Intervista a Desi Bruno

 

L’obiettivo oggi è la separazione assoluta tra carcere e società

C’è un attacco strisciante, ma ormai anche dichiarato, alla Gozzini

Ruolo dell’informazione, nuovo piano-carceri, sovraffollamento, benefici penitenziari e altro ancora: il punto di vista di Desi Bruno, avvocato, Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, da poco eletta all’unanimità coordinatrice nazionale dei Garanti territoriali

 

(Realizzata nel mese di novembre 2009)

 

intervista di Marino Occhipinti

 

Desi Bruno, da quando nel 2005 è stata eletta Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, ha messo le sue competenze di avvocato al servizio di una causa complessa e senz’altro impopolare come è quella della tutela dei detenuti e dei loro diritti, che ultimamente, in tempi di sovraffollamento, sono ancora meno rispettati del solito. Di recente poi Desi Bruno è diventata Coordinatrice Nazionale dei Garanti territoriali. Con lei abbiamo parlato di questa catastrofe delle carceri italiane che pare ormai inarrestabile.

 

Partiamo dall’allarme sicurezza, che sta rovesciando sulle carceri un numero enorme di autori di reati “di allarme sociale”. È davvero così drammatico come lo descrivono i media e come viene percepito dai cittadini?

Sicuramente i media fanno la loro parte nel trasmettere l’esistenza di una forte situazione di pericolo concreto e quotidiano. Ed è chiaro che poi su questo la percezione dell’opinione pubblica non può che essere in qualche modo deviata dalle informazioni che vengono trasmesse e da come vengono trasmesse. I dati però sembrerebbero andare in senso contrario, perché in realtà non c’è questo aumento della criminalità che viene rappresentato. Addirittura ci sono aree del Paese in cui ci sono dati confortanti di reati – penso ai reati contro il patrimonio – in diminuzione.

 

Anche i reati a sfondo sessuale risultano in calo, eppure…

Esatto, anche la stessa vicenda dei reati in materia sessuale che ha provocato l’ultimo intervento normativo in senso restrittivo in realtà è più legata non tanto a un aumento percentuale di questo tipo di reati, ma al fatto che c’è un’esasperazione rispetto ad alcune vicende drammatiche che vengono riportate e reiterate e che chiaramente creano allarme sociale. Poi c’è un problema collettivo di insicurezza provocata da altri fattori: la difficoltà di integrazione con il fenomeno dell’immigrazione mal governato, le difficoltà legate alla mancanza di lavoro, di una rete sociale, di opportunità. Ci sono una serie di fattori che rendono più insicura la vita di tutti noi, non però necessariamente legati a questo discorso della criminalità. Tra l’altro rappresentarlo in questo modo e alimentare la preoccupazione non è un’operazione culturalmente corretta e non aiuta nessuno.

 

Quindi secondo lei c’è una responsabilità degli organi di informazione su come viene poi percepita l’insicurezza?

C’è sicuramente. Capisco anche che quando poi i media trasmettono alcune notizie dandogli più spazio rispetto ad altre, c’è un po’ di compiacenza rispetto a quelle che sono le politiche del momento e un po’ il fare delle scelte che siano appetibili da un punto di vista commerciale. Sta di fatto che è un’informazione che va a senso unico, che non aiuta. Dovremmo tutti interrogarci se questa è davvero un’informazione libera, un’informazione che aiuta le persone a comprendere i fenomeni e a crescere, perché questo dovrebbe essere il compito dell’informazione in un Paese democratico.

 

Ma perché succede questo? C’è una volontà precisa o si “corre” solo dietro alla notizia più eclatante?

Probabilmente non c’è neppure una volontà particolare dietro questi comportamenti, ma semplicemente ci si adagia su un costume, su un modo di proporre, per cui nessuno si sente di andare controcorrente. Tutte le vicende che ci vengono rappresentate con toni di grande enfasi, poi non vengono seguite nel loro iter. Casi magari che portano risultati del tutto diversi da quelli iniziali, risultati che non vengono enfatizzati quanto l’impianto di accuse iniziale. Si parla solo di reati di violenza personale perché son quelli su cui ultimamente la stampa ha “lavorato” di più, ignorando però tutto il tema delle violenze, anche sessuali, in famiglia, che si tengono così sempre molto nascoste. È chiaro quindi che poi si alimenta l’idea che la maggior parte delle violenze sessuali vengono commesse da stranieri, che gli stranieri siano solo portatori di criminalità e tutti questi luoghi comuni. Non è che i problemi non ci sono, però bisogna affrontarli con maggior rigore.

 

Qual è il suo parere sul recente “pacchetto sicurezza”, ma anche sulle continue norme che prevedono pene ancora più severe per alcune fattispecie di reato?

È una risposta a questa cosiddetta crescente richiesta di sicurezza da parte della collettività. Il carcere risolve tutto: questa è la tesi ed è anche l’unica risposta che i nostri governanti sono in grado di dare. Legato al tema dell’insicurezza c’è il carcere: nuove figure di reato, riduzione dei benefici – c’è un attacco strisciante ma ormai anche dichiarato alla legge Gozzini. L’Ordinamento penitenziario è avvertito come un orpello, come un ostacolo alla possibilità di assicurare davvero sicurezza ai cittadini e quindi c’è questa normazione a pioggia, che porta sempre più carcerizzazione. Credo e spero che l’opinione pubblica ad un certo punto si renda conto che questa è una strada senza via di uscita, che non aumenta la sicurezza, aumenta solo la sofferenza delle persone che stanno dentro, le incattivisce e questo vuol dire, in termini molto opportunistici, che la riduzione della recidiva con questo sistema non c’è.

 

Ma c’è un obiettivo preciso? Dove si vuole arrivare?

Questo disegno è apparentemente sconclusionato, ma solo apparentemente. Via via si aggiunge un tassello a un’idea di carcere in cui la rieducazione non ci sarà più, perché questo mi sembra l’obiettivo: la separazione assoluta tra carcere e società, a cui noi stiamo disperatamente tentando di opporci con tutta la fatica del momento.

 

Si cerca anche di limitare la discrezionalità dei magistrati di Sorveglianza…

Per ciò che riguarda la limitazione della discrezionalità dei magistrati nel momento in cui vengono introdotte leggi – come è accaduto per il decreto, poi diventato legge, sullo stupro – in cui si dice che per certi tipi di reato non si prevede più la possibilità di misure alternative se non, per esempio, dopo l’osservazione scientifica della personalità per almeno un anno, è evidente che i magistrati hanno da questo punto di vista le mani legate. L’osservazione scientifica della personalità non si farà perché gli educatori, psicologi ed esperti non ci sono e questo vuol dire carcere e basta. Devo dire però che anche la magistratura di Sorveglianza forse non fa fino in fondo la parte che le spetta rispetto alle possibilità, ma sono ipotesi che diventano quasi residuali oggi, di applicazione delle misure alternative – penso soprattutto alle pene brevissime. Dovrebbe intervenire anche con lo scopo deflattivo. Non è possibile che in un carcere come quello di oggi restino o vadano in prigione persone che hanno pochi mesi da fare, che magari hanno qualche relazione con l’esterno. Vanno valorizzate tutte queste possibilità e la magistratura di Sorveglianza non deve fare un passo indietro, deve fare un passo avanti.

 

Cosa bisognerebbe rispondere a chi osteggia la legge Gozzini e le misure alternative alla detenzione, che tutti i dati indicano invece come il miglior antidoto alla recidiva, ben più alta in coloro che scontano tutta la pena in carcere?

Questo dato fa fatica a passare perché sembra che sia un dato di parte e invece è un dato ufficiale del Ministero e assolutamente oggettivo. Su questo si deve fare una grande battaglia per convincere, non solo l’opinione pubblica, ma anche tutti coloro che lavorano sul carcere – penso alle risorse dedicate dagli enti locali – per continuare su questa strada. Se questo messaggio, questa verità, questo dato oggettivo, lo perdiamo, può crearsi anche una situazione per cui tutti gli enti che in qualche modo collaborano a far sì che il carcere non sia separato dalla società, potrebbero fare un passo indietro in momenti molto difficili come sono questi, quando il tema delle risorse incide sulla vita all’interno del carcere. È una battaglia di verità. Molto spesso anche quelli che conoscono questa verità, di fronte alle scelte politiche di tipo nazionale, o comunque le scelte politiche in senso proprio, di schieramento, fanno finta di nulla.

 

Ci fa un esempio?

Certo. Quando il ministro Alfano propose la messa alla prova per gli adulti, l’istituto che funziona benissimo per i minorenni, era un modo per intervenire con intelligenza, deflazionando il carcere, per persone che non possono beneficiare della sospensione condizionale ma comunque che sono al primo reato. La proposta cadde subito perché lo schieramento politico a cui il ministro appartiene non l’ha voluto. Di solito le proposte intelligenti… si perdono! C’è una situazione di poca razionalità, alla continua ricerca del consenso che evidentemente funziona, visti i risultati elettorali.

 

Il sovraffollamento, che sta raggiungendo livelli insostenibili, consente ancora alla pena di essere veramente rieducativa, come prevede la nostra Costituzione?

Poco. Poco perché bisogna ragionare sul fatto che, per esempio a Bologna, in Emilia-Romagna, ma anche in altre aree del Paese, due terzi dei detenuti sono persone in custodia cautelare, quindi in attesa del processo. C’è un grosso tema da affrontare sull’uso della custodia cautelare e sul fatto che si faccia questo continuo ricorso alle misure cautelari. Rispetto ai definitivi c’è tutto il problema delle persone straniere, per le quali il tema della rieducazione si pone in termini diversi. E poi è chiaro che il sovraffollamento incide sulla finalità rieducativa, perché si riducono sempre più le risorse, sia materiali sia personali – per fare il trattamento ci vogliono degli organici che come è noto non ci sono – e il sovraffollamento acuisce e radicalizza la carenza di risorse. Quindi è chiaro che diventa una pena meramente contenitiva di carattere retributivo, se non a volte inutilmente punitivo.

 

E il piano-carceri predisposto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria?

Ne penso malissimo come quasi tutte le persone dotate di un minimo di conoscenza del problema. È proprio una non-risposta perché non riuscirà a far fronte al trend di crescita delle persone detenute. Quando le carceri saranno pronte saranno insufficienti se l’aumento dei detenuti viaggia alle percentuali di ora. Poi non si sa con quali risorse di personale si potrà affrontare l’apertura di nuove carceri. Non si riesce ad aprire il carcere di Rieti che è pronto da molto tempo, perché manca il personale. È un carcere nuovissimo quindi non si capisce come si possa pensare di andare a costruire altre carceri. Poi ce ne sono di talmente fatiscenti, rispetto alle quali non è possibile fare un’opera di manutenzione, e vanno ristrutturate. Penso al carcere di Forlì. Però complessivamente quella dell’edilizia rimane una non-risposta che impiegherà risorse importanti, compresa purtroppo la risorsa della Cassa Ammende (il regolamento è stato modificato per poter far fronte a questo nuovo piano di edilizia penitenziaria) ma non si farà nient’altro di quello che si dovrebbe fare: riforme legislative importanti, che sembravano a un passo dalla realizzazione – penso alla caduta del governo Prodi e alla riforma del Codice penale e la legge sull’immigrazione che erano due leggi importanti – e soprattutto non va in nessun modo a incidere su quella richiesta di aumento degli organici (educatori, psicologi, psichiatri, agenti) necessari perché un carcere abbia un minimo di dignità per andare avanti. È una china pericolosa. Per non parlare poi della progettazione di navi galleggianti e quant’altro.

 

Non c’è il sospetto che si voglia arrivare a una privatizzazione delle strutture penitenziarie?

Sicuramente sì. Nel piano carceri si parla di questa possibilità, ed era già stata prospettata dall’allora ministro Castelli. Anche perché la Cassa Ammende non sarebbe assolutamente sufficiente a coprire tutte le spese delle nuove costruzioni e quindi si parla di una partecipazione di privati nella costruzione e gestione. Si prospetta la partecipazione di privati anche per affrontare un po’ il tema della crisi economica: rimettere in corsa una serie di imprese, far vedere che c’è un’attività produttiva in essere. Comunque l’idea di affidare a privati la costruzione è allucinante, e poi attenzione perché il passaggio al dar loro anche la gestione è veramente breve oltre che inquietante. La gestione a privati non è un fatto neutro, è un fatto pericolosissimo al quale bisogna opporsi con tutte le proprie forze. Questo sarebbe la morte della finalità rieducativa e si rischia di avere qualcosa che assomiglia a dei veri e propri campi di concentramento.

 

E qual è la situazione nelle carceri di sua competenza?

È molto pesante. Io mi occupo delle carceri di Bologna, quello degli adulti, quello dei minori e il CIE, il Centro di identificazione e di espulsione. A Bologna siamo arrivati a 1200 persone su una capienza regolamentare di 480. Questo dà la dimensione della situazione. Ci sono state molte proteste in questo periodo, proteste molto civili, molto ragionate, con la volontà di confronto con l’amministrazione. È stata una prova di grandissima tenuta da parte delle persone detenute che chiedono delle cose assolutamente ragionevoli. I problemi ci sono pure al minorile: mancanza di risorse, sovraffollamento, anche se si sta trasferendo in una nuova struttura e questo in parte allevia i problemi che ci sono. Ma le cose vanno migliorate soprattutto sotto il profilo dell’assistenza sanitaria. Alla Dozza si vive una condizione di grandissima difficoltà ma comunque continua lo sforzo per mantenere alto il livello delle opportunità, dell’attività trattamentale, delle iniziative. Bisogna “tenere” altrimenti si torna indietro. Questo è un momento cruciale nella storia del sistema penitenziario. Basta niente perché si perda tutto quello che si è costruito in questi decenni. Alessandro Margara ha parlato a un convegno a La Spezia nel mese di maggio di “carcere della resistenza”. Tutte le persone che pensano ci sia una speranza per i detenuti, che sia un valore in sé il rispetto della dignità delle persone, oggi devono resistere.

 

In conclusione cosa bisognerebbe fare, quali rimedi suggerisce?

I rimedi sono di ordine legislativo. Bisogna fare la riforma del Codice penale. Bisogna che il carcere sia utilizzato come misura estrema, di fronte a fatti gravi. Bisogna pensare a pene-altre: pene interdittive, lavori socialmente utili, l’affidamento in prova... Insomma prevedere tutta una gamma di pene alternative che era prevista nella riforma del Codice penale, nel progetto Pisapia. Bisogna mettere mano alla legge sull’immigrazione che è l’altro nodo che incide pesantemente sulle presenze in carcere e infine alla legge sulle tossicodipendenze. Questi sono i tre nodi fondamentali. E solo da lì si può ripartire con un carcere con meno presenze su cui si possono fare degli investimenti di tipo rieducativo, risocializzante e responsabilizzante. Ma adesso non c’è la volontà politica. È più semplice sparare soluzioni semplificate perché paga di più a livello elettorale.

Bisogna aver la forza di non andare dietro a questa necessità di consenso elettorale e costruire un altro percorso. Così non si va da nessuna parte e potrebbero arrivare stagioni molto difficili non solo per chi è dentro, ma anche per chi è fuori. Fuori ci sono le famiglie, c’è una parte della società attenta e sensibile. La mia preoccupazione è che arrivi questa frattura che potrebbe essere insanabile per molto tempo. Bisogna “tenere” e lavorare controcorrente per costruire un progetto. In Italia manca un progetto sul carcere che significa un progetto di modifiche legislative, collegato a progetti di reinserimento vero. Però bisogna ragionare con altri numeri e i numeri si abbattono solo se il carcere ha un altro utilizzo, non come mero contenitore sociale.

Il momento è molto difficile, ma credo che ci sia un patrimonio di conoscenze, di risultati, di buone pratiche, di buone prassi e di percorsi positivi che sono stati costruiti. Bisogna lavorare per difendere tutto quello che è stato fatto, ma anche per costruire nell’opinione pubblica un diverso modo di sentire il tema della sicurezza. Lo spazio c’è. Siamo in un momento di grande difficoltà, ma dobbiamo anche convincere i nostri politici a rischiare di essere impopolari ma a dire, sul carcere e sulla sicurezza, cose più aderenti al vero.

 

 

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