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Che ne sarà dei C.S.S.A.? A trent’anni dalla riforma penitenziaria, con la nuova legge si pone l’accento solo sull’esecuzione della pena (e quindi sul controllo) e si considera la presa in carico dal punto di vista sociale solo un utile “accessorio” assistenziale. Ne abbiamo parlato con Anna Muschitiello, segretaria del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia
(Realizzata nel mese di agosto 2005)
a cura di Marino Occhipinti
Quando abbiamo chiesto ad Anna Muschitiello, segretaria del Coordinamento Assistenti Sociali Giustizia, di parlarci dei CSSA, anche alla luce della legge “Meduri”, del ruolo degli assistenti sociali che lavorano nel campo dell’esecuzione penale interna ed esterna, della recidiva, lei ha accettato subito, perché “non se ne parla mai abbastanza, nonostante questi servizi esistano ormai da 30 anni”.
La legge Meduri e l’accentuazione delle funzioni di controllo del servizio sociale sul territorio rispetto a quelle di aiuto
Proprio quest’anno ricorre il trentennale della riforma penitenziaria: la legge n. 354 del 26 luglio del 1975, che istituisce i CSSA e introduce le misure alternative alla detenzione nel sistema delle esecuzione delle pene in Italia. Nonostante in 30 anni il sistema dell’esecuzione penale esterna sia cresciuto tanto da raggiungere dal punto di vista quantitativo quasi gli stessi numeri del sistema delle carceri (50.000 contro 60.000) le misure alternative sono ancora poco conosciute e ritenute meno importanti di quella che viene considerata ancora l’unica e vera pena: la detenzione. A distanza di 30 anni fare un bilancio e avviare una riflessione su cosa ha rappresentato la riforma Penitenziaria del 1975 e su come ha funzionato il sistema delle misure alternative e il servizio CSSA, è una scelta quasi obbligata. Occorre ricordare che gli anni in cui ha visto la luce la riforma dell’Ordinamento penitenziario erano anni di profonda trasformazione della società italiana, caratterizzati da riforme innovative in molti campi della società e soprattutto del mondo assistenziale; più generalmente nel modo stesso di concepire i rapporti tra cittadino e Stato. Per questo motivo la Riforma Penitenziaria ha avuto una carica ideale molto forte, con un valore trainante e anticipatorio nei riguardi della realtà non solo penitenziaria, ma sociale nel suo complesso. La stessa scelta da parte del legislatore di introdurre l’assistente sociale accanto ad altre figure trattamentali (psicologi e educatori) ha un valore di rottura con la tradizione dell’Istituzione carcere come si era delineata fino a quel momento. Ma aver previsto, “… un ruolo di servizio sociale, inserito in sedi autonome dagli istituti penitenziari”, diffuse su tutto il territorio nazionale, ha un significato particolare. Il legislatore ha voluto evidentemente sottolineare il carattere alternativo che tali strutture dovevano rappresentare, in rapporto al carcere, sia sul piano culturale sia operativo: A - sul piano culturale, stabilendo che la loro organizzazione dovesse avere come riferimento l’integrazione con il territorio e il radicamento con le stesse realtà locali, che il servizio era chiamato ad interpretare. Scelta confermata e rafforzata anche con il nuovo regolamento di esecuzione approvato nel 2000 (legge 230/2000). B - sul piano operativo, favorendo lo sviluppo di logiche gestionali diverse da quelle comuni alle istituzioni totali. Il tratto dominante in tal senso è costituito dall’aver concepito questo servizio come struttura propria di servizio sociale, caratterizzata dalla tipicità dell’approccio di servizio sociale nel progetto di un’esecuzione penale alternativa al carcere, che punti alla massima valorizzazione delle componenti di responsabilizzazione dell’utente e delle sue capacità di autodeterminazione. Dovrebbe quindi risultare ben chiaro che il trattamento esterno in alternativa al trattamento intramurario non si distingue per il fatto che gli operatori si muovano in un “carcere senza sbarre”, continuando a mutuare dalla cultura e dal sistema operativo del carcere “… ma si distingue per il deciso cambio di approccio culturale e operativo…”. È proprio questo il motivo per cui ci siamo opposti, noi assistenti sociali, ma anche molti esponenti della società civile e del volontariato che è impegnato in carcere, all’articolo 3 della cosiddetta legge “Meduri”, recentemente approvata in via definitiva al Senato. È il cambiamento di cultura che sottende a questa nuova normativa che apparentemente non modifica niente, in realtà pone l’accento solo sull’esecuzione della pena (quindi sul controllo) e considera la presa in carico dal punto di vista sociale un utile accessorio “assistenziale” (il titolo del capo terzo del titolo II della legge 354/75 diventa: Esecuzione penale esterna e assistenza”). Nell’anno quindi del trentennale della riforma, assistiamo a questo cambiamento di rotta della legislazione penitenziaria, che nel corso di questi 30 anni ha visto molti cambiamenti legislativi, ma mai era stata messa in discussione la cultura stessa della riforma, e gli operatori, nonostante gli sforzi per adattare periodicamente il proprio intervento ad indirizzi politici contraddittori e a mandati contrapposti, erano riusciti a mantenere intatta la propria identità professionale, ora non si sa.
Con l’approvazione della “legge Meduri” nessuno sa come si evolverà la situazione nel concreto
Non pensiamo certamente che gli assistenti sociali saranno sostituiti dal personale di polizia o amministrativo, ma è possibile che al servizio sociale si aggiunga il personale di polizia, e in questo caso è al servizio CSSA che si modifica il mandato istituzionale, accentuando le sue funzioni di controllo rispetto a quelle di aiuto, in una parola estendendo la logica carceraria all’esterno e diffondendola sul territorio. Non so se riesco a far comprendere la differenza, ritengo che con l’estensione del controllo diffuso è la libertà di chi sta fuori e del cittadino in generale che viene ad essere compromessa. Oggi i soggetti in misura alternativa, (tranne una piccola percentuale che contravviene agli obblighi o commette nuovi reati) sono circa 50.000 che vivono e lavorano quotidianamente accanto agli altri cittadini, che spesso non lo sanno e non se ne accorgono neanche, quindi sono ben integrati nel contesto sociale, e con un controllo soft sostanzialmente diverso da quello poliziesco riescono a scontare la loro “pena” senza grossi danni per sé e per gli altri e con un non trascurabile risparmio di risorse pubbliche (non dimentichiamo che un detenuto in carcere costa circa 150 euro al giorno); se i controlli nei confronti di queste persone si fanno più evidenti, più invadenti, più stigmatizzanti, quale aiuto possono averne? Quale il vantaggio per la società? È importante comunque informare che i controlli nei confronti di queste persone già oggi avvengono da parte delle forze dell’ordine territoriali nell’ambito del loro mandato di sicurezza e di prevenzione dei reati, per quale motivo bisogna moltiplicare tali controlli? Oggi non c’è nessuno che apertamente mette in discussione il sistema delle misure alternative in quanto tali, perché tutti sanno che sono utili a ridurre almeno in parte il sovraffollamento carcerario che raggiungerebbe, in caso contrario, livelli davvero ingestibili. Ci troveremmo a fare i conti con una popolazione carceraria al di sopra dei 100-150.000 detenuti, con strutture che a malapena ne contengono 40-45.000. Al di là delle affermazioni di principio però è attualmente in discussione in parlamento la proposta di legge “ex Cirielli”, che modificando le norme sulla recidiva rischia di azzerare il sistema delle misure alternative e di far viaggiare il sistema carcerario verso le cifre a cui sopra accennavo.
Ora provo a spiegare quali sono i compiti dell’assistente sociale che lavora nell’ambito del sistema delle pene
L’assistente sociale che lavora nel settore per adulti è stata introdotta nel nostro ordinamento con la legge 354/75, attraverso l’istituzione dei CSSA (centri di servizio sociale per adulti). Interviene solo nella fase successiva al processo, quando la condanna diventa definitiva, in tal caso può occuparsi sia di persone detenute, sia di persone che scontano la pena fuori dal carcere in misura alternativa alla detenzione (semilibertà, affidamento al servizio sociale, detenzione domiciliare, libertà vigilata…). In collaborazione con l’èquipe interna al carcere approfondisce la personalità della persona detenuta, effettua indagini socio familiari e lavorative per conoscere il contesto territoriale e personale da cui la persona proviene e dove probabilmente rientrerà dopo aver scontato la pena. L’assistente sociale controlla e aiuta la persona che esce dal carcere o è in misura alternativa a reinserirsi nella società. Lo fa attraverso colloqui, visite domiciliari, lavoro di rete con i servizi del territorio dove il soggetto e la sua famiglia risiedono con l’obiettivo di riallacciare relazioni, creare occasioni e opportunità di inserimento lavorativo, sociale, di terapia nel caso di persone con problemi di tossicodipendenza, alcoolismo, problematiche psichiche… L’assistente sociale lavora a stretto contatto con la magistratura di Sorveglianza per fornire elementi utili affinché il giudice possa decidere se mandare una persona detenuta in permesso premio, se avviarla ad una misura alternativa, se farla rimanere in carcere perché non dà garanzie di un comportamento corretto e sicuro per i cittadini. Attualmente nei CSSA, a fronte di 1630 assistenti sociali previsti, ne lavorano 1223. Gli ultimi assistenti sociali sono stati assunti nel 2001, e contrariamente agli altri servizi sociali del territorio in forte crisi, quelli della giustizia appaiono oggi gli unici in espansione, anche se sono comunque sottodimensionati rispetto ai compiti assegnatigli. Ritengo che l’espansione di un servizio sociale come quello della giustizia sia strettamente collegato al ruolo che la nostra società sta dando al sistema penale. Noi assistiamo infatti all’estensione delle sanzioni penali ad un numero sempre più vasto di comportamenti e di fenomeni che riguardano fasce sempre più ampie di popolazione (immigrati, tossicodipendenti, malati psichici…) e contemporaneamente abbiamo una maggiore contrazione di interventi di tipo sociale rivolti alle fasce più deboli, una riduzione di fatto degl’investimenti di welfare con conseguente accrescimento di fasce di povertà e di devianza, che portano come ultima sequenza alla commissione di un reato perseguito penalmente.
La giustizia riparativa merita un discorso a parte
Negli ultimi anni si è andata diffondendo una nuova sensibilità nei confronti della vittima del reato, in realtà sempre trascurata sia nella fase processuale sia, ancora di più, nella fase dell’esecuzione della pena. L’esigenza della vittima, pur legittima, ritengo che però, in assenza di una vera e propria politica di presa in carico della stessa, sin dal momento della commissione del reato, si rischia con l’ottica riparativa di non risolverla, ma neanche di affrontare minimamente le sofferenze e il disagio reale da essa vissute, e contemporaneamente tutto questo finisce per pesare come una pena aggiuntiva e, in alcuni casi, veramente vessatoria, sul reo. In Italia sembra che oggi sia di moda parlare di “giustizia riparativa” che, in quanto tale, attrae sia i magistrati di sorveglianza sia gli operatori penitenziari. Ciò è provato dalle sempre più frequenti ordinanze dei Tribunali di Sorveglianza, che fanno riferimento al risarcimento del danno, per lo più considerato esclusivamente dal punto di vista economico, o ai lavori socialmente utili, e dai numerosi progetti, ricerche e riflessioni che su questo tema, sia a livello centrale sia in numerosi CSSA, impegnano gli operatori. Sono in ogni modo consapevole che la questione esiste e che i modelli tradizionali non risolvono il problema della vittima, la quale vive comunque un sentimento di profonda ingiustizia, anche perché la pena e il carcere, pur avendo giustificazioni etiche, sotto il profilo della utilità sociale e della tutela della vittima si dimostrano del tutto inadeguate. Dunque, anch’io ritengo possibile fare riferimento a nuovi aspetti della pena, alternativi o concorrenti, che attraverso interventi di riparazione, conciliazione o anche mediazione integrino le altre forme di esecuzione della pena; una risposta riparatoria, secondo me, non può comunque prescindere dalle altre due (retributiva e riabilitativa), ma le integra all’interno della medesima logica sanzione/premio. Le attività di riparazione nell’ambito dell’esecuzione della pena, per esempio nell’affidamento al servizio sociale, attraverso il comma 7 dell’articolo 47 dell’Ordinamento penitenziario, ritengo possano avere un senso solo se inserite in un progetto individuale di reinserimento educativo, rivolto essenzialmente al reo, con l’obiettivo di aumentare la sua consapevolezza e una responsabilizzazione più reale e concreta. La tendenza, invece, a prevedere solo un risarcimento economico della vittima, tra l’altro a distanza di anni dai fatti accaduti ed indipendentemente dall’attivazione di un contenzioso in ambito di diritto civile (che fornirebbe al reo anche garanzie di equità), appare un modo cinico e per niente rispettoso dei diritti e soprattutto delle sensibilità della vittima, della quale ci si ricorda tardivamente e in modo del tutto strumentale alla chiusura della vicenda penale da parte del reo. Occorrerebbe veramente che, a partire dalle problematiche delle vittime, un po’ tutti c’interrogassimo sull’attuale orientamento del sistema penale, sulla sua finalità e sui danni umani che può provocare sia alle vittime sia agli autori dei reati.
Dire in poche righe come si può abbattere la recidiva è un compito veramente impegnativo
Premetto che non mi risulta oggi in Italia uno studio serio e articolato che spieghi il fenomeno della recidiva e quindi l’utilità o meno della pena e la differenza tra le varie modalità di esecuzione. Esiste una ricerca recente del Gruppo Abele che quantifica i casi di recidiva a seconda delle modalità di esecuzione della pena e da tale studio emerge che il 12 per cento di recidivi è costituito da persone passate attraverso le misure alternative, il 61 per cento da chi non ha mai lasciato il carcere fino alla fine della pena e il 27 per cento sono tossicodipendenti. Anche se non so esprimermi sull’attendibilità di tale studio, non stento a credere alla sua veridicità in quanto è risaputo che la popolazione detenuta è oggi costituita prevalentemente dai soggetti più problematici e privi di risorse utili al reinserimento sociale, pertanto il carcere da solo senza l’offerta di opportunità trattamentali e di reinserimento non aiuta assolutamente a far modificare lo stile di vita che la persona detenuta aveva prima di entrare in carcere, piuttosto lo modifica in peggio in quanto gli fornisce nuove occasioni di relazioni sbagliate, distrugge quanto di buono la persona aveva fuori (famiglia, lavoro, relazioni affettive e amicali…) quindi non c’è niente di più vero del luogo comune “il carcere scuola di delinquenza”. Il carcere può assolvere alla sua funzione “rieducativa” solo nel momento in cui è in grado di offrire opportunità nuove utili a modificare gli stili di vita precedenti e a non ricadere, una volta fuori, negli stessi circuiti da cui si proviene. Secondo me il momento dell’uscita dal carcere è un momento fondamentale e delicato che va accompagnato, sostenuto da risorse concrete e opportunità reali, e infatti l’uscita graduale in misura alternativa può aiutare a ritrovare il giusto riequilibrio. A me risulta in particolare (ad esempio, ma sicuramente ne esisteranno altri in altre parti d’Italia) che il Comune di Milano sta finanziando un progetto “Punto e a capo” che consente l’accompagnamento all’uscita dal carcere di coloro che finiscono la pena senza una misura alternativa e si ritrovano da soli ad affrontare un momento così delicato e normalmente trascurato dagli operatori penitenziari, presi da altre emergenze. I risultati di tale progetto sul fenomeno recidiva è ancora tutto da valutare, intanto rappresenta un punto di partenza, soprattutto perché una città riconosce la necessità di farsi carico dei suoi cittadini più deboli proprio nel momento in cui ritornano in libertà, quindi nel territorio da dove provengono. La tossicodipendenza come motivo importante nella recidiva è altrettanto credibile, quindi i programmi terapeutici residenziali o territoriali possono essere una valida opportunità, anche se non sempre raggiungono lo scopo. Infine non possiamo non rilevare che al di là di tutte le opportunità offerte la volontà della persona è un elemento essenziale per ridurre la recidiva.
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