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Braccialetti elettronici, tossicodipendenti in carcere e politiche proibizioniste: l’opinione di Gian Carlo Caselli
(Realizzata nel mese di novembre 2000)
A cura di Ornella Favero
Gian Carlo Caselli è andato di recente a parlare di carcere anche lontano dalla città, in quel "profondo nord" della provincia di Padova dove gli umori della gente non sembrano molto ben disposti verso chi, in qualche modo, mette in crisi la sicurezza e la tranquillità del Veneto ricco e laborioso. Eppure, a Galliera Veneta, c’è una piccola, importante esperienza che va, in un certo senso, in controtendenza: il Comune ha affidato la manutenzione del verde pubblico a due detenuti che escono ogni giorno dal Due Palazzi per raggiungere il loro posto di lavoro. Ed è a Galliera che abbiamo incontrato e intervistato Caselli.
Dottor Caselli, quale è la sua opinione sulle recenti misure del Governo per impedire le cosiddette scarcerazioni facili e sul braccialetto elettronico, che verrà sperimentato in tre grandi città italiane? Lei non mi crederà, ma non conosco ancora nel dettaglio la parte che riguarda il braccialetto elettronico, e non conoscendo nel dettaglio a chi e come la misura dovrà essere applicata, è impossibile risponderle. A prescindere da quella che potrà essere l’articolazione completa di questa norma, contenuta nel nuovo Decreto Legge, posso provare a rispondere soltanto da un punto di vista assolutamente generale e astratto. In linea di principio io non sono contrario ad interventi di questo tipo, anche se sicuramente non sono risolutivi. Sono un "contributo", che assieme ad altri può alleviare una certa situazione, se questa misura si applica perché accettata dal condannato. Il condannato in libertà potrebbe, così, meglio avviarsi lungo un percorso di effettivo reinserimento, che comprenda anche momenti di necessario controllo, e grazie al controllo sarebbe possibile evitargli una segregazione in carcere, consentendogli appunto un’attività di recupero più significativa. Quindi, l’esecuzione della pena non sarà solo punizione ma anche aiuto, per quanto sarà consentito e possibile, ad un effettivo reinserimento.
C’è una domanda, che ci sta particolarmente a cuore. Lei parla spesso di "circuiti differenziati": mentre ci è chiaro cosa sia l’ultimo circuito, quello simile alla custodia attenuata, ci è meno chiaro il circuito "più duro", in cui non si capisce se ci sarà trattamento o meno, se ci sarà o meno la possibilità per i detenuti di avere un rapporto con l’esterno, con il volontariato, se ci saranno per loro attività "trattamentali". Voi sapete che c’è un circuito di 41bis, uno di Alta Sicurezza, un circuito di detenzione, diciamo, ordinaria e poi, adesso, c’è questa sperimentazione, che cercheremo di realizzare al più presto: circuiti non tanto di custodia attenuata, quanto di trattamento intensificato. Credo che, per principio, le attività trattamentali finalizzate al recupero non debbano essere escluse da nessuna di queste fasce. Naturalmente, diverse tipologie di reati e di soggetti, impongono delle differenze di modi e di tempi nel trattamento, ma sempre in linea con il dettato costituzionale.
Nel Pacchetto Fassino per il carcere era previsto uno stanziamento di 300 miliardi per il reinserimento sociale e lavorativo di detenuti ed ex detenuti, così come un aumento del personale per la rieducazione: assistenti sociali, educatori, psicologi. Che ne è di queste misure? L’aumento del personale è assolutamente confermato. Perché è un Decreto Legislativo, già pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, quindi legge dello Stato definitivamente, irreversibilmente. I nuovi assunti sono 1.140: bisognerà attendere i tempi tecnici per il concorso e la loro formazione, roba di mesi. In più, ce ne sono 743 che sono già vincitori di un precedente concorso e la cui assunzione è stata sbloccata: se non hanno ancora preso l’incarico, lo stanno prendendo ora. In totale, 2.000 operatori in più, per il personale civile e amministrativo, partendo da una base di 5.000. Quindi, adesso diverranno 7.000, un aumento davvero straordinario, davvero eccezionale: nessuna amministrazione pubblica può registrarne di simili. E di questi 2.000 in più, molti sono educatori, molti assistenti sociali, quindi ci saranno molti più spazi per le attività di recupero e di trattamento. Nella finanziaria poi c’era questo fondo speciale… mi sembra corretta l’osservazione, che lei ha appena fatto, che c’è stata una variazione. Adesso vedremo come recuperare, su altri capitoli di spesa, quanto necessario, oppure se saranno possibili correzioni sulla finanziaria, non ancora definitivamente conclusa nel suo iter.
Lei ha partecipato di recente ad un dibattito, organizzato da una parrocchia della provincia di Padova, che aveva uno strano titolo, un titolo un poco triste: "Meno perdono, più sicurezza"… Ci vuole raccontare di cosa avete discusso? Abbiamo discusso anche del titolo, di cosa poteva significare, di come poteva anche essere frainteso. Un altro discorso, che mi pare centrale, è che il carcere non sia solo segregazione, non serva soltanto a creare ulteriore insicurezza, perché al limite può essere veramente una scuola di delinquenza. Un carcere che, oltre alla sicurezza, pensi anche al recupero, è un carcere che cerca di ridurre la recidiva e, riducendo la recidiva, aumenta la sicurezza nella società. Quindi un carcere che conviene non soltanto ai condannati, ma anche alla società. Allora, non è un problema di perdono! Se vogliamo, è questione di dettato costituzionale, di obbligo di civiltà, di modernità, ma anche di realistico interesse per l’individuo e per la società.
In una sua intervista al Manifesto, lei parla dei danni prodotti dalla politica proibizionista sulle droghe. Ci potrebbe spiegare meglio la sua opinione in proposito? Credo che il mio pensiero, nell’intervista al Manifesto, sia stato chiarissimo. Ho detto, e ripeto, che occorre interrogarsi sugli effetti delle politiche proibizioniste, in modo particolare per quanto riguarda la risposta, che non deve essere concentrata unicamente sul carcere, ma va invece modulata anche su risposte alternative.
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