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Limitarsi a punire è inutile e dannoso
Don Andrea Gallo parla della sua avversione per il disegno di legge Fini sulle droghe, e della idea di fondo che “chi si droga non è un pazzo, un malato, un deviato, un debole o un pigro irresponsabile. È, prima di tutto, una persona” (Realizzata nel febbraio 2005) Intervista di Stefano Bentivogli
Quando si parla di tossicodipendenze e di comunità terapeutiche, si fa riferimento sempre a quelle strutture, come San Patrignano e la comunità Incontro di Don Gelmini, che per i loro legami con la politica sono sempre al centro dell’attenzione. Le comunità terapeutiche sono realtà ben più vive e variegate, e non sono appiattite sulle linee di lotta alle tossicodipendenze promosse da questo governo con il disegno di legge Fini. Nel loro differenziarsi concorrono vari elementi che vanno dal rapporto con i servizi socio sanitari ed il privato sociale, alle modalità terapeutiche che spaziano dalla tolleranza zero all’antiproibizionismo. La comunità San Benedetto al Porto, fondata da don Andrea Gallo, rappresenta un esempio di come l’atteggiamento nei confronti di chi usa sostanze stupefacenti non sia così scontato e semplice come spesso ci viene presentato. Quella di don Gallo è un’esperienza che è partita 34 anni fa e che è cresciuta scegliendo il confronto quotidiano con la realtà del territorio dove opera. Il dogma della clausura, per proteggere il tossicodipendente dai suoi problemi, viene smontato dalla pratica quotidiana di incontro, scambio e confronto con il sociale. Non ci sono salvatori e salvati, miracolanti e miracolati, ma un cammino di persone, che hanno in comune la convinzione di poter affrontare insieme un problema non semplice attraverso la crescita personale e l’impegno sociale senza barriere. Abbiamo rivolto alcune domande a don Andrea Gallo proprio in merito al disegno di legge Fini.
La legge vigente sugli stupefacenti viene oggi considerata fallimentare da questo governo. Un nuovo disegno di legge sta procedendo a tappe forzate nel suo iter parlamentare e prevede la categorica punibilità per chi usa stupefacenti. Le comunità terapeutiche vi sono automaticamente coinvolte: come viene vissuto questo momento politico nella comunità di San Benedetto al Porto? La nostra comunità, per dirla con Fabrizio De Andrè, si muove sempre “… in direzione ostinata e contraria”. Questa è una proposta di legge, cinicamente superficiale, tanto da essere ritenuta da molti esperti impraticabile, che finirà per incrementare, ancora una volta, gli enormi proventi delle organizzazioni mafiose internazionali. Dopo 20 anni di proibizionismo, pur tenendo in considerazione le responsabilità personali, l’occidente ha compiuto una strage: 32 milioni di morti (da una statistica recente dell’ONU). Soffia un vento violento e rinasce l’arrogante ideologia della “tolleranza zero”. Il fascismo perenne è in libera uscita.
Fare uso di droghe diventerà reato. Si vuole quindi anche ridefinire il significato della parola tossicodipendente? Chi si droga non è un pazzo, un malato, un deviato, un debole o un pigro irresponsabile. È, prima di tutto, una persona. Legare il tossico al momento socioculturale è tentare di comprenderlo nella sua marginalità. Opporlo all’ambiente sociale è, al contrario, escluderlo in nome di una maggioranza parlamentare e, in quest’ottica, non sarà che un “deviante” da raddrizzare: “O ci sei o ti fai” – questo è il loro slogan.
Cosa cambia invece nell’approccio chiesto alle comunità dalla nuova proposta di legge? Cambia che sono attivate le prefetture, le questure, la magistratura, la galera e le comunità compiacenti, e questo si traduce in due tipi di discorso che, a dispetto delle apparenze, non sono contraddittori: quello che si riferisce alla genetica e quello che si riferisce al comportamentismo. I due approcci infatti, nonostante le divergenze iniziali, con l’accento uno sull’innato, l’altro sull’acquisito, manifestano una stessa volontà: manomettere scientificamente le scienze sociali. Questa logica giustifica la “clausura” dei “devianti”. Cosa si nasconde dietro a questa nuova legge se non il potere dominante politico e, più ancora, sociale? Vige la dicotomia: o inclusi, o esclusi e perseguitati.
E le comunità come reagiscono? Innanzitutto il disegno di legge è approdato alla commissione del Senato senza consultare il 90 per cento delle strutture pubbliche e private. Da oltre dieci anni le comunità hanno lanciato un cartello: “Educare e non punire”. No alla punibilità, sì alla solidarietà. Questa nuova legge tende sempre più a privatizzare il servizio pubblico e chiama a raccolta quelle comunità che erigono a loro metodologia il comportamentismo, morto in campo scientifico da oltre 50 anni. Questo comportamentismo porta un pericoloso messaggio: essere tossici vuol dire non essere “nella norma” e i terapeuti, i medici, gli operatori, lontani da una terapia calda e umana e di profonda psicologia ed autentica pedagogia, ritrovano lo spirito di crociata. Tutto il campo degli emarginati, devianti, disadattati è sotto la loro giurisdizione. Sanno benissimo che aumenterà il mondo del sommerso, della clandestinità, con tristi conseguenze. L’attuale posizione governativa viene in loro aiuto ed afferma: “È vero, bisogna assolutamente punire gli spacciatori ed in modo particolare tutti i consumatori”. Le sostanze della tabella degli stupefacenti sono equiparate: “Fanno male, punto e basta!”. Eroina, cocaina, derivati della cannabis, ecstasy… una vera demonizzazione di tutte queste sostanze. Sono previste numerose sanzioni amministrative – restrizioni, ritiro patente, ritiro passaporto… – e pene coercitive pesanti in carcere. L’alternativa? Comunità di recupero, che accettino “in toto” l’impianto della nuova legge e di conseguenza, dal carcere a piccoli carceri, camuffati da aggettivi pseudo terapeutici. Lo sforzo decennale compiuto da tanti operatori pubblici e da numerose comunità va in fumo. 1993: Conferenza nazionale sulle droghe a Palermo (si accetta la riduzione del danno). 1998: Conferenza nazionale sulle droghe a Napoli (un cammino sofferto ma costruttivo, l’articolazione dei servizi fino alla bassa soglia). 2000: Conferenza nazionale sulle droghe a Genova, col sigillo del prof. Umberto Veronesi, Ministro della sanità. Si lancia un messaggio: “Il proibizionismo non porta da nessuna parte”. Ora si vuol bruciare un patrimonio di ricerca e di ricche esperienze. Si torna indietro di 30 anni. Chi non si accorge che il fallimento delle politiche repressive è ormai un dato acquisito? Punire e basta non è solo un modo di educare sbagliato, ma è soprattutto inutile e dannoso. Il disegno di legge è talmente sconcertante da risultare in controtendenza europea. La strategia europea, da anni, è articolata su quattro pilastri: lotta al traffico (ancora molto carente), prevenzione, cura e riabilitazione, riduzione del danno. Sono convinto che lo sforzo compiuto da tutti coloro che con gli abusi, i consumi problematici e le dipendenze deve fare i conti, passando attraverso verifiche e confronti, anche laceranti, ma necessari, questa fatica seria, impegnativa, senza deliri di onnipotenza, potrà aiutare per costruire percorsi diversificati di maggior benessere. È indispensabile l’umiltà, la costanza e nessuno può pretendere di avere la ricetta definitiva. Si dovrà avere il coraggio di affermare che in questa società la droga non è un fenomeno eliminabile, è da gestire nel migliore dei modi e sempre a dimensione umana. “Nessuno si libera da solo. Nessuno libera un altro. Ci si libera tutti insieme” (P. Freire). L’obiettivo rimane una Verità superiore: il binomio vita-salute, senza nessuna ombra di permissivismo.
Quali sono quindi gli strumenti con i quali si dovrebbe operare per gestire il fenomeno tossicodipendenze? Occorre creare un sistema di servizi articolati, in grado di fornire l’insieme degli strumenti farmacologici e terapeutici. È di massima importanza la prossimità e l’accompagnamento necessari per aiutare chi fa fatica a crescere o sta male profondamente. Poi bisogna sempre mettere al primo posto la persona in difficoltà per conseguire un’autentica “coscientizzazione”, il tossicodipendente deve diventare protagonista. È un’impresa ardua e difficile. Vogliamo metterci in testa che non esiste una risposta che vada bene per tutti ed in ogni tempo? Soprattutto ribadisco: la comunità terapeutica, con tutti i suoi meriti, non è l’unica risposta. È indispensabile la centralità dei servizi pubblici, il privato-sociale, il volontariato, le comunità, tutti attori a pari titolo, con competenze e funzioni differenti, uniti in un unico e fondamentale obiettivo: “garantire i diritti alla cura ed alla salute di tutti coloro che si trovano in grande difficoltà” (è una norma costituzionale). Occorre non dimenticare mai di collaborare con tutte le forze sociali ed esigere il coinvolgimento dell’ente locale e delle altre agenzie educative (famiglia, scuola, chiesa, sport…). Con una partecipazione democratica, sviluppare politiche giovanili e promuovere spazi di socializzazione per i ragazzi delle periferie, dei centri storici, delle città. Scoprire le risorse dei centri sociali autogestiti. Si potranno così aprire strade nuove, intelligenti creative e progettuali.
Che fare quindi nei confronti del disegno di legge Fini? Sarà ancora possibile una vasta mobilitazione per frenare questa deriva istituzionale? Il mio vuol essere proprio un invito per continuare a lottare per i principi forti di una democrazia.
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