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"Più cura e meno custodia": la famiglia, gli affetti, la sessualità negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari
(Realizzata nel mese di maggio 2002)
A cura di Francesco Morelli
Ne abbiamo parlato con Massimiliano De Somma, psicologo, volontario nell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa
Una delle maggiori difficoltà, per il reinserimento delle persone internate, è costituita dal rifiuto dei familiari a riaccoglierle, in caso di dimissione dall’istituto. Ma esistono delle iniziative che coinvolgano le famiglie in un percorso di "nuova conoscenza", di riavvicinamento al loro congiunto internato? Esistono altre soluzioni, a parte il ritorno in famiglia, che possono permettere agli internati di lasciare l’istituto e di essere accolte in un ambiente "protetto"? Sarebbe davvero auspicabile poter operare in una direzione terapeutico-trattamentale di stampo sistemico-relazionale che coinvolgesse in primo piano le famiglie, il paese di appartenenza e, in senso allargato, la società tutta. L’attuale regolamento penitenziario non permette una interazione familiare che vada oltre i classici colloqui, da attuare secondo le classiche modalità dettate, in primis, dal bisogno della sicurezza. Con la dicitura di "terapeutiche" sono permesse, rispetto alle normali case di reclusione, solamente alcune telefonate in più, ma riguardo a progetti terapeutici di risocializzazione e di reinserimento in famiglia molto si dovrebbe attuare. Ecco perché sarebbe auspicabile una trasformazione ad hoc del regolamento penitenziario applicato agli O.P.G.. La sanitarizzazione di questi luoghi dovrebbe necessariamente passare attraverso uno slogan proponente "Più cura e meno custodia". Diverso è il caso di quelle famiglie che non vogliono più accettare il proprio congiunto ricoverato, una volta dimesso dall’istituto. A volte proprio perché il reato è stato commesso in famiglia (ma anche qui le ricerche nel campo della vittimologia, ed in particolare sulla relazione e mediazione vittima-carnefice, potrebbero aiutare), altre volte perché, per la famiglia, il congiunto recluso è fonte di guadagno e sostentamento, lì dove la sua infermità mentale totale produca una pensione di invalidità al 100% con accompagnamento, percepita dai familiari, gli stessi che, magari proprio per questo motivo, avevano pensato di denunciare il congiunto (forse realmente "matterello", ma in fondo pacifico) per molestie ed aggressioni in famiglia.
Da quel che si comprende leggendo "La storia di Nabuc", il giornale degli internati di Aversa, molti di loro hanno commesso dei reati a sfondo sessuale e tutto ciò che riguarda la sessualità ritorna in maniera un po’ ossessiva nei racconti di queste persone. Per loro ci sono dei trattamenti terapeutici specifici (sul tipo del Progetto WOLF per i pedofili)? La risposta è NO! I soggetti che commettono reati a sfondo sessuale (pedofilia, stupro, atti osceni in luogo pubblico ecc), vengono internati in O.P.G. solo se riconosciuti incapaci di intendere e di volere al momento della commissione del reato stesso, quindi, evidentemente affetti da disturbi mentali più o meno gravi. I trattamenti, soprattutto di tipo psicofarmacologico, vengono quindi realizzati, come per gli altri internati, in funzione della cura della patologia sottostante e non del reato commesso. Per quanto riguarda, invece, trattamenti di tipo psico-terapeutico, riabilitativi e risocializzanti, sicuramente di tipo più strettamente specialistico, devo riconoscere la impossibilità, allo stato attuale, della loro programmazione e realizzazione. Ribadisco che il mandato sociale dell’O.P.G. è quello della sicurezza sociale. Tutto quello che viene fatto in più per quanto riguarda la cura e la guarigione degli ospiti coatti non è richiesto, ed è possibile solo grazie all’apporto di singoli operatori volontari e all’impegno di una direzione sanitaria, prima che amministrativa o custodialistica, che vede, fortunatamente, un direttore medico psichiatra anziché burocrate.
"La storia di Nabuc" parla esplicitamente delle pratiche omosessuali che avvengono tra gli internati. Nelle carceri c’è molto più imbarazzo ad ammettere che esistano e, probabilmente, sono meno frequenti, tuttavia il fenomeno esiste e su di esso sarebbe necessario soffermarsi, quando trattiamo temi come la tutela della salute o la negazione degli affetti. Operando in un O.P.G., lei può confrontarsi con situazioni di disagio estreme (anche rispetto al carcere), sul piano della mancanza delle relazioni affettive e sessuali: che conseguenze provocano, a livello psichico e anche fisico? L’incidenza dell’affettività è fondamentale soprattutto nei processi di sviluppo e di crescita dell’individuo, fin dalla prima infanzia. Fin da questo periodo, la relazione affettiva madre-bambino risulta fondamentale per un sano accrescimento maturativo. Lì dove è carente o addirittura inesistente, lo sviluppo dell’emotività, della psicomotricità e del linguaggio e quindi del comportamento sociale e dell’identità, nonché della salute mentale dell’individuo, sono compromessi. Ne portano evidenti esempi le ricerche di noti studiosi nel campo della psicologia animale e comparata, nonché umana e sociale. Il rapporto di Spitz sulla sindrome presentata da bambini ricoverati in brefotrofio, in una condizione di vita carente di relazioni affettive, sostiene che, a lungo andare, lo sviluppo psicoaffettivo, motorio e comunicativo-sociale può essere seriamente compromesso se non vengono rapidamente stabilite o ripristinate profonde relazioni affettive fra il bambino e la madre (o altra figura significativa). Questo rapporto è solo uno dei tanti che tendono a dimostrare quanto, nello sviluppo della personalità, il passaggio dalla struttura organica anatomo-funzionale alla struttura psichica (cioè l’edificazione della persona) è determinato dall’organizzatore affettivo, ma soprattutto come nelle situazione di crescita in cui manchi o sia precaria una significativa relazione affettiva, vi sia uno sviluppo della personalità abnorme, patologico soprattutto in direzione antisociale. In questa ottica, dunque, secondo la quale la privazione, soprattutto per ciò che riguarda il campo delle relazioni affettive e sessuali (e in questo secondo caso basterebbe citare Freud per riempire pagine intere sugli effetti psicofisiologici conseguenti), porta verso il disagio e la malattia mentale, qualsiasi progetto terapeutico prima, e riabilitativo poi, non può e non deve assolutamente non prendere in considerazione la necessità di lavorare sulle relazioni affettive. Lì dove, poi, in particolare negli O.P.G., una terribile malattia mentale, quale la schizofrenia, depaupera principalmente l’affettività del soggetto colpito, che manifesta fra i sintomi principali proprio una anaffettività paralizzante e paradossale, in particolare nell’incongruenza tra situazione reale e manifestazione affettiva stessa, non si può prescindere dall’idea di incominciare a lavorare proprio da qui per innescare un efficace processo terapeutico di guarigione. E ancora, non si può negare l’affettività, lì dove si parla di "psicosi affettive" (quali la depressione, la mania e l’alternanza di queste due forme nella ciclotimia) per indicare gravi disturbi dell’umore, cui conseguono disturbi secondari del pensiero e del comportamento in consonanza dell’affetto. Alcuni fra i principali ricercatori, soprattutto nel campo della psicologia sistemico-relazionale, hanno da tempo ipotizzato nelle alterazioni comunicative e relazionali affettive la causa stessa della patologia schizofrenica. (…) Ciò non caratterizza esclusivamente la popolazione internata, bensì anche quella detenuta, lì dove, ad esempio, sindromi quali quella di "prisonizzazione" (termine coniato da Clemmer nel 1940) sono talora presenti con forme di modificazione della personalità e con sintomi di impoverimento intellettivo, emotivo, sensoriale e dell’identità, fra le cui cause sicuramente sono da annoverare una deprivazione psichica e fisiologica, ed anche affettiva e sessuale.
La giornata di studi "Carcere: salviamo gli affetti" ha avuto lo scopo di rilanciare il dibattito sul diritto all’affettività per le persone detenute (e internate). Quali altre iniziative si potrebbero proporre? Secondo lei, chi è più necessario "convincere" perché questo diritto sia riconosciuto: gli operatori penitenziari, i politici, i magistrati, i giornalisti? La conoscenza e la comunicazione. Credo che la conoscenza e la comunicazione possano fare molto, in tutti i campi. Bisognerebbe divulgare e far conoscere all’esterno quanto più possibile della realtà del mondo circoscritto delle istituzioni totali. La "convinzione", con tutte le accezioni da attribuire a questa parola, passa necessariamente attraverso questi processi. Un buon inizio potrebbe essere la divulgazione del film "Fine amore: mai" proiettato durante la giornata di studi. L’ho trovato geniale e di forte impatto emotivo, ed una comunicazione che passa attraverso l’emozione è sicuramente una comunicazione efficace e di facile comprensione, oltre che trasformativa. È encomiabile lo sforzo che stanno facendo, inoltre, i molteplici giornali penitenziari, ma la loro divulgazione è limitata, spesso, agli addetti ai lavori. La società teme di conoscere una realtà di cui ha paura perché vi ha gettato la parte oscura di se stessa. Le istituzioni totali (e con questo termine intendo indicare carceri, O.P.G., manicomi, ecc.), secondo un processo psicologico di tipo scissivo-proiettivo, sono contenitori di aggressività e follia terrificante, seno cattivo gonfio del male della società. Un processo di rimozione e repressione porta al disinteresse ed alla disinformazione per la loro realtà. Finché il male starà tutto rinchiuso lì, il resto della società sarà buono e salvo. L’apertura delle istituzioni totali all’esterno, in una permeabilità direzionale fuori-dentro, mi sembra un’altra ottima occasione di conoscenza e di trasformazione, nonostante le grosse difficoltà per attuarla, soprattutto a causa di quella solita parola d’ordine che inneggia prima di tutto alla sicurezza.
Che cosa significa parlare di "affettività" rispetto agli internati negli OPG? Che tipo di relazioni familiari riescono a mantenere oggi e che cosa si potrebbe auspicare per migliorare le loro condizioni da questo punto di vista? Le relazioni affettive degli internati in O.P.G., proprio a causa della loro malattia debilitante principalmente la sfera affettiva, vanno stimolate. Mi ripeto quando sottolineo che la cura e la guarigione devono, in un’ottica che non può non essere sistemica, passare attraverso le relazioni affettive, soprattutto primarie quali quelle della famiglia. Attualmente le relazioni familiari di alcuni sono limitate a semplici colloqui, spesso deliranti e deludenti a causa delle condizioni psichiche dell’internato. Per altri sono totalmente inesistenti, essendo stati abbandonati da tutti, o a causa della lontananza dal proprio luogo di residenza. Non dimentichiamo che, al contrario degli istituti di pena, gli O.P.G. in Italia sono solo 6 e mal distribuiti. Soprattutto i pazienti sardi sono maggiormente penalizzati, dovendo affrontare viaggi insostenibili per far visita ad un proprio congiunto internato a Napoli, ad Aversa o peggio ancora a Reggio Emilia o a Castiglione, e per di più solo per poche ore. Anche per questo bisognerebbe pensare ad una regionalizzazione di questo tipo di istituti, così da permettere una migliore distribuzione sul territorio. La realizzazione di un O.P.G. per regione porterebbe ad una migliore distribuzione sul territorio del totale complessivo di folli-rei, con un vantaggio anche dal punto di vista sanitario e di presa in carico delle rispettive ASL di appartenenza. Inoltre, il basso numero di internati per O.P.G. che si verrebbe a creare, permetterebbe un maggiore sviluppo delle potenzialità terapeutico-trattamentali. Infine, le relazioni affettive, fondamentali nel progetto terapeutico, verrebbero favorite e potenziate e tutto ciò permetterebbe agli O.P.G. di diventare veramente alti centri di specializzazione psichiatrica, da utilizzare anche come luoghi di studi e di ricerca, così come da tempo, con innumerevoli sforzi, cerca di fare l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Aversa.
Lei parla di "decentrare" gli O.P.G. nelle regioni. C’è chi, però, chiede invece la loro chiusura. Che ne pensa di questa ipotesi? Non sono d’accordo con la proposta di chiusura degli O.P.G. Se l’alternativa, poi, è quella di sbattere tutti in carcere, eliminando il principio della "incapacità di intendere e di volere", allora lo sono ancora meno. Bisogna imparare a distinguere la malattia mentale dai malati di mente, e i malati vanno curati (e forse anche i delinquenti comuni). Il loro gesto criminoso è conseguenza di un disequilibrio mentale grave, che va, per quanto possibile, riequilibrato. Io trascorro 4 giorni su 7 in una realtà di cui, mi rendo conto, fuori non si ha neanche una vaga idea, e dove la realtà supera la più fervida fantasia, e credetemi, è difficilissimo anche solo pensare ad un progetto per i malati cronici e gravi. Come si pensa di riuscire a gestirli se non in un luogo specializzato di cura e di ricerca? È difficile avvicinarli, comunicare con loro, è difficile, a volte, addirittura dare loro cure adeguate ed efficaci. Alcuni sono immuni agli psicofarmaci, assuefatti a tal punto che nulla più riesce a calmarli o ad attenuare i loro sintomi più bizzarri. Allora bisogna programmare periodi di "washout", durante i quali non viene somministrato alcun farmaco. Chiedete agli agenti di Polizia penitenziaria, che tra l’altro avrebbero bisogno di una formazione mirata per operare in questi luoghi (ma questa è un’altra storia), come fanno a far ingerire una pillola ad un cronico "indemoniato" e con il vizio di "cavar occhi" e in quanti devono intervenire per evitare che, in stato di agitazione, faccia danni irreversibili a cose, a persone e a se stesso. L’unica proposta di legge che ho trovato abbastanza valida è stata quella del Senatore Milio, che fra l’altro ipotizza l’applicazione di una misura di sicurezza minima programmata in base al tempo previsto per la guarigione del "folle-reo" e non sulla base del reato commesso (attualmente si applica un minimo di Misura di Sicurezza di 2, 5 o 10 anni, sulla base della gravità del reato e non sulla valutazione del disturbo mentale o sulla previsione di durata della pericolosità sociale del soggetto o ancora sulla previsione dei tempi necessari alla sua cura e alla guarigione). Ma di questo potremmo tornare a parlare prossimamente. Il discorso della sanitarizzazione e della regionalizzazione degli O.P.G. viene, purtroppo, recepito come una trasformazione degli O.P.G. in quelli che sono stati i vecchi manicomi, con la paura di tornare a fare un passo indietro. Non credo si intenda questo quando si parla di "sanitarizzazione". Anche i vecchi manicomi avrebbero avuto bisogno di una grossa e radicale trasformazione sanitaria: tutto sono stati, fuorché luoghi di cura e guarigione. Mi ripeto quando affermo che l’O.P.G. deve trasformarsi per affrontare con grossa specializzazione i casi limite della malattia mentale. La maggior parte dei casi attuali, quelli dei reati bagatellari e delle disfunzioni mentali acute e temporanee o comunque leggere, potrebbero benissimo essere gestiti sul territorio o domiciliarmente, ma la doppia etichetta che costoro portano appiccicata sulla fronte, quella di matti e di criminali, ne farà per sempre degli emarginati, matti, cattivi e pericolosi.
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