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"Quando in carcere si cerca di regolamentare ogni cosa, l’inflazione di norme e regole non può che determinare il non rispetto delle stesse"
(Realizzata nel mese di luglio 2001)
A cura di Ornella Favero
"Quando in carcere si cerca di regolamentare ogni cosa, l’inflazione di norme e regole non può che determinare il non rispetto delle stesse". Un’intervista a Pietro Buffa, Direttore del carcere "Le Vallette" di Torino, sui paradossi prodotti da un eccesso di regolamentazione e sull’esigenza di trovare un modo diverso di regolare la vita in carcere
Partiamo subito dal nodo centrale del problema: in un suo articolo, pubblicato sulla rivista Animazione Sociale, lei sostiene l’opportunità di un maggiore spazio alla discrezionalità per gli operatori penitenziari, nella gestione degli istituti di pena, e la necessità di ridurre invece l’ "iperregolamentazione" e gli estremismi della tutela, quelli per i quali, ad esempio, nei confronti di un detenuto che ha tendenze suicide si opera con la logica del "Vuoi suicidarti? Ti privo di tutto". Ma la discrezionalità che lei auspica non potrebbe determinare anche un maggiore rischio di comportamenti arbitrari?
La riflessione che ho fatto nasce dalla lettura del libro Il carcere trasparente dell’Associazione Antigone: loro fotografano bene la realtà carceraria, ma con i limiti determinati dal fatto di lavorare soprattutto con dati non omogenei, scientificamente spuri. Da questa fotografia, viene fuori una forte disomogeneità all’interno della struttura penitenziaria, per cui si dice che ogni carcere è una repubblica a sé. Un secondo elemento lo ricavo dalle cose che dice uno studioso di questi temi, Claudio Sarzotti, che ha scritto un articolo sul fatto che il legislatore, per certi versi, e il personale di riflesso, per altri, nutrono una reciproca sfiducia. In particolare è il direttore che, proprio per il tentativo di ottenere il massimo delle garanzie all’interno delle strutture penitenziarie, cerca di regolamentare ogni cosa. Però l’inflazione di norme e regole può paradossalmente determinare il non rispetto delle stesse, da un lato; ma dall’altro, ancora peggio, il fatto che gli operatori penitenziari possano vivere questa specie di cappa di regole minuziose come un rischio perenne, quello di non sapere esattamente se sono nel giusto o nello sbagliato. Questo determina un blocco operativo, mentre la discrezionalità è quella che invece ti consentirebbe di vivere in modo decente la relazione tra custode e custodito all’interno di un contesto detentivo. Posso raccontare casi emblematici, dal punto di vista degli "estremismi della tutela", come quello del detenuto che s’è ammazzato con la bomboletta del gas: per l’amministrazione penitenziaria, se uno s’ammazza con la propria cintura è un problema, se si ammazza con la bomboletta non è un problema. Questo perché la cintura consentita, nelle circolari ministeriali, viene descritta come "di modiche dimensioni", ma il problema è: chi stabilisce, nel momento in cui c’è un morto appeso, se quelle "modiche dimensioni" erano quelle giuste? Altra cosa è invece se il detenuto si è servito di una bomboletta, semplicemente perché l’uso dei fornelli è consentito dal Regolamento di esecuzione…
Abbiamo anche altri casi paradossali, dove se un detenuto tenta il suicidio con la varechina, poi la varechina viene tolta a tutti, privando le persone di un fondamentale mezzo per mantenere l’igiene in un luogo fortemente a rischio come il carcere. Ma allora come si esce da questa situazione?
Per quello che riguarda i casi di autolesionismo, ho trattato questi temi in un articolo, dal titolo, "Il problem solving, in ambito penitenziario, in materia di contrasto al disagio psichico: ipotesi per la costituzione di "gruppi di attenzione", che uscirà sulla rivista Il reo e il folle. Sono partito da una struttura sclerotizzata, come quella che c’era in questo carcere, e che descrivo in questo modo: se un tizio si fa un taglio al braccio, siamo arrivati ad un tale livello di ansia e di preoccupazione che il medico, la prima cosa che fa, lo mette in isolamento e guardato a vista, e a volte gli toglie tutto, anche gli abiti. Ma più ci sono allertamenti di questo tipo, più complichi la questione, e poi non riesci a "sminarla", perché se ti dicono "quella persona è a rischio", quello rimane a rischio sempre… chi lo toglie più dalla sua situazione? Ho tentato di fare il discorso ipotetico di un Pubblico Ministero che si trovasse a riflettere, per esempio, su di un suicidio. Una persona che si era procurata dei tagli, che viene messa a grande sorveglianza e poi, ad un certo punto, si ammazza. Di fronte a questo, oggi come oggi, le questioni vengono lette sulle carte che si sono prodotte: cioè, se il detenuto era in grande sorveglianza o non lo era, se lo guardavano o no, se il provvedimento è stato scritto o meno. Se, a un certo punto, il Pubblico Ministero, di fronte alla dura realtà di un morto, dice: "Scusate, l’avete messo a grande sorveglianza, ma… che cosa vuol dire? Vuol dire che l’agente lo guardava un po’ di più? Troppo poco! Ogni tanto andava anche a parlargli lo psicologo? E il risultato di questo colloquio, dove viene riportato? Da nessuna parte?… questo non va bene!". Quello che io ho invece tracciato è un percorso logico per costruire, e non sulla base delle carte e della burocrazia, un intervento serio, che certo può ugualmente arrivare all’esito maledetto e infausto della morte di una persona, perché partiamo comunque dal fatto che una persona, se si vuole uccidere, lo fa. Quello che io devo dimostrare però non è di aver messo a posto le carte, ma di aver fatto tutto quello che era umanamente possibile fare in modo serio, con le risorse che avevo. Vi spiego ora che cosa sono questi "gruppi di attenzione", partendo anche qui da un esempio pratico: la Direzione scrive al Provveditorato dicendo che tizio si è fatto del male e, nel frattempo, riferisce la stessa cosa alla Direzione sanitaria, all’Ufficio educatori e agli esperti e mette il soggetto in grande sorveglianza. Facciamo finta di essere operatori di specie diverse, un medico, uno psicologo, un’educatrice, e che abbiamo Mario Rossi con dei problemi. Ognuno di noi ha visto la sua storia, ma tra di noi non ci parliamo, compiliamo delle carte, dicendo che ognuno deve stare attento, ma da questo a dire che ci stiamo occupando "davvero" di Mario Rossi ce ne passa… Allora, cominciamo a occuparcene invece realmente, e non "sulla carta": o tu lo vai a sentire, o incarichi altri operatori, a seconda della soglia di difficoltà, e valuti se il caso è realmente serio, o se invece è stato determinato da un motivo di poco conto come un pacchetto di sigarette non dato, e poi ti accerti se questa persona è conosciuta da tempo come problematica. L’importante è che qualcuno parli con questa persona. Dopo che ci ha parlato, però, bisogna fare il percorso inverso, cioè che chi gli ha parlato mi riporti quello che si sono detti, in modo che possiamo discutere della questione. Una volta che questo sistema si è attivato, allora possiamo decidere: o è un caso sporadico, puntiforme nell’ambito di una vicenda detentiva, che può non avere importanza, oppure decidiamo che è un caso grave. A questo punto, l’Ordinamento Penitenziario ci dà un possibilità, che è quella di aprire un gruppo di lavoro, un’équipe, che studia il caso e decide di proporre qualcosa, che può essere all’interno del carcere, o può essere anche l’uscita dal carcere, dichiarando che la persona non è in condizioni tali da essere compatibile con la detenzione. Questo, secondo me, significa riappropriarsi di una discrezionalità, ma può anche darsi che, mentre noi proviamo a fare qualcosa, Mario Rossi decida di farla finita, questo sì. Noi, comunque, dimostriamo due cose: che un atto formale è stato rispettato, perché è stato organizzato un sistema di comunicazione e d’attenzione sulla persona ma, aldilà di questo, che per certi versi purtroppo potrebbe bastare, possiamo soprattutto dimostrare che delle persone sono partite dalle loro sedi e sono andate da Mario Rossi, per parlare con lui, poi si sono ritrovate ed hanno cominciato a discutere su quello che si poteva fare o non fare. Quando io sono andato a discutere di queste cose con gli operatori, una delle obiezioni venute fuori è stata: "Sì, ma tu mi stai dando la responsabilità di fare questa cosa…". Certo, ti sto dando una responsabilità, ma comunque si tratta di una responsabilità che era già assicurata, tutelata in partenza, perché il piano formale è rispettato, nel senso che il primo che lo vede, se questa persona si fa del male, è il medico, il quale comunque disporrà la grande sorveglianza e le questioni sanitarie. Io ti sto chiedendo un’altra cosa, che non presenta particolari responsabilità, e il fatto che tu lo fai non ti mette in una condizione di difficoltà: tu devi solo andare a parlarci e riportare indietro i dati, per discuterne. Questo ha convinto, è servito a far calare le ansie di molte persone.
La discrezionalità, nella vita di un carcere, significa che un detenuto non sa esattamente a che tipo di pena va incontro, che "qualità" avrà il tempo della sua pena, perché se capita a Padova o a Torino è un conto, se capita a Palermo o a Sulmona è un altro conto. Allora, il discorso della discrezionalità potrebbe andar bene se ci fosse un difensore civico, una "persona terza", che in qualche modo controlli il tutto. Altrimenti la discrezionalità funziona dove c’è un direttore, una struttura ed un personale di un certo tipo, ma in altri istituti la discrezionalità potrebbe tradursi in una "qualità del tempo" disastrosa per i detenuti…
Prendiamo atto che ciascuno di noi è soggetto a "variabili discrezionali", nel mondo del lavoro, nella famiglia: il fatto di nascere a Torino, o di nascere a Palermo, sono due cose diverse, quindi c’è una relatività che sta nelle cose umane. La discrezionalità sarebbe comunque pericolosa se fossimo nel carcere anni ’50, quello che poi, cinematograficamente, è stato rappresentato da quel bellissimo film di Alberto Sordi che è "Detenuto in attesa di giudizio". Oggi, però, con tutti i limiti, siamo in una situazione in cui un detenuto, anche con strumenti non particolarmente evoluti, un "medio detenuto", se ha un problema può effettivamente scatenare un caso. Allora, io intravedo che si creerà una sorta di marketing penitenziario, con valutazione delle caratteristiche delle singole carceri: già adesso i detenuti ti sanno dire se quello è un buon posto o un cattivo posto, ti sanno dire se quella regione ha un distretto con un Tribunale di Sorveglianza di un certo tipo o di un altro tipo. La domanda del detenuto si deve incontrare con una offerta di opportunità da parte del carcere, e quanto più bassa sarà questa offerta, tanto più la domanda sarà forte e rumorosa, oppure non forte, ma pericolosa.
Tra i detenuti ci sono quelli "deboli" e quelli "forti" e, in un regime nel quale la possibilità di negoziazione è alta, anche questo rappresenta un problema. Ad esempio, in una Casa di Reclusione, il detenuto italiano che è in carcere da dieci anni ha in qualche modo un potere di negoziazione, sa quello che vuole e come tentare di ottenerlo. Ma in quella che viene chiamata la "scalata per la libertà", e che lei definisce "la rincorsa per garantirsi quelle poche opportunità che consentono il miglioramento della propria posizione detentiva in vista di una chance di inserimento esterno", il detenuto straniero, per esempio, non ha nemmeno gli scalini per fare questa scalata. Allora, in un sistema nel quale la negoziazione è così importante rispetto alla legge scritta, come tuteliamo il detenuto più debole, anche nei confronti degli altri detenuti, non soltanto della direzione e della custodia?
Ripercorrendo un po’ gli anni devo dire che, innanzi tutto, gli stranieri sono cambiati molto all’interno del carcere. Inizialmente erano veramente dei paria, adesso ci sono stranieri e stranieri: ci sono stranieri organizzati e stranieri paria. Poi c’è una questione di presenza fisica, perché dentro le sezioni l’equilibrio è anche un equilibrio numerico. Noi sappiamo che, se mettiamo, in una sezione, quaranta arabi e dieci italiani, dopo un giorno i dieci italiani chiedono di andar via. Certo, la questione degli stranieri in carcere è uno dei nodi perché, se prima del ’75 trovavamo gli italiani che manifestavano per ottenere delle cose, oggi potremmo trovare gli stranieri che protestano per ottenere un miglioramento della loro condizione e l’italiano che ha la funzione del calmiere… finché gli sta bene di fare il calmiere. La partita è quella della liberazione anticipata (n.d.r.: i 45 giorni di liberazione anticipata per semestre si possono perdere in caso di rapporto disciplinare): è chiaro che il carcere è un contesto violento, non tanto per i fatti fisici, perché qui avremo al massimo una rissa al mese, e sto parlando di qualche persona coinvolta, non di cinquanta contro cinquanta. La violenza sta in altri sistemi: la spesa, gli equilibri di sezione… io italiano non mi muovo perché, se ti vengo addosso, perdo i quarantacinque giorni, però fai attenzione… Oggi la questione degli stranieri in carcere è gestibile in diversi modi, bisogna offrire delle opportunità, ma che siano opportunità serie e, allora, bisognerebbe andare a capire i bisogni di questa gente, a partire dalla domanda di base: perché viene in Italia? Io non credo che, su cento persone arabe in carcere, tutte e cento siano venute in Italia per fare dei delitti, è più probabile che un’ottima percentuale abbia scelto l’Italia perché gli sembrava un posto dove poter trovare una vita migliore e, ad un certo punto, si è trovata suo malgrado invischiata in certe vicende. Partendo da questa realtà, è possibile pensare ad un inserimento stabile in Italia, oppure dobbiamo cominciare a pensare in parte a questo e, in parte, ad un rientro degli immigrati nei loro paesi, che sia un rientro tutelato e gestibile.
Anche rispetto agli stranieri, la discrezionalità e la negoziazione richiedono dei bilanciamenti: noi citiamo sempre il caso di un detenuto straniero che, nei primi sei mesi della sua carcerazione, ha avuto centottanta rapporti. Adesso è una persona straordinariamente inserita e piena d’iniziativa, fa parte della nostra redazione, ma la sua vicenda è esemplare. Se il sistema si basa sulla negoziazione, ci devono essere delle tutele, dei bilanciamenti, come potrebbero essere i mediatori culturali per i detenuti stranieri.
Questo detenuto ha preso i centottanta rapporti a Padova, nello stesso carcere dove poi ha potuto inserirsi, quindi chi ha deciso che potesse entrare nella redazione, svolgere un certo ruolo e muoversi all’interno del carcere, ha fatto una scelta assolutamente discrezionale. Perché questa vicenda, raccontata da un estraneo, potrebbe suonare così: "Soggetto entra in carcere e, nei primi sei mesi della sua carcerazione, provoca una gran quantità di disagi, in numero di centottanta episodi". Automaticamente noi pensiamo che questo è un disgraziato, ci viene da dire che questo è da chiudere; invece, nel carcere di Padova, chi aveva il potere di decidere ad un certo punto analizza questa situazione abnorme e, in modo altrettanto abnorme, se vogliamo, decide esattamente il contrario e dice: "Facciamogli fare qualcosa!". Attenzione, questo è un ragionamento che spesso viene fatto nelle carceri, nel senso che a volte si legge nella gravità del caso, si legge il disagio e si cerca di interpretarlo in modo diverso. E non dico soltanto da parte delle direzioni, da parte di un direttore più o meno illuminato o di un ispettore più o meno illuminato, ma parlo anche dell’agente in sezione, che è esasperato di scrivere tutto il giorno su questo qua, o di sentirne le urla e gli sbattimenti del blindo. Ad un certo punto qualcuno dice: "E se provassimo a fare il contrario?". Così, presumo che qualcuno si sia interessato a lui e abbia trovato la soluzione giusta.
Questo è un caso estremo, ma ci sono molti casi di persone che non arrivano ai centottanta rapporti, che non ottengono niente e il loro caso scompare nel nulla. Lasciare questa discrezionalità, questa possibilità di scelta, all’intelligenza di persone più o meno illuminate, ha comunque dei limiti.
Io non parlo di "illuminazione", ma di "coscienza", perché è chiaro che, assieme al discorso della discrezionalità c’è quello della responsabilità. Oggi perseguiamo molto l’autotutela, la responsabilità formale, e questo è bloccante. Apriamo un po’ le porte, ragioniamo sulle cose, perché se continui a leggere le cose per schemi, per autotutela, ti intorpidisci: puoi anche mettere tutte le carte a posto, ma i problemi ti sfuggono da sotto i piedi.
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