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“Lavorare con le persone detenutee non per le persone detenute”
E soprattutto lavorare insieme, per progetti coordinati e condivisi. Ma a frenare questo percorso c’è spesso una difficoltà ad uscire dal sé per ragionare e agire nell’ottica del noi, una inerzia che è talmente radicata da rappresentare, di fatto, uno dei maggiori ostacoli all’affermarsi del “lavoro di rete” Il concetto di empowerment (letteralmente: “favorire l’acquisizione di potere”, ovvero “accrescere le possibilità dei singoli e dei gruppi di controllare attivamente la propria vita”) si è sviluppato in psicologia di comunità per indicare “i processi attraverso i quali i cittadini svantaggiati possono acquisire maggiore potere tramite la partecipazione in associazioni”. Nello specifico penitenziario, spiega la psicologa e criminologa Sonia Ambroset nel suo libro Pagine sul metodo, pagine sul carcere, l’empowerment va sostanzialmente inteso come “un modo di produrre cambiamento nella forma di un aumentato accesso alle risorse per le persone detenute”, che vengono aiutate a “raggiungere abilità in termini di saper fare, di sapere e di saper essere”. Si innesca così un processo di umanizzazione del carcere, in cui il detenuto viene indotto a superare la sua condizione di rassegnata passività per assumere l’unico ma comunque importante “potere” che la sua condizione gli concede: quello cioè di “sostenere in modo competente i propri diritti pur in un regime di privazione di libertà”. Ma lavorare in carcere nell’ottica dell’empowerment, chiarisce nel suo libro la psicologa milanese, significa anzitutto “attuare un primo, fondamentale cambiamento nella cultura operativa di tutti” (operatori, volontari, detenuti), che consiste essenzialmente nell’imparare a “lavorare con le persone detenute e non per le persone detenute”. Per l’interesse dell’argomento, ma anche per l’evidente sintonia esistente fra l’esperienza concreta di Ristretti Orizzonti (rivista nata con i detenuti e via via cresciuta con i detenuti) e le idee propugnate da Sonia Ambroset, dopo aver affrontato con lei in redazione la questione del ruolo del “tutor” (Ristretti Orizzonti numero 5/2004), questa volta abbiamo parlato dei molti, stimolanti spunti di riflessione offerti dal suo libro.
Di corsi di formazione che non conducono a niente ce ne sono già troppi, è inutile inventarne altri
Ornella Favero (Ristretti): Vorremmo iniziare cercando di approfondire il discorso sull’empowerment, e sul lavorare con i detenuti, in particolare in relazione alla formazione. Che cos’è, secondo lei, che spesso non funziona nella formazione in carcere, visto che, allo stato attuale, il concetto di “lavorare con i detenuti” non è granché condiviso, e tanto meno praticato? Sonia Ambroset: Prima di parlare di cosa non va nella formazione in carcere, forse sarebbe opportuno chiarirsi le idee su come dovrebbe funzionare per assolvere efficacemente al suo scopo. Mettiamo il caso che io, cooperativa del terzo settore, abbia a disposizione un certo numero di detenuti di questo istituto penitenziario e intenda organizzare con loro dei corsi di formazione… Beh, come primo passo, piuttosto di mettermi a immaginare in separata sede il mio corso di formazione, penso che dovrei venire qui, in mezzo ai detenuti, per cercare di capire quali sono le loro vere aspettative e per valutare in concreto le loro attitudini. In secondo luogo dovrei aiutarli a capire quale collegamento effettivo può esistere fra i loro interessi e quanto offre il mercato del lavoro esterno, perché su una cosa non ho dubbi: il mio corso di formazione dovrà porsi l’obiettivo di aiutare i detenuti a trovare davvero un lavoro fuori dal carcere. Diciamocelo chiaro: di corsi di formazione professionale che non conducono a nessun lavoro ce ne sono già troppi, nelle carceri italiane, inutile mettersi a inventarne degli altri. Ma se vogliamo parlare dell’empowerment nell’ottica della formazione, dobbiamo anzitutto imparare a ragionare in termini di co-progettazione. E quindi pensare a un modo di lavorare per progetti, in cui l’analisi della richiesta, la produzione di idee, la fase iniziale del lavoro e i suoi successivi sviluppi si svolgano fin dall’inizio con i detenuti. Ma non solo con i detenuti, scusatemi… In un gruppo di lavoro di questo tipo io credo che debba essere coinvolto qualche operatore del ministero, ma anche qualche agente, perché – inutile nasconderselo - se gli agenti sono coinvolti nell’elaborazione di un progetto ne renderanno poi più agevole l’attuazione. L’obiettivo, comunque, deve essere di dar vita a percorsi di formazione professionale che siano davvero spendibili sul mercato del lavoro. Credo che il criterio della co-progettazione, se applicato con metodo e concretezza, ci salvaguarderebbe dal rischio di investire ulteriori energie e risorse in strade senza sbocco.
La preparazione teorica posso farla anche qui, ma l’esperienza concreta devo farmela fuori
Paolo Moresco (Ristretti): Co-progettazione, se ho ben capito, anche come precondizione per proiettare il percorso formativo oltre le mura del carcere. Nel suo libro, infatti, lei spiega che scopo della sua proposta è quello di contribuire al passaggio “dalla formazione come strumento di contenimento e di rieducazione, e quindi come uno strumento del tutto interno al carcere, a una concezione della formazione come vero e proprio strumento finalizzato al reinserimento sociale”. Sonia Ambroset: Certo, tutto ciò si traduce anche nella possibilità di fare formazione fuori dalla galera. Che ci sia una proliferazione di corsi fatti all’interno del carcere da un lato mi sta bene, perché costituiscono delle indubbie opportunità di impegno per chi è dentro, ma credo che si debba anche ragionare in una prospettiva esterna, pensando che i detenuti prima o poi possano accedere a corsi di formazione e ad esperienze di tirocinio extracarcerarie. Insomma: la preparazione teorica posso farla anche qui, in un’aula del carcere, ma l’esperienza concreta di lavoro, perché abbia senso e davvero mi sia utile, devo necessariamente farmela fuori. Per questo ritengo che dovrebbero essere introdotti dei permessi finalizzati proprio alla presa di contatto con il mondo del lavoro esterno. Sotto il profilo normativo credo che ci sia già la possibilità di accedere a simili permessi di avviamento al lavoro, ma manca un contesto progettuale in cui inserirli e finalizzarli. Allo stato attuale, come ben sapete, il più delle volte chi promuove delle attività in carcere punta poi a creare una cooperativa finalizzata, che so, alla gestione del verde all’interno dell’istituto. E va bene anche questo, per carità, perché contribuisce comunque ad allargare le opportunità di lavoro dei detenuti, ma perché non pensare di più ad attività che abbiano una reale proiezione esterna?
Il carcere fa male anche a quelli che vengono da fuori per lavoro, perché tende a inglobare verso il dentro
Marino Occhipinti (Ristretti): C’è una circolare sul trattamento, una delle ultime, che parla appunto di coordinare tutte le attività, perché altrimenti ciascuno finisce per limitarsi a curare il proprio orticello. E l’inflazione di attività scollegate l’una dall’altra si traduce molto spesso in un impiego di risorse disordinato e sproporzionato rispetto ai risultati concreti. Sonia Ambroset: Questo appunto è il limite che io vedo nel lavoro per progetti, così come si va manifestando oggi. Va chiarito però che possiamo parlare di limiti perché finalmente c’è almeno un tentativo di lavorare per progetti. Ricordo che vent’anni fa eravamo ancora lì ad aspettare che qualcuno entrasse in carcere e proponesse qualcosa da fare, mentre ora le iniziative non mancano, e il problema è semmai quello di inquadrarle in una strategia più razionale ed efficace. Questo riconoscimento non ci deve però far velo, impedendoci di vedere quello che non funziona correttamente nell’applicazione pratica di criteri sicuramente validi. Non bisogna dimenticare che il carcere fa male a tutti, anche a quelli che vengono da fuori, perché tende a inglobare verso il dentro. È omnipervasiva, la galera: per i detenuti, ma anche per gli operatori. Questo bisogna sempre tenerlo presente, se non si vuol correre il rischio di teorizzare il nuovo e di ritrovarsi poi, sospinti dall’inerzia del sistema, a ripercorrere le strade di sempre.
Coordinare, nella dimensione penitenziaria, è difficilissimo
Nicola Sansonna (Ristretti): D’altra parte mettere in piedi un’attività fuori del carcere non è un’impresa da poco. Prendere una stanzetta e mettere sette o otto detenuti a lavorare qui in carcere è un conto, impiantare un’attività all’esterno del carcere è enormemente più complesso, sia in termini di costi che di organizzazione… Sonia Ambroset: È vero, ma fino a un certo punto. Faccio presente infatti che il più delle volte è un’impresa anche riuscire a mettere insieme attorno a un tavolo, una volta ogni tre mesi, tutti quelli che lavorano all’interno del carcere. Coordinare, nella dimensione penitenziaria, è difficilissimo. E ne ho avuto un’ennesima prova qualche anno fa, a Milano, quando il carcere di Bollate ha cominciato a funzionare a buon regime e mi è stato chiesto di dare una mano a creare un “tavolo delle associazioni e delle cooperative” allo scopo, appunto, di coordinare le varie attività. E coordinare, in quel caso, significava anche e forse soprattutto stabilire un contatto fra i molti operatori e volontari impegnati nelle diverse attività, perché spesso lavoravano a poca distanza l’uno dall’altro senza neppure conoscersi, con il risultato che i progetti rischiavano di sovrapporsi e intralciarsi l’uno con l’altro, con evidente confusione e spreco di energie. Per un anno e mezzo mi sono assunta il compito di garantire il coordinamento fra le varie attività, e il lavorare insieme, in un’ottica comune e condivisa, ci ha permesso di arrivare a un minimo di programmazione e di organizzazione razionale dei progetti formativi. Poi purtroppo tale collaborazione non ha potuto continuare, e in pratica si è tornati al punto di partenza. E non perché io, Sonia Ambroset, in quel ruolo fossi insostituibile, ma perché quel ruolo di coordinamento, di terzietà sia rispetto all’istituzione carcere che rispetto alle associazioni che io ricoprivo, è indispensabile se si vuole dare una programmazione e un respiro strategico ad attività di questo tipo. Dopo tanti anni di esperienza mi sono infatti persuasa che le associazioni e tutti quelli che operano dentro il carcere tendono alla fin fine, comunque, a lavorare nel proprio orticello, anche perché ciascuno dentro di sé è convinto, in assoluta buona fede, di fare la cosa migliore. Ma questo è un atteggiamento che entra in rotta di collisione con la logica del lavorare insieme, perché lavorare insieme vuol dire anche mettersi personalmente in gioco ed assumere un atteggiamento critico nei confronti di quello che si è abituati a pensare e a fare. E non è un’operazione tanto semplice, per nessuno. Tant’è che a parole tutti sono d’accordo, a mettersi in discussione, ma poi, alla prova dei fatti, sono ben pochi coloro che si sforzano davvero di inquadrare se stessi e il proprio ruolo nella logica del lavorare insieme, per progetti coordinati e condivisi. Quest’inerzia, questa difficoltà ad uscire dal sé per ragionare e agire nell’ottica del noi, è talmente radicata da rappresentare, di fatto, uno dei maggiori ostacoli all’affermarsi del “lavoro di rete”. Tanto più in Italia, dove – e non me ne vogliano i credenti, ma è un dato oggettivo – si è più portati che altrove, per tradizione antica e dura a morire, a lavorare “per parrocchiette”. Siamo infatti perlopiù invischiati in logiche comportamentali antiche, molto difficili da sradicare. Ma tanto più per questo è necessario a mio avviso – per tornare all’esigenza prima affermata di una pianificazione per progetti delle attività – che si affermi all’interno delle carceri un ruolo “terzo”, come quello che prima raccontavo di aver svolto a Bollate. Riconosco tuttavia che non è facile trovare persone disposte ad assumersi una funzione che richiede una certa preparazione, ma soprattutto capacità d’iniziativa e continuità d’impegno (e quindi tempo) senza offrire nessun riscontro di tipo finanziario. Una soluzione potrebbe essere che questo ruolo di “gestori dei tavoli” se lo assumessero gli educatori, ma per mille motivi che non sto qui a elencare ho l’impressione che non abbiano alcuna possibilità di farsi carico anche di un impegno di questo tipo
Sono assolutamente convinta che tutti possiamo lavorare per progetti
Nicola Sansonna: È singolare che un discorso del genere lo faccia lei, che per qualifica professionale è una psicologa-criminologa. Mi pare infatti, il suo, piuttosto un taglio da sociologa: mettere in contatto le persone, indurle a confrontarsi e a cooperare… Sonia Ambroset: In realtà state parlando con una persona che non crede nei ruoli e nelle discipline. E infatti, indipendentemente da questo o quel ruolo, è il lavoro di rete che ci riguarda tutti: cioè un modo nuovo di operare, che è basato essenzialmente sul lavoro per progetti. Nessuna categoria professionale è abilitata in quanto tale a lavorare per progetti, e nessuna ne è esclusa. Lavorare per progetti è anche, e in un certo senso soprattutto, un’attitudine personale, come singolo individuo; non è un problema legato a ruoli professionali, insomma: ciascuno di noi può avere un suo ruolo, nella logica del lavoro per progetti, nessuno ne è tagliato fuori in partenza perché non “titolato”. E questo, nello specifico carcerario, vale per tutti: per l’operatore istituzionale, per il volontario, per il detenuto, per me che sono psicologa… L’attitudine a lavorare per progetti non ha insomma niente a che fare con la formazione professionale specifica, ha a che fare, invece, con una impostazione di lavoro inquadrata in una logica strategica. E infatti esistono fior di professionisti del tutto incapaci di lavorare in rete e persone non identificabili in una competenza professionale specifica che, invece, sanno imprimere al loro operato una dimensione strategica. Sono assolutamente convinta che tutti, proprio tutti, possiamo lavorare per progetti. E sono nondimeno convinta che questo sia, oggi, l’unico modo serio e davvero efficace di lavorare. Non credo più nel professionista singolo, che si identifica completamente e solo nella sua qualifica professionale, nel suo “titolo”. Ciò non toglie che io, psicologa e criminologa, continui a essere – e a fare - la psicologa e la criminologa quando lavoro per progetti. Non è insomma che rinunci al mio ruolo professionale, perché lavoro così: al contrario, credo di renderlo più attuale, e soprattutto più utile.
La logica con cui ho sempre lavorato in carcere non è quella della denuncia
Ornella Favero: Nel suo libro ho trovato altri spunti a mio avviso di notevole interesse. Mi riferisco, anzitutto, a quanto lei afferma sulla scarsa attenzione che viene prestata agli aspetti della comunicazione interna, argomento a cui noi di Ristretti Orizzonti - per la specificità del nostro lavoro - siamo evidentemente particolarmente sensibili. Un secondo tema su cui vorrei chiederle qualche ulteriore riflessione è la funzione di garanzia dell’operatore, molto difficile da definire prima ancora che da realizzare. Noi che facciamo un giornale, per esempio, siamo chiamati ad avere ben chiara la linea, spesso sottile e sfuggente, che separa l’azione di garanzia dalla denuncia. Io cerco di chiarire sempre che, con la nostra rivista, ci battiamo per i diritti delle persone detenute: non puntiamo insomma a fare un giornale di denuncia, ma ad avere un ruolo di tutela dei diritti e quindi di garanzia. Ma è un concetto un po’ difficile, lo so, e proprio per questo mi piacerebbe che lo sviluppassimo insieme. Sonia Ambroset: Sto pensando che giusto ieri sera un gruppo di volontari che opera in carcere da molto tempo mi ha chiesto un po’ di aiuto per riflettere insieme sul loro lavoro. I loro dubbi, in particolare, riguardano cosa devono o non devono fare quando hanno la chiara percezione di trovarsi di fronte a lesioni di diritti di singole persone. Io non so dire, in generale, cosa si possa o si debba fare nei singoli casi, perché su di essi bisogna necessariamente ragionare volta per volta. La logica con cui ho sempre lavorato in carcere, però, non è mai stata quella della denuncia, che il più delle volte non conduce a nulla. Ho sempre pensato che, se si è messi al corrente dai detenuti di cose che non vanno, occorre anzitutto verificarle insieme agli stessi detenuti, quelle cose. E verificarle vuol dire anche sforzarsi di capire perché sono avvenute e cosa si può concretamente fare (come detenuti, come operatori, come associazioni) per evitare che avvengano ancora in futuro. Faccio un esempio, che riguarda un’esperienza che abbiamo fatto qualche anno fa a San Vittore, quand’era sorto il problema della cronica carenza di lenzuola e carta igienica. Scartata l’ipotesi di assommare alle proteste dei detenuti quelle di noi volontari e operatori (c’è sempre qualcuno che propone di fare una bella manifestazione davanti al carcere, con tanto di cartelli – ma a che serve?), abbiamo pensato che la cosa più sensata fosse organizzare un lavoro d’indagine combinato fra gruppi di detenuti, dentro, e noi operatori, fuori, allo scopo di individuare i “colli di bottiglia” che rendevano così problematica la distribuzione di lenzuola e carta igienica. Alla fine della nostra ricognizione, che è stata molto attenta e che ci ha portati a individuare le cause del problema, abbiamo mandato al direttore di San Vittore una lettera in cui, in tono cortese e collaborativo, facevamo presente non tanto il problema in sé quanto la sua possibile soluzione, attraverso un idoneo intervento sugli “imbuti” che soffocavano la distribuzione delle lenzuola e della carta igienica. Insomma, in quell’occasione siamo passati dalla denuncia alla segnalazione e descrizione di un problema, e alla conseguente chiamata di responsabilità di chi davvero era in grado di controllare e intervenire. In linea generale, sono persuasa che imparare a lavorare per problemi sia un modo concreto ed efficace di uscire dalla logica a volte velleitaria della denuncia e di intervenire sulle singole questioni con competenza e capacità propositiva. Se ci si muove così, è difficile che la propria voce resti inascoltata.
Paolo Moresco: Agendo in questo modo, peraltro, non si rischia di toccare la suscettibilità di questo o di quello: perché non si denuncia una “colpa”, ma si sottolinea prima di tutto una causa oggettiva, che è cosa ben diversa. Sonia Ambroset: E alla fin fine è proprio questo, il meccanismo che punta a innescare l’empowerment. Facciamoci questa domanda: preferiamo continuare a compatire i detenuti, a parlare in termini di denuncia di ogni disfunzione del sistema a cui sono soggetti, o preferiamo invece renderli competenti, mettendoli nella condizione di analizzare i problemi e di concorrere attivamente alla loro soluzione? Sonia Ambroset, criminologa e psicologa, lavora nel settore penitenziario e svolge attività di consulenza e di formazione presso diverse organizzazioni pubbliche e private. Tra i suoi lavori: Numero oscuro della devianza e questione criminale (in collaborazione), 1980; Criminologia femminile: il controllo sociale, 1984; Tra aiuto e controllo, Servizio sociale e giustizia penale, 1984.
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