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Dal momento in cui entra in carcere un detenuto sparisce completamente dalla società come genitore
(Realizzata nel mese di maggio 2002)
A cura di Marino Occhipinti
Noi cerchiamo di fargli recuperare il proprio ruolo genitoriale. Ce ne parla Lia Sacerdote, responsabile dell’Associazione "Bambini senza sbarre"
Lia Sacerdote è la responsabile dell’Associazione "Bambini senza Sbarre". L’impegno di "Bambini senza Sbarre" è di individuare un percorso d’accompagnamento del minore e dei genitori detenuti nella loro esperienza di separazione e nella necessità di mantenere viva la relazione tra di loro. Per questo è indispensabile trovare un tempo e uno spazio adeguato che rendano possibile questo percorso. Ed è di questo che abbiamo parlato con Lia Sacerdote.
Quando nasce l’associazione "Bambini senza Sbarre" e con quali finalità? Dunque, "Bambini senza Sbarre" in realtà non è ancora nata come associazione autonoma, ma la sua data di nascita è prevista entro le prossime settimane. In questo momento è ancora un gruppo all’interno dell’Associazione Mario Cuminetti, però già da tempo svolge una sua attività autonoma. Sono due interventi che vanno avanti parallelamente: il Cuminetti si occupa principalmente di attività culturali, da cui comunque sono emerse le esigenze dei detenuti rispetto al problema dei figli, "Bambini senza Sbarre" si occupa del rapporto genitore detenuto e figlio con le finalità del mantenimento della relazione nonostante la detenzione, del legame del figlio con il proprio genitore detenuto, un diritto del figlio e un diritto – dovere del genitore detenuto.
Ma com’è iniziata quest’attività, chi ha avvertito questa necessità, ci sarà stato un promotore ad indirizzarsi proprio nell’ambito del disagio minorile connesso ai figli dei detenuti? La necessità di occuparsi di questo problema è emersa proprio durante il lavoro culturale in biblioteca, l’attività storica che il "Cuminetti" svolge dall’85 a San Vittore. Ci siamo resi conto che uno dei problemi centrali della persona detenuta è proprio la separazione dagli affetti e dalla famiglia e dai figli in particolare. Il dolore per la separazione dai figli e tutti i problemi collegati si manifestavano con costante drammaticità. Io insieme ad altri del gruppo ci siamo sentiti fortemente motivati a rispondere a questa richiesta d’aiuto, richiesta che, secondo noi, non può avere una risposta generica di "vicinanza" ma di un intervento qualificato e di grande responsabilità. Personalmente ha significato la possibilità di coniugare un mio interesse professionale psicopedagogico all’intervento volontario nel carcere, la decisione di dedicarmi a questo in modo totale è stata per me una conseguenza irrinunciabile. Da lì è partito un impegno preciso che ci ha portato a "Bambini senza Sbarre".
L’impegno della vostra associazione, proprio perché operate in un contesto di notevole disagio sociale, assorbirà certamente non indifferenti risorse economiche: come riuscite a far fronte alla questione legata ai finanziamenti, dai quali dipende la sopravvivenza delle vostre iniziative? Ecco, questo è un punto importante. Finora siamo riusciti a conciliare la gratuità del lavoro volontario con l’intervento specialistico e professionale. "Bambini senza Sbarre" ha avuto diverse fasi di sviluppo, attualmente stiamo entrando in una fase più strutturata e abbiamo cercato finanziamenti: la Fondazione Bernard van Leer, una fondazione olandese di La Haye che ha come obiettivo quello di finanziare attività che si occupano di bambini in difficoltà in tutto il mondo, dovrebbe offrirci il sostegno economico necessario per assicurare la continuità all’iniziativa e un compenso economico per gli operatori. Alcuni di noi infatti oramai si dedicano a tempo pieno all’attività, ma continuerà ad essere determinante il contributo dei volontari che dovranno comunque rispondere agli stessi criteri di qualità e competenza degli operatori, un "volontariato professionale".
Lei parlava appunto di personale volontario ma estremamente qualificato. Operate in un contesto sociale variegato e difficile proprio perché si toccano i sentimenti e le sofferenze altrui, sia dei genitori che dei figli: vi avvalete di figure professionali, come psicologi, assistenti sociali, medici? Si, questo è sempre stato il nostro orientamento. È necessario chiarire che il nostro comunque è un lavoro di mediazione e di sostegno psicopedagogico e non terapeutico, l’eventuale intervento psicologico specialistico entra in gioco se necessario.
Insomma, è un campo dove non si può improvvisare… No, non si può improvvisare, è un campo molto delicato e di grande responsabilità. Spesso succede che il volontariato sia più una questione di buon cuore che di preparazione. Invece bisogna appunto essere preparati in quest’attività e anzi uno dei capitoli che noi riteniamo più importanti è quello di una formazione continua, una supervisione costante del nostro lavoro.
Quali sentimenti riescono ad esprimere i genitori detenuti e che stimoli hanno a cambiare vita, proprio per l’amore che vogliono ai figli e quindi per consentire loro un futuro più sereno? Questa potrebbe essere una risposta quasi ovvia, quale stimolo maggiore di un figlio? In realtà il più delle volte è proprio così e io posso confermarlo come testimone. Effettivamente un figlio è uno stimolo per avviare un processo di presa di coscienza personale e di assunzione di responsabilità a cui si arriva gradualmente. È uno degli aspetti del nostro lavoro, il carcere è un momento, questo è un po’ incredibile a dirsi, ma io l’ho visto diverse volte, è uno spazio temporale che può essere usato per un recupero di una genitorialità che spesso aveva dei problemi anche prima del carcere e deve ricostruirsi. Il carcere poi aggiunge a questa assunzione di responsabilità, che è un dovere, il valore forte di essere un diritto e questo rappresenta una molla in più per utilizzare questo tempo, viverlo, progettando un futuro con i propri figli.
Ecco, a proposito di questo, cercate di intervenire anche sulla progettualità futura dei detenuti e dei loro familiari, o lasciate questo compito esclusivamente a chi vi è naturalmente preposto, come educatori, psicologi, assistenti sociali? Il detenuto sparisce completamente come genitore dal momento in cui entra in carcere, il nostro intervento, quando ci viene chiesto, è proprio quello di tentare di fare "riapparire" questo genitore e metterlo in collegamento con tutti i soggetti coinvolti nella sua storia di genitore, scuola, assistente sociale del figlio, eventuale psicologo del figlio, comunità in cui è ospitato o famiglia affidataria e spesso lo stesso tribunale. Tutto questo perché sia in prima persona il detenuto ad assumersi la responsabilità della propria progettualità futura.
Una statistica ci dice che il 30% dei figli dei detenuti finisce a sua volta in carcere: emulazione, ribellione, disagio, emarginazione o cos’altro ancora? Alla luce della vostra esperienza, cosa proponete per ridimensionare il fenomeno? Ecco, è difficile rispondere a questa domanda perché rappresenta per noi anche un’ipotesi di lavoro. Certamente il figlio di un genitore detenuto ha più probabilità di seguire la stessa strada perché rispetto allo stesso coetaneo a rischio ha opportunità in meno, ma soprattutto diverse difficoltà in più da affrontare, fosse solo il superamento dell’emarginazione sociale legata alla carcerazione del proprio genitore. La nostra è indubbiamente una meta ambiziosa, ma pensiamo che attraverso l’intervento che proponiamo ci sia come finalità ultima proprio quella di un lavoro di prevenzione sociale.
Anche per il futuro, quindi, il lavoro che fate non è finalizzato solo all’adesso, ad un’ora passata più dignitosamente o con maggior spensieratezza, ma cercate di porre anche le basi per un futuro migliore in seno alla famiglia. Questa sarebbe la nostra speranza più grande, insomma. Quindi, voglio dire sostegno, un sostegno fuori e dentro può forse interrompere il destino di carcere che le statistiche ci offrono come spesso l’unico possibile…
Un argomento che forse esce un po’ dal tema principale delle relazioni genitori detenuti - figli, ma sempre di minori si tratta: come giudica il progetto di riforma della giustizia minorile, che prevede l’inasprimento delle pene e il trasferimento nelle carceri per adulti già dal diciottesimo anno di età, anziché i ventuno attuali? Noi siamo assolutamente contrari, spaventati, e speriamo di poter unirci ad altre forze, che si possa fare qualcosa perché questo non avvenga. Il carcere è una condizione estrema che può solo peggiorare la situazione di questo giovane adulto.
Infatti ci sono anche carceri per adulti, come del resto questo di Padova, che dispongono di un’apposita sezione, chiamata proprio giovani adulti, per ragazzi fino a 25 anni di età. È un po’ la conferma di quanto lei sostiene, e penso che l’amministrazione penitenziaria abbia operato questa scelta a ragion veduta, forte delle esperienze, appunto. Sì, il motivo è reale, concreto, davanti agli occhi di tutti.
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