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Se una persona condannata sta fuori del carcere, la sua non è una non-pena Non sottovalutiamo l’allarme sociale Gli operatori penitenziari lavorano per contribuire ad accrescere la sicurezza della comunità locale nella quale operano
di Chiara Ghetti Responsabile dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna di Venezia, Treviso, Belluno
Come responsabile di un Ufficio di Esecuzione Penale Esterna, i dati che posso mettere a disposizione si riferiscono alle misure alternative alla detenzione: sto quindi parlando di affidamento in prova al servizio sociale, di semilibertà e di detenzione domiciliare. La situazione, per quanto riguarda il primo semestre 2008, è questa: a livello nazionale sono state seguite complessivamente 9.406 persone in misura alternativa, di cui 5.264, più della metà, in affidamento in prova al servizio sociale. Questa misura è considerata la più ampia perché, pur prevedendo una riduzione della libertà, si modula in modo tale da consentire una vita familiare, lo svolgimento di una attività lavorativa e il mantenimento di relazioni sociali; la semilibertà, invece, richiede di rientrare, la sera, all’interno del carcere; la detenzione domiciliare, infine, comporta l’obbligo di restare presso il proprio domicilio. Nel territorio del Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, sono, nello stesso periodo, 278 le persone in affidamento in prova al servizio sociale, 103 quelle in semilibertà e, infine, 308 in detenzione domiciliare. Oggi gli operatori penitenziari si stanno interrogando circa la situazione di allarme sociale che, seppur enfatizzata dai media, non va sottovalutata e che pone il problema di come contribuire ad accrescere la sicurezza della comunità locale nella quale si opera. In altri termini, anche questi operatori si interrogano su come è possibile prestare attenzione alla domanda di sicurezza che pone una comunità, senza banalizzarla o considerarla un problema di ordine pubblico[1] Come contribuiscono, allora, gli operatori penitenziari ad accrescere la sicurezza di una comunità locale? Come si concilia la domanda di reinserimento sociale di una persona condannata, che rappresenta un dettato costituzionale, con l’esigenza di una comunità locale di essere tutelata rispetto al rischio di contaminazione, di aggressione da parte di persone che hanno commesso uno o più reati? Ma vorrei procedere con ordine: innanzitutto, che cosa preoccupa l’opinione pubblica allorché si parla di persone condannate che stanno fuori del carcere? C’è ancora l’idea, a distanza di oltre trent’anni dalla riforma penitenziaria, che la pena dimori unicamente all’interno del carcere e che, se una persona condannata sta fuori del carcere, si sia in presenza di una non-pena. Come se si trattasse di misure alternative alla pena e non, come in questo caso, di misure alternative alla detenzione, la qual cosa è ben diversa! E lo colgono con chiarezza le decine e centinaia di persone condannate, molte delle quali ho incontrato e incontro tuttora allorchè si dà inizio all’affidamento in prova al servizio sociale che, come noto, prevede un verbale sottoscritto avanti al direttore dell’ufficio di esecuzione penale esterna (U.E.P.E.). Alcuni arrivano al servizio consapevoli che la misura comporta una riduzione della libertà del cittadino e che questo comporterà una modifica dei propri stili di vita; altri, invece, si rendono conto, solo in quel momento, che la misura dell’affidamento, pur consentendo di evitare la detenzione, comporta diverse limitazioni alla libertà; in altri termini contiene, essa stessa, una certa dimensione afflittiva. È dunque necessario, innanzitutto, adoperarsi, ciascuno per quanto possibile e al proprio livello, per superare l’idea che una misura alternativa alla detenzione significhi una non pena. Per questo, gli operatori penitenziari sono impegnati a veicolare un’immagine diversa in ogni possibile occasione: nell’incontrare datori di lavoro, amministratori locali, giornalisti, nel partecipare ad incontri nelle scuole… Un secondo aspetto riguarda il fatto che le analisi sommarie di fatti di cronaca e molti commenti che le accompagnano creano allarme sociale, una percezione di insicurezza diffusa e contagiosa che, seppur spesso ingiustificata e irragionevole, diventa reale nelle sue conseguenze. Si restringono, così facendo, gli spazi concreti per costruire percorsi di reinserimento, quasi che questi fossero possibili soltanto in presenza di un rischio pari a zero. Se è vero, come scrive Bauman, che “l’inguaribile esperienza dell’insicurezza è un effetto secondario della convinzione che – con le capacità adatte e gli opportuni sforzi – si possa ottenere una completa sicurezza” [2] tuttavia, il tema della sicurezza richiede di essere affrontato anche dagli operatori sociali e, in modo particolare, da coloro che si occupano di persone che, per differenti motivi, esprimono un disagio sociale che, provocando l’ambiente circostante, può rappresentare una minaccia e suscitare un senso di insicurezza. Ma cosa si intende per sicurezza o meglio: a quale idea di sicurezza facciamo riferimento? Gli operatori che lavorano negli U.E.P.E. si riferiscono, in generale, ad un’idea di sicurezza che rimanda al riconoscimento di regole, di un’autorità e della possibilità di ristabilire legami di fiducia: “…gli interventi del servizio sociale (…) sono prioritariamente caratterizzati dall’offerta al soggetto di sperimentare un rapporto con l’Autorità basato sulla fiducia nella capacità della persona di recuperare il controllo del proprio comportamento senza interventi di carattere repressivo”.[3] Durante l’attività di osservazione e, in modo particolare, nell’attività di indagine sociofamiliare che gli assistenti sociali degli U.E.P.E. svolgono, anche con la collaborazione degli psicologi, si presta attenzione agli elementi del contesto, per comprendere chi può offrire un sostegno per un percorso di reinserimento sociale della persona condannata, chi pone resistenze, seppur legittime, e come queste possono essere superate. Senza minimizzare. Penso, ad esempio, a quelle situazioni in cui la condanna è legata a reati in ambito domestico, ove il diritto al reinserimento sociale può confliggere con il diritto di uno o più familiari ad essere tutelati nel poter confidare che la loro vita non sarà più oggetto di soprusi. Durante la misura alternativa e, in particolare, nel corso dell’affidamento in prova al servizio sociale, gli assistenti sociali svolgono una funzione di aiuto e controllo[4], sostengono le persone nell’affrontare le difficoltà di un “reinserimento sociale in esecuzione penale”. Questa attività, tuttavia, richiede di prestare attenzione anche ai segnali dell’ambiente familiare e sociale che, legittimamente, può esprimere preoccupazione e resistenze. Le domande da porsi sono: come sostenere una persona condannata in modo tale che possa continuare a far parte di una certa comunità? È possibile, in queste circostanze, offrire alla comunità locale elementi credibili di rassicurazione? E se sì, come farlo, senza minimizzare il rischio? Innanzitutto, chiamandolo per nome, valutandolo, per quanto possibile, nei suoi diversi aspetti, ascoltando le parole e i significati di quanti si incontrano nel percorso di accompagnamento sociale[5] della persona condannata, per costruire legami di fiducia e accrescere le relazioni sociali, nel segno della reciprocità e della solidarietà, in modo da ridurre il più possibile espressioni del tipo: “Io, con quelli lì, non voglio aver niente a che fare!”. Laddove, tuttavia, gli operatori rilevano elementi che contrastano con le regole stabilite dalla magistratura, si rende necessario segnalarli, contestualizzandoli, in modo da consentire una presa di decisione da parte della magistratura stessa. Infine, gli assistenti sociali degli U.E.P.E. offrono un contributo nel restituire alla Magistratura di Sorveglianza, a conclusione dell’affidamento in prova al servizio sociale, il senso di un processo, di un percorso, in modo tale da consentire alla magistratura di procedere con la declaratoria di estinzione pena. Certo, una qualche restituzione dovrebbe poter avvenire anche verso la comunità locale. Quali sono, ad esempio, gli elementi che destano preoccupazione nell’opinione pubblica? In primo luogo, l’idea che le persone in affidamento in prova al servizio sociale commettano nuovamente dei reati. Ebbene, nel corso del primo semestre 2008, la commissione di reati durante la misura, circostanza che desta comprensibilmente allarme sociale, si è verificata per 42 persone, cioè lo 0,45 per cento; siamo attorno allo zero. Un altro motivo di revoca, da parte della Magistratura di Sorveglianza, dell’affidamento in prova al servizio sociale è quello dell’irreperibilità, motivo che crea, comprensibilmente, un forte allarme sociale. Nel corso del primo semestre 2008 si sono rese irreperibili, a livello nazionale, 10 persone, pari allo 0,11 per cento. Complessivamente, se si considerano anche le revoche per nuove posizioni giuridiche (ovvero le revoche disposte dalla magistratura perché, nel frattempo, è arrivata una sentenza per reati commessi prima dell’inizio della misura, a seguito della quale il limite dei tre anni, previsto per fruire dell’affidamento, viene ad essere superato) ed anche quelle per un andamento negativo, la percentuale di revoche sale appena al 4,87 per cento. Questi dati segnalano, pertanto, una altissima tenuta di questa misura alternativa. Un altro elemento, indicatore dell’esito di questa misura alternativa, è la recidiva, ovvero, la condizione che viene a crearsi allorché una persona, già condannata, commetta dei nuovi reati dopo la misura alternativa. A questo proposito, è stata pubblicata una ricerca[1], condotta dalla Direzione Generale dell’Esecuzione Penale Esterna, su un campione di 8.800 persone in affidamento in prova al servizio sociale, che hanno concluso l’affidamento nel 1998. Si è andati a verificare, a distanza di sette anni, quante tra queste fossero nuovamente incorse nella commissione di reati. Il risultato è che soltanto il 19 per cento di quanti avevano scontato la condanna con la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, ha commesso un reato nei successivi sette anni; se si prendono, invece, in considerazione le persone che sono state detenute sino alla fine della pena, il dato relativo alla recidiva è pari al 69 per cento. Questi dati offrono, dunque, alla riflessione elementi di particolare interesse. Dopo queste considerazioni, son d’accordo con quei colleghi [2] che ritengono che bisogna dotarsi ulteriormente di modalità per far sì che i percorsi e i programmi di reinserimento sociale, che gli operatori penitenziari propongono alla Magistratura di Sorveglianza, presentino un rischio contenuto per la collettività, la quale chiede di essere tutelata dal pericolo di essere vittima di un reato. I dati sopra indicati, dunque, non esimono ciascuno di noi, e in particolare gli operatori penitenziari, dall’interrogarsi su quali possano essere da un lato, le modalità per migliorare le opportunità d’inclusione sociale delle persone condannate e, dall’altro, l’apporto che viene dato ad una comunità locale per riflettere sul significato dell’illecito, sulle regole che si è data, e sulla loro funzione e, infine, per accrescere, in modo realistico, il senso di sicurezza.
[1] Franca Olivetti Manoukian, “La domanda di sicurezza può non investire i servizi?” in Animazione Sociale, maggio 2008. [2] Zygmunt Bauman, Fiducia e paura nella città, Milano, 2005; [3] Dall’art. 118 del Regolamento di esecuzione - D.P.R. n. 230/2000. [4] L’art. 47 comma 9 della Legge 354/75 prevede che: “Il servizio sociale controlla la condotta del soggetto e lo aiuta a superare le difficoltà di adattamento alla vita sociale, anche mettendosi in relazione con la sua famiglia e con gli altri suoi ambienti di vita”. [5] Patrizia Sartori, “Empowerment sociale” in Dal Pra Ponticelli (a cura di), Dizionario di servizio sociale, Roma, 2004; [6] Fabrizio Leonardi, “Le misure alternative alla detenzione tra reinserimento sociale e abbattimento della recidiva” in Rassegna Penitenziaria e Criminologica, n. 2/2007. [7] Sebastiano Zinna, “Un nuovo sistema penitenziario, l’evoluzione che mi attendo” in notizie Ristretti Orizzonti del 23 settembre 2008. È importante che Pietro Maso sappia ritrovare non solo il senso della legalità, ma anche la misura di ciò che è positivamente umano Dopo che ha liberato in sé la bestia che, nell’incarnazione che l’uomo ne dà, a volte è la più feroce, ora può mostrare, a se stesso e alla società che parzialmente lo riaccoglie, chi sia infine diventato, quale cammino abbia percorso
di Gianfranco Bettin sociologo e scrittore
La polemica sulla semilibertà concessa a Pietro Maso, il ragazzo che anni fa con altri tre coetanei ha ucciso il padre e la madre per avere l’eredità, è probabilmente inevitabile. La sua storia è talmente estrema, la sua colpa così al limite del comprensibile stesso, l’eco che ha suscitato ancora non spenta malgrado i diciassette anni trascorsi dal delitto, che era prevedibile che una notizia del genere colpisse l’opinione pubblica e provocasse reazioni critiche. Eppure, se c’è una storia che mette alla prova ciò che la nostra Costituzione prevede, e cioè che il carcere, la pena, siano finalizzati al recupero del condannato, questa è proprio la storia di Maso. Entrato in carcere giovanissimo, per quindici anni Pietro non ha avuto neanche mezza giornata di permesso, e le pochissime godute dopo di allora le ha trascorse in una comunità di recupero. Seguito da vicino da persone sensibili e accorte e da operatori capaci, ha trascorso tutti questi anni conservando sempre un atteggiamento sobrio e riservato. Non ha giocato a fare il personaggio, come avrebbe potuto e come gli è stato spesso proposto (anche in cambio di lauti guadagni, oltre che di una visibilità che sempre, infine, paga comunque, in un Paese volgare, pettegolo e morboso come spesso è il nostro). Al contrario, è sembrato, sia pure faticosamente e, probabilmente, con sofferenza interiore, guadagnare una sorta di equilibrio, di maturità. Ora, appunto, dopo molti anni, si prospetta per lui quella finestra di opportunità, quella mezza libertà – se può esistere una libertà dimezzata – in cui mettere alla prova se stesso, in cui mostrare a se stesso e alla società che parzialmente lo riaccoglie chi sia infine diventato, quale cammino abbia percorso. È alla luce di quanto prescrive la Costituzione, ma anche di quanto è opportuno concretamente fare, che le polemiche non hanno in realtà gran senso. Se, infatti, la reazione emotiva di molta gente è appunto comprensibile, non lo sono affatto le strumentali polemiche sollevate da chi dovrebbe avere ben chiaro quanto prescrive la nostra Carta fondamentale e cosa è davvero utile fare per preparare il ritorno alla vita comune di chi, comunque, fra non molti anni (avendo ormai scontato la gran parte della pena) uscirà dal carcere. La semilibertà è, dunque, anche un mezzo per far riprendere una strada normale a un reo che ha scontato in gran parte la condanna e che non dovrebbe essere rigettato fuori senza una preparazione adeguata, che riguarda in primo luogo lui, ovviamente, ma che non può essere elusa dalla stessa realtà esterna. In poche parole, è meglio che ci si riabitui tutti all’idea che Pietro Maso prima o poi – ormai abbastanza “prima” che poi – tornerà libero ed è meglio per tutti che ciò avvenga con gradualità e come compimento di un percorso evolutivo, di maturazione, piuttosto che al mero termine di un tempo di reclusione trascorso senza cambiamenti e concluso senza prospettive. Il minimo che ci si possa attendere da questa prova è che Maso sappia ritrovare non solo il senso della legalità ma anche la misura di ciò che è positivamente umano, dopo che ha sperimentato in sé, anzi, dopo che ha liberato in sé la bestia che, come sappiamo, nell’incarnazione che l’uomo ne dà a volte è la più feroce. Se, poi, la storia sarà anche una bella e importante storia di redenzione, ebbene, ancor meno avranno avuto senso le polemiche e i timori e saremmo di fronte a ciò che, davvero, di più felicemente umano, e di più coerente con le leggi supreme della nostra civiltà, può accadere. Eredi da Pietro Maso a Erika e Omar
di Gianfranco Bettin
Io ho pubblicato un libro che riguarda Pietro Maso, ma anche altri giovani protagonisti di reati gravissimi: Erika e Omar che hanno ucciso la madre e il fratellino di Erika, per rabbia probabilmente. Sono delitti molto diversi, tremendi entrambi, molto diversi perché Pietro Maso uccideva per avere delle cose, Erika e Omar hanno ucciso “per essere liberi”, non riuscivano ad immaginarsi un altro modo per essere liberi e per vivere da soli autonomamente, e hanno finito per commettere questo delitto tremendo. Ma se noi li inchiodassimo per sempre a questa storia, in qualche modo inchioderemmo anche una parte della nostra società per sempre, quindi abbiamo un doppio problema, capire che cosa è successo, e capire cosa succede dopo, e per esempio la scrittura, l’arte hanno il compito di raccontarlo. Diciamo allora che la nostra parte emotiva è colpita violentemente, la nostra parte intellettuale, che ragiona, ha invece il compito di dire: bene, cerchiamo di capire cosa è successo, e cerchiamo di vedere cosa succede adesso, a loro, alle vittime, che se sono sopravissute hanno bisogno di essere risarcite, riaccompagnate a superare le paure che rischiano di restare per sempre, ma anche cosa succede alla nostra società, alla nostra comunità. Quindi il compito di chi racconta questi episodi, di chi si interroga su cosa succede dopo questi episodi è molto importante, per cui è molto importante capire quali risorse una società mette a disposizione per fare questo ragionamento, per ragionare su queste esperienze, ma anche poi per agire concretamente. Questo poi è il ruolo degli Enti locali, di chi amministra la giustizia, dei volontari, ma è anche un compito che abbiamo in qualche modo tutti. Informiamo di più sul senso dei permessi premio In galera si disimpara a vivere fuori in mezzo alla gente libera Se avessi dovuto affrontare tutti quei cambiamenti e quei problemi della vita fuori in un solo botto, tutti assieme, penso sarebbe stata molto, ma molto più dura che non farlo passo passo, con i primi permessi
di Andrea Andriotto
Era la Pasqua del 2004 quando, dopo quasi nove anni ininterrotti di carcere, ho avuto la possibilità di metter piede fuori dalla galera. Il Magistrato di Sorveglianza, infatti, per la prima volta mi aveva concesso un permesso premio da trascorrere con la mia famiglia. Fu un Evento, un vero e proprio avvenimento, sia per me, sia per tutta la mia famiglia che per l’occasione si riunì e per tutto il tempo, dieci ore, mi ricoprì di attenzioni, cercando di dimenticare il carcere, il dolore, il tempo trascorso e tutto ciò che mi ero perso in quegli anni vissuti fuori dal mondo. È passato un po’ di tempo da quel giorno, ma lo ricordo sempre come fosse ieri. Fu un rimescolarsi continuo di emozioni: eccitazione, trepidazione, commozione, tensione, nervosismo, gratificazione, felicità, piacere… impulsi che, così, concentrati e tutti assieme, non ricevevo da tempo. L’ultima volta che ero stato a casa mia, per radunare tutta la mia famiglia bastava un tavolo con sei sedie: eravamo quattro figli e i genitori. I miei fratelli, tutti più grandi di me, non avevano ancora messo su famiglia, e non c’era ancora nessuno che potesse chiamare noi zii, o i miei genitori nonni. Col passare degli anni, invece, per fortuna, i miei fratelli si sono tutti sposati e nel 2004, nove anni dopo, io ero diventato zio di sei marmocchi. Sì, certo, vivendo in carcere avevo comunque avuto modo di sapere come si stava evolvendo la vita là fuori, e dai racconti dei miei genitori o dei miei fratelli, avevo vissuto anch’io tutte le varie tappe: preparativi, matrimoni, gravidanze, battesimi, primi giorni di scuola. Ma, stranamente, per me i miei fratelli erano rimasti solo i miei fratelli, e i miei genitori erano esclusivamente i genitori miei e dei miei fratelli. Quel giorno, invece, in quella sala da pranzo dove ero cresciuto per i primi vent’anni della mia esistenza, mi resi conto realmente per la prima volta di quanto tempo fosse passato dal giorno del mio arresto. Per riunire tutta la “mia” famiglia, non bastava più un tavolo con sei sedie. In giro per casa c’erano delle piccole creature che giocavano e scalpitavano come fossero a casa loro, e chiamavano me zio e nonni i miei genitori. Caspita, quanto tempo era passato! Dopo quel primo permesso per fortuna ce ne furono molti altri e col passare del tempo capii che, pur essendo cambiate parecchie cose, pur non avendo più gli stessi ruoli di dieci anni prima, quella era pur sempre la “mia famiglia”, e pian piano ho cercato di ri-cominciare a ri-conoscere i miei cari nei loro nuovi ruoli. Nuovi per me, ovviamente. Passò un anno prima che fosse fatta una nuova proposta per allargare il mio percorso di reinserimento. La direttrice di Ristretti Orizzonti, infatti, si era data da fare e mi aveva proposto per un lavoro da svolgere all’esterno del carcere. Così, dopo dieci anni ebbi la possibilità di reinserirmi nel mondo del lavoro. Il mio programma prevedeva ogni giorno l’uscita dal carcere per recarmi sul posto di lavoro e la sera poi rientravo a dormire in carcere. Aspettavo da tempo una proposta del genere, e ovviamente non esitai un attimo ad accettare. Mi rendevo conto che tornare a vivere là fuori dopo così tanto tempo non sarebbe stato facile, ma mi sentivo pronto per qualsiasi sfida. E poi a quel tempo ero anche convinto di aver imparato molto dalla vita ed ero sicuro che quegli anni di galera mi fossero serviti proprio per capire meglio come vivere fuori.
Quel sogno di “recuperare” il tempo perso in galera
Così ho iniziato l’esperienza di lavoro all’esterno carico di aspettative e sogni, e con la speranza di iniziare a recuperare… il tempo perso. Sì, sono sempre stato consapevole che gli anni passati in galera non si sarebbero mai potuti recuperare, sapevo che non avrei mai più avuto 20 anni, ma nel profondo desideravo davvero recuperare almeno una parte di tutto quel tempo perso. E avrei voluto far vedere a tutti che non ero solo quello di dieci anni prima, e se mi fossero state date le carte giuste, la mia vita sarebbe potuta andare in modo diverso… In realtà, però, purtroppo, non ci volle molto per capire che io con la mia esperienza avevo imparato bene solo a sopravvivere dentro, in carcere, e al contempo avevo completamente disimparato a vivere là fuori in mezzo alla gente. Non sapevo più come fosse vivere una vita normale, fatta di gioie e delusioni, soddisfazioni e casini. Mi resi conto che mi stavo portando appresso solo un carico di grosse e belle teorie che trovavano pochi riscontri nella realtà, e, anzi, si scontravano spesso con la concretezza della vita. Non avevo considerato, poi, che per ricominciare a vivere bisognerebbe riuscire a lasciarsi il passato alle spalle. E nel momento in cui mi sono ritrovato inevitabilmente a dover fare i conti, in modo diverso da come avevo sempre fatto finché ero dentro, con ciò che dieci anni prima mi aveva portato in carcere, cioè l’uso di sostanze per cui mi ero già rovinato la vita, mi sono impaurito e mi sono accorto che tutte le mie certezze, che tutte le mie convinzioni cresciute e alimentate in carcere, erano andate a farsi friggere nel momento in cui ho dovuto confrontarmi direttamente con la vera realtà. Mi ero dimenticato che la paura è nemica della vita e che in teoria si può essere convinti di tante cose, ma poi è solo quando ci si scontra con la cruda concretezza delle cose che si capisce davvero sin dove arrivano le nostre certezze, le nostre verità, tutte le nostre sicurezze. È stata dura, certo, gli ostacoli sono molti, ma se non mi fosse mai stata data quella possibilità di uscire dal carcere in quel modo, pian piano, e se invece avessi dovuto affrontare tutti quei cambiamenti e quei problemi in un solo botto, tutti assieme, beh… penso sarebbe stata molto, ma molto più dura. E più facile sarebbe stato finire con l’essere un peso in più per le persone che mi stanno attorno, e di conseguenza anche per la società.
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