Rita Fabbri

 

Decidere della vita di un altro è un peso che ti schiaccia

Rita Fabbri, insegnante nel carcere di Forlì

e da poco giudice onorario con funzione monocratica

 

(Realizzata nel marzo 2004 da Laura Caputo)

 

Occhi vivacissimi e sorriso ironico, gesti armoniosi e figura sottile, l’insospettabile quarantina, un marito e un figlio, una laurea in giurisprudenza, tempo libero zero, ma disponibilità totale verso chi ha bisogno di raccontarsi: Rita Fabbri insegna, dall’anno scorso, diritto e economia politica al triennio per la formazione di ragionieri, un’iniziativa nata dalle buone volontà testardamente congiunte di Rosa Alba Casella, Direttore della Casa Circondariale di Forlì, e di Novella Ricci, Preside dell’Istituto Tecnico Commerciale G. Matteucci, che da anni accompagna con successo gli studenti forlivesi alle soglie della vita professionale. Da luglio 2003, Rita Fabbri è stata nominata giudice onorario con funzione monocratica. “Oddio, non sono mai stata intervistata, non farmi domande difficili, ti raccomando! Che cosa vuoi sapere? Non parlo volentieri di me, preferisco ascoltare gli altri. Devo proprio? Allora va bene. È vent’anni che insegno: prima alle elementari, poi alle superiori. Mi piace perché la gente mi interessa, ha sempre tanto da dire. No, non ho scelto di venire in carcere, mi ci hanno mandato. Però sono stata d’accordo fin da subito. Pregiudizi? E perché? A tutti può capitare di sbagliare: qui dentro ci sono esattamente le stesse persone che ci sono fuori, solo che hanno un problema in più. No, non ho nessuna intenzione di farmi trascinare in una discussione sull’utilità del carcere, tanto già sai come la penso. Qualche volta, chiudere la gente serve a interrompere una spirale di comportamenti delittuosi, inanellati e correlati strettamente, un percorso in discesa sul quale uno non ce la fa a fermarsi. Serve anche a proteggere la società, è ovvio. Però la detenzione è utile solo se riesce a fare in modo che le persone detenute abbiano un sostegno, qualcuno che le induca a riflettere, a ragionare per capire che il reato non paga. E se si fa in modo che, all’uscita, gli ex detenuti non siano emarginati, costretti nella situazione di prima, quella che li ha indotti a delinquere. Il corso per ragionieri ha questo compito, darvi qualche arma in più per ragionare e per difendervi, come dire?, dalla tentazione. Certo che mi sta bene, anzi benissimo: io credo fermamente alla funzione della cultura nella vita delle persone. E poi voi siete un’ottima classe, insegnare diventa un vero piacere. Sì, questo mese di luglio, quando mi è arrivata la nomina a giudice onorario, mi sono detta: speriamo di non andare al penale, sennò come glielo dico in carcere! Naturalmente sono finita proprio al penale e adesso ne sono particolarmente soddisfatta. Dicotomia? E perché? Ne ricavo la conoscenza completa di quel particolare settore della giustizia che riguarda la pena. Uno sguardo a 360 gradi. Ah già, mi manca la galera! Hai ragione, non si sa mai nella vita, però dopo un anno che vengo qui ho imparato molto: cose che fuori uno neanche se le immagina. No, ho solo temuto un po’ la vostra reazione, ma a torto evidentemente, perché, fra noi, non è cambiato nulla. E poi, ora che indirettamente so che cos’è il carcere, prima di comminare una pena detentiva ci penso, ci rifletto a lungo. Purtroppo, il giudice ha dei limiti ben precisi, dettati dalla norma, e pochissima autonomia per muoversi all’interno di questa. Insomma, pena edittale meno attenuanti più aggravanti. Non puoi inventare niente, invece qualche volta ci vorrebbe più spazio per le pene alternative. Ti faccio un esempio: danneggiamento della cosa pubblica, da uno a quattro anni. Di solito sono ragazzate di soggetti incensurati, mi dispiace sporcargli la fedina penale. Però è giusto che capiscano la gravità del gesto, allora vorrei mandarli a spazzare le strade alle cinque del mattino: secondo me sarebbe più educativo, ma la norma non lo prevede. E, tutto sommato, per fortuna che c’è! Guai se non ci fosse: qualche volta va stretta, ma protegge l’imputato dall’arbitrarietà di chi è chiamato a giudicarlo. E protegge anche il giudice: Da quando sono stata nominata, ogni tanto non dormo. Decidere della vita di un altro è un peso che ti schiaccia: solo la norma ti rassicura, confermandoti che non potevi fare diversamente. Ma spesso non è abbastanza: ci si sente soli e il peso rimane. Il bilancio? Da insegnante, positivo. Da giudice è presto: sono solo pochi mesi. Una cosa ti posso dire, però. A me piace comunicare, parlare con la gente: quando giudico sono terzo, la comunicazione è tagliata, esclusa. Questo è un aspetto della funzione che non gradisco, quindi, da questo punto di vista, mi è più congeniale l’insegnamento. Sì, faccio anche la mamma e la moglie. Bene? Non lo so, ci provo. Forse dovresti intervistare mio marito e mio figlio”.

 

 

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