto stabilito e determinato, è impropria. Ogni ulteriore soppressione dei diritti è illegittima. Nello stato moderno il diritto penale nasce con una funzione di duplice prevenzione: prevenire i delitti e prevenire, al contempo, le pene inumane e crudeli. Se questi confini vengono travalicati si va verso un’incertezza vessatoria che ci riporta prima del secolo dei lumi: per questo è importante comprendere che non è "chi si è reso colpevole" a richiedere la tutela dei propri diritti, ma è proprio chi è esterno (e ha a cuore il nostro stato di diritto) a richiederla per chi è colpevole.
Però la "gente", che pure ha a cuore lo stato di diritto, prima di tutto ha a cuore la propria sicurezza: vorrebbe poter circolare per le strade senza la paura di essere aggredita, vorrebbe poter andare a letto tranquilla, senza dover trasformare la propria casa in un bunker… Partiamo da una situazione provocatoria: cosa tutela la sera le persone, soprattutto le donne, al loro rientro a casa? La possibilità di sapere che esiste una pena certa per l’eventuale aggressore, o la possibilità di stare in strada insieme a molte persone, o in autobus non vuoti, in modo tale da avere una sorta di aiuto e di sicurezza reciproca? Entrambe le cose, si può giustamente rispondere. Tuttavia noi crediamo che per costruire un’idea meno timorosa di sicurezza, e anche più concreta, ci debba essere, accanto a un supporto preventivo in grado di far sentire la presenza istituzionale nel territorio, la destrutturazione dell’individualismo che caratterizza il nostro vivere nelle città. Servizi di trasporto efficienti e utilizzati da tutti, fino a tardi, interventi sulle forme di povertà, interventi di riduzione del danno, sia nei confronti dei tossicodipendenti sia nei confronti delle marginalità estreme, sono modi più efficaci per ridare sicurezza di quanto non lo siano la previsione di nuovi reati, l’inasprimento delle pene o le chiacchiere sulla certezza della pena. L’insicurezza è un sentimento sociale delicato, difficile da afferrare: una società può sentirsi sicura anche in situazioni gravi, perché forti sono i valori condivisi, oppure non sentirsi sicura anche in situazioni di benessere e di sufficiente tranquillità. La maggiore penalità finisce per assumere un valore improprio, impossibilitata come è a risolvere questa contraddizione e così, per paradosso, diviene ben presto generatrice di insicurezza. Non è certo un caso che più i paesi hanno un alto numero di detenzioni, più il sentimento di nuova insicurezza si ricrea.
Lei ha sollevato alcune critiche al sistema delle misure alternative alla detenzione. Eppure, per chi è in carcere, queste rappresentano un traguardo irrinunciabile… Le misure alternative hanno avuto un ruolo fondamentale per dare speranza al tempo detenuto e traguardi al percorso carcerario, questo non esenta però dal riconoscere che hanno alcuni limiti. Il primo, evidente, è che il loro aumento numerico non ha portato, né in Italia né altrove, a una riduzione dei numeri della detenzione: al contrario la previsione di forme alternative nell’esecuzione della pena detentiva determina, a volte, un aumento della pena irrogata, tenuta verso i massimi livelli proprio in considerazione di una sua successiva modulazione. Questo comporta una differenza forte tra pena comminata e pena scontata, che determina sconcerto in un’opinione pubblica portata a non credere più all’effettività della pena. Il secondo limite sta nella fisionomia che queste pene hanno assunto nei vari anni, anche in base all’operato della Magistratura di Sorveglianza: sono sempre meno "tappe" di un percorso di reinserimento, sempre più semplici "riduzioni dell’afflizione", discrezionalmente concesse fuori da un effettivo progetto. A questo si collega un terzo limite: nella decisione di concessione di una misura è sempre più frequente l’incidenza delle condizioni materiali esterne su cui un detenuto potrà contare fuori (famiglia, reti sociali protettive) piuttosto che l’effettiva osservazione del percorso detentivo. Questo porta a escludere, di fatto, dall’accesso quei soggetti che non possono contare su strutture esterne di riferimento: per loro la pena carceraria è più che certa. Questi aspetti ci portano ad auspicare che, accanto alle misure alternative che abbiamo sperimentato, si prevedano nel codice delle pene alternative già comminate in sentenza, di tipo interdittivo, di tipo riparatorio o di tipo risarcitorio, quali le forme di attività socialmente utile. Il sistema delle alternative dovrebbe perciò fare il suo ingresso nel codice e con una certa fantasia nell’individuazione delle pene diverse dal carcere: non è possibile, così come accenna il testo della Commissione Grosso (commissione costituita per lo studio e la riforma del Codice Penale), limitarsi alla detenzione domiciliare che, tra tutte, è quella più iniqua perché rinvia alla contraddizione sociale da cui si proviene.
Recentemente, in questo carcere, si è svolto un convegno sulla difesa d’ufficio ed il gratuito patrocinio: cosa ne pensa dell’attuale normativa in materia di difesa dei non abbienti? Penso che l’attuale sistema non difenda affatto chi è privo di mezzi economici e che il problema della disuguaglianza nell’accesso alla difesa sia il più grave del nostro sistema penale, perché rende falsa quell’affermazione di uguaglianza di fronte alla legge che sta, come monito, in ogni aula di tribunale. In alcuni processi la difesa non esiste. Per questo abbiamo proposto l’istituzione di un Ufficio Pubblico di Difesa, accanto al normale sistema di difesa privata, che preveda al suo interno l’utilizzo di professionalità effettive e non marginali.
Un altro tema, sul quale abbiamo molto discusso, è quello dell’istituzione di un difensore civico per le carceri. In vari paesi europei questa figura esiste già: può dirci come opera? Le esperienze di figure di osservazione di un sistema, di prevenzione dei conflitti nonché della loro mediazione va diffondendosi in molti paesi europei. Non tutti i conflitti debbono finire in sede giudiziaria: molti possono essere prevenuti, altri risolti in sedi conciliatorie diverse. Nel Nord Europa, ma non solo in esso, esiste la figura dell’Ombudsman, che potrebbe avere un ruolo importante anche in Italia, all’interno delle istituzioni dove la libertà è compressa e dove il rischio di non tutela dei diritti fondamentali è maggiore. L’ufficio dell’Ombudsman dovrebbe avere, quindi, il ruolo di osservatorio continuo del carcere, con il particolare compito di prevenzione, di risoluzione delle controversie meno gravi, filtrando verso il magistrato solo quelle che richiedono un intervento in sede giurisdizionale. Deve essere un garante dei diritti dei detenuti, non un avvocato dei detenuti. C’è chi osserva che questa funzione di tutela è assegnata al Magistrato di Sorveglianza: è però l’esperienza di questi anni a dirci che la funzione del Magistrato di Sorveglianza si è sempre più spostata sul versante del "giudice dell’esecuzione", per l’accesso alle misure alternative, piuttosto che su quello del "garante dei diritti". E, comunque, il difensore civico delle carceri non sarebbe in conflitto con il Magistrato di Sorveglianza, perché avrebbe un ruolo diverso, più a stretto contatto con la realtà carceraria e anche di supporto al lavoro del Magistrato stesso.
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