Interviste di "Ristretti"

 

"Occorrerebbe un intervento legislativo più incisivo per incentivare l’assunzione delle persone in espiazione di pena in ambito esterno"

Un’intervista a Susanna Napolitano, Magistrato di Sorveglianza di Forlì

(Realizzata nel mese di gennaio 2004)

 

di Laura Caputo

Casa Circondariale di Forlì

 

Quando arriva lei, si percepisce un netto cambiamento nell’atmosfera della Casa Circondariale di Forlì: le voci si abbassano, i passi si fanno più affrettati, tutti cercano di darsi un aspetto più curato e la tensione dell’attesa si fa palpabile. Susanna Napolitano è il Magistrato di Sorveglianza che ha giurisdizione su questo carcere. Anche se durante gli incontri non comunica nessuna decisione e, in generale, si limita ad ascoltare per capire, questi momenti sono molto attesi e lungamente commentati.

Ci è sembrato di grande interesse conoscere meglio sia lei, sia i criteri che guidano la sua azione.

 

Chi è Susanna Napolitano?

Sono una persona che è entrata in magistratura nel 1983 e che, dopo una laurea in procedura civile e una prima funzione in materia civile, ha scoperto di essere in realtà interessata non a questioni privatistiche, ma a procedimenti di rilevanza generale e riguardanti vicende umane come quelli penali. Ho quindi lavorato cinque anni come giudice civile e poi penale in collegio.

 

Come è arrivata al Tribunale di Sorveglianza?

Sono arrivata al Tribunale di Sorveglianza nel settembre del 1989 come per una naturale continuazione e completamento del mio percorso professionale. Questa funzione ha dato un respiro diverso al mio intervento, non limitandolo alla sola applicazione della sanzione, ma aprendolo a prospettive di reinserimento sociale della persona condannata e al possibile superamento del carattere esclusivamente punitivo e custodialistico della pena.

 

Le è mai accaduto di ritrovare, in questa veste, un soggetto che aveva condannato o indagato?

Non ho mai incontrato persone che avevo condannato in precedenza, forse anche perché sono stata giudice penale in un’altra regione.

 

Le è mai accaduto di aver preso decisioni di cui poi si è pentita? E in che modo questo ha influenzato il suo comportamento successivo?

Cerco il più possibile di sviscerare i dubbi prima della decisione per non pentirmene dopo. L’alea umana è sempre legata al singolo individuo e io tendo a non generalizzare, anche se l’esperienza degli innumerevoli casi seguiti in questi anni mi ha dato delle linee guida.

 

Se la discriminante per l’ammissione alle misure alternative è la certezza che il soggetto non delinquerà più, da che cosa la ricava? Bastano l’osservazione dell’équipe del carcere e la condotta inframuraria?

Per ammettere un soggetto alla misura alternativa non occorre la certezza, ma la probabilità della non recidiva e dell’utilità del percorso risocializzativo definito. Il giudizio prognostico si fonda su numerosi elementi – valutati congiuntamente – quali per esempio la natura del reato di cui alla condanna in espiazione e dei delitti in precedenza eventualmente commessi, l’osservazione socio-personologica dell’equipe penitenziaria (integrata dalle note dello psicologo e dell’assistente sociale sul contesto familiare-abitativo esterno) e l’informativa di Polizia. La regolarità della condotta intramuraria è solo un requisito minimo necessario, ma non sufficiente.

 

Non le sembra che la relazione delle Forze dell’Ordine, riferendosi al periodo in cui il reato è stato commesso, non può che essere negativa?

Non sempre le informative di Polizia sono negative, a volte danno atto di condotte recenti immuni da rilievi o forniscono elementi specifici di valutazione. Rilevano poco se contengono frasi generiche o l’elenco dei precedenti penali.

 

È d’accordo con l’affermazione che c’è un momento in cui il carcere finisce di essere rieducativo e diventa vessatorio, e che dev’essere allora che il detenuto deve essere rimesso in libertà con il massimo profitto per sé e per la società?

Il carcere non è sicuramente il luogo più adatto, se è accertato che la personalità del condannato si è evoluta in senso positivo e se sussistono all’esterno condizioni favorevoli per un percorso alternativo proficuo.

 

L’accesso al lavoro – interno e poi esterno – dovrebbe concorrere a preparare il detenuto a questo momento: che cosa si fa realmente in questo senso?

L’ammissione al lavoro esterno ex art. 21 O.P. – che presuppone una effettiva attivazione delle risorse del territorio – potrebbe essere uno strumento utilizzato più ampiamente, seguendo il modello di alcune realtà penitenziarie che hanno già sperimentato in forma più incisiva l’attuazione di tale beneficio. In generale occorrerebbe un intervento legislativo più incisivo per incentivare l’assunzione delle persone in espiazione di pena in ambito esterno.

 

La pena dovrebbe avere anche una connotazione di risarcimento del danno sociale: ritiene che esso possa/debba realizzarsi attraverso il volontariato? Se sì, come si realizza?

Penso che il volontariato da parte del condannato possa sicuramente contribuire a rafforzare la positiva attuazione del progetto alternativo, ma è opportuno valutare caso per caso per evitare strumentalità e calibrare l’intervento a seconda della personalità del reo e delle possibilità di impegno esistenti (da concordare con l’équipe e da reperire mediante operatori esterni quali l’assistente sociale comunale, l’assistente del CSSA, enti morali etc.).

 

Per concludere, quali sono gli elementi che concorrono ad evitare la recidiva?

Per evitare la recidiva credo che, in primo luogo, occorra un cambiamento radicale, una scelta netta diversa che sia la risultante di una intervenuta presa di coscienza profonda rispetto ai vissuti sottostanti la commissione dei reati. Oltre a ciò è necessario che sia favorito il miglioramento della condizione socio-ambientale di inserimento, onde evitare qualsiasi tipo di esclusione sociale.

 

 

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