|
Sicurezza e informazione É vero che c’è chi cavalca la paura semplicemente a fini politici, ma non va taciuto che comunque la paura c’è La redazione “intervista” il direttore del Mattino di Padova, Omar Monestier
a cura della Redazione
Il Mattino di Padova da alcuni anni dà la possibilità alla redazione di Ristretti Orizzonti di gestire uno spazio importante, mezza pagina ogni lunedì. Uno spazio che noi dedichiamo per lo più ai temi della sicurezza, delle pene, alle testimonianze dal carcere. Volevamo, su questi stessi temi, intervistare proprio il direttore del Mattino, che ha accettato il nostro invito in redazione.
Ornella Favero (direttore di Ristretti Orizzonti): Naturalmente qui in carcere, e anche fuori per chi si occupa di temi sociali, pesa moltissimo il clima che c’è nel Paese, e su questo secondo noi i mezzi di informazione giocano un ruolo importante, dando spesso messaggi che insistono molto su questo clima di paura. Ecco, noi vorremmo partire da questa domanda, ossia: quanto pesano davvero i media nell’accentuazione di alcuni problemi, come appunto l’insicurezza, che nel nostro Paese sono vissuti sempre come emergenze? Omar Monestier: Ci sono criminalità e paure diverse. L’Italia si trova di fronte ad un’ondata migratoria senza precedenti che non è stata gestita, soprattutto all’inizio, quando sono cominciati ad arrivare in massa migliaia di cittadini che cercavano una condizione lavorativa e di vita più dignitosa, e adesso il Paese ha paura perché si accorge degli effetti che questa ondata ha provocato. Poi c’è l’altra criminalità, quella che c’è sempre stata, intendo dire che il ladro di polli e la rapina in banca sono sempre esistiti, e per la quale è subentrata una sorta di assuefazione, per cui la si considera un po’ come la normalità del nostro vivere civile. Si sa che in una società così complessa avvengono degli atti criminosi che non sono giustificati naturalmente, ma vengono tollerati, perché non sono completamente cancellabili dal nostro contesto sociale. Per quanto riguarda l’aspetto legato all’ondata migratoria, con gli anni è montato un sentimento dì grandissima insofferenza, di astio, certamente non di odio etnico e nemmeno di xenofobia, secondo me, ma comunque una grande intolleranza nei confronti di tutti gli eventi malavitosi che hanno come protagonisti i cittadini stranieri. L’abbiamo sperimentato sulla nostra pelle quando eravamo noi i cittadini stranieri che andavamo in America, trattati peggio delle bestie, abbiamo verificato sulla nostra pelle che cosa significhi essere i protagonisti di questo fenomeno, adesso siamo noi quelli “onesti e benestanti”, che subiscono un’ondata migratoria senza precedenti. Ora è vero che c’è chi cavalca la paura semplicemente a fini politici, ma non va taciuto che comunque la paura c’è, soprattutto da parte di alcune fasce deboli, non parlo di bambini e anziani, per non citare luoghi comuni, ma sicuramente quelle fasce a reddito più basso, più indifese socialmente, che magari hanno difficoltà a mantenere il posto di lavoro in periodi di crisi come questo. Allora, mentre una volta una cittadina di Padova di 60 anni poteva camminare tranquilla con la sua borsa al braccio, e non si spaventava se dall’altra parte della strada vedeva una persona con la pelle di un altro colore, ora la prima reazione che ha è quella di stringere a sé la borsa perché ha paura, e questa non è una paura indotta dai giornali. I giornali danno conto di quello che sta capitando, siamo in un momento storico che viene vissuto dai miei lettori, ma credo anche da molti miei concittadini, come un momento di grande tensione. Poi è vero o no che i reati sono in aumento? Ed è vero o non è vero che per la maggior parte i reati sono commessi da cittadini di nazionalità diversa da quella italiana? Secondo le statistiche i reati gravi nel nostro paese sono in diminuzione, per reati gravi si intendono in primo luogo gli omicidi, mentre sono in crescita quelli di piccolissimo cabotaggio che a volte neanche si denunciano più. Allora è vero che le biciclette a Padova, essendo una città studentesca, le rubavano 20 anni fa come oggi, con una piccola differenza, cioè che oggi non puoi lasciar fuori non solo la bicicletta, ma nemmeno il lucchetto o la catena che tiene legata la bicicletta, perché immediatamente te li portano via. Quindi è in aumento il reato di bassissimo livello, che proprio per questo ha a che fare con la nostra quotidianità. Quando c’era la banda di Maniero che faceva delle rapine “straordinarie” (sotto il profilo scenografico) nel Veneto, e in tutto il nord, il cittadino medio non aveva una sensazione di insicurezza, nonostante la banda avesse anche assalito il ristorante dell’ippodromo con i Kalashnikov, perché la percezione era che questi reati riguardassero una cerchia ristretta di persone, cioè i ricchi, quelli che potevano frequentare quei luoghi. Adesso il ladro di biciclette colpisce chiunque, e non è solo un fenomeno circoscritto come una volta. Vi do un esempio molto semplice derivante dalla mia esperienza: interi quartieri di questa città finiscono sul giornale, perché i garage vengono razziati settimanalmente, cioè ci sono, presumo, dei poveracci che vanno a svuotare i garage per portar via non gioielli o denaro, ma semplicemente un trapano, un attrezzo, a volte una bicicletta che nessuno usa più da anni. Ecco, questo tipo di reato molto piccolo crea paradossalmente un enorme allarme sociale. Io racconto quello che succede. È vero che quello che succede si può raccontare in tanti modi, si possono esacerbare gli animi, oppure raccontare senza troppa partecipazione emotiva, ma io credo che innanzitutto vada raccontato il fatto, e questo noi cerchiamo di fare, e non mi pare che lo raccontiamo esaltandone i toni drammatici. Io non mi sento questa responsabilità, e vi assicuro, e lo giudico dalla quantità di lettere che ricevo, che il livello di esasperazione è molto alto.
Ornella Favero: Tu hai usato due termini “i giornali danno conto” e “raccontano quello che succede”. Ti faccio allora un esempio: quando l’altro giorno è successo che un mendicante è stato denunciato perché ha aggredito una donna ferma al semaforo in macchina, sul Mattino c’era un articolo su questo fatto e poi un altro a fianco, con un titolo in grande rilievo: “Sono ancora terrorizzato. Padova ormai è una giungla”. Solo che queste dichiarazioni sono di uno che ha subito una violenza analoga nel 1995. Voglio dire, per trovare un fatto analogo così grave bisogna risalire al 1995, solo che dal titolo non te ne accorgi e pensi che Padova sia ormai una giungla perché di storie simili ne succedono di continuo. Certo, noi non sottovalutiamo lo shock di una persona che subisce un reato, abbiamo fatto anche un convegno molto franco sul rapporto tra vittime e autori di reato. Altra cosa però è caricare con toni allarmistici i titoli: io abito a Padova, ma non mi sento di abitare in una giungla, mi sento di vivere in una città come tante, con dei problemi, oggi certamente più complessi, dovuti anche a questa presenza molto forte di immigrati, però, con titoli messi così, fai qualcosa di più che dar conto di una situazione, calchi la mano pesantemente. Omar Monestier: Certo, però è una affermazione della persona intervistata, non è un’affermazione del giornale, io non ho fatto un editoriale dicendo: “Padova è una giungla“, ho sentito una persona che ha subito uno shock che dice: “Per me Padova è una giungla”, e costui lo dice da quando ad un semaforo è stato pestato selvaggiamente. Ora, stiamo parlando di una persona che ha subito una violenza, e che ha ancora per questo delle pesanti conseguenze, anche sotto il profilo fisico. Il caso del mendicante che ha appena aggredito una donna è un caso emblematico della nostra inettitudine a governare i fenomeni, per questo ha avuto tanto spazio, cioè si tratta di un cittadino indesiderato nel nostro Paese, e peraltro anche nel suo, condannato più volte, accompagnato al confine, più volte sottoposto a tutte le misure previste dalla nostra legislazione. Però non è stato messo nelle condizioni di non nuocere, e, solamente dopo che c’è stato questo ulteriore episodio, sottolineato con forza dal giornale, è stato preso, impacchettato e rispedito al suo Paese. Tra l’altro avrebbe avuto più bisogno dei servizi sociali, dei servizi psichiatrici che di quelli delle forze di polizia. Ora io ritengo che una persona pericolosa non può continuare a molestare la gente. Mi sono messo nei panni di questa donna, che lavora, che, come tante altre, torna a casa la sera, e io non posso accettare, da Direttore di un giornale, ma anche, che ne so, da fratello, padre, marito, che una persona sia ferma ad un semaforo e perché dice di no a un tale che le chiede la carità, costui le strappi un lobo dell’orecchio, e scappi. Per questa ragione, questa storia ha avuto un così grande spazio, perché è un caso emblematico, ripeto, non solo di un fatto di microcriminalità, ma anche dell’incapacità di applicare le leggi. Questo è il senso della grande esposizione mediatica che ha avuto questa notizia, di per sé forse non così grave. Ma se la tesi è che con queste notizie noi fomentiamo l’odio, la paura, la xenofobia, io non sono d’accordo. Noi siamo lo stesso giornale che racconta delle scoperte dell’università, di come si fanno bene i marciapiedi, di tantissime altre cose, ma adesso stiamo parlando della criminalità, della sicurezza. Questo tipo di eventi non si può raccontare che così, non puoi raccontare che la donna è stata aggredita, però poverino quello che l’ha aggredita forse ha una storia, un vissuto personale di sfiga alle spalle. Non esiste, non si può farlo perché chi subisce e chi vede il fatto non si pone nell’atteggiamento di chi ha commesso il reato, si mette nella posizione di chi lo ha subito, e questa è naturalmente, ma non sempre, anche la nostra posizione.
Sandro Calderoni: Non sarebbe sufficiente raccontare il fatto in sé, e cioè semplicemente che una donna è stata aggredita? Omar Monestier: Io posso anche accettare che nella nostra società così complessa una donna possa essere aggredita per strada, ma ci sono contesti e contesti, qui c’è stata una serie di eventi particolarmente drammatici che vanno raccontati, anche se lei non è stata ferita gravemente; cioè è la normalità dentro cui accadono queste piccole scene di violenza che le rendono straordinarie! In altre parole, il fatto che due si sparino fra di loro avviene in un contesto diverso, magari un contesto socialmente orientato, per cui fa meno paura a chi non c’è dentro; se invece tu sei una massaia e stai per strada, e un tipo ti strappa un lobo perché tu gli hai detto che non vuoi dargli un euro di carità, questo fatto ha socialmente una rilevanza molto maggiore perfino dell’omicidio.
Ornella Favero: Sì certo, ma va inserito in un contesto che spieghi con che frequenza questo avviene. Omar Monestier: Beh, non è che lo trovi tutti i giorni, se succedesse tutti i giorni probabilmente non saprei neanche come fare.
Sandro Calderoni: Ma uno può appunto pensare che questa sia la normalità di tutti giorni, se si scrive “Padova è diventata una giungla”. Elton Kalica: Vorrei aggiungere una cosa: questo articolo non è che raccontasse il fatto, ma riferiva che questa persona era già libera, perché il titolo era: “Già libero di chiedere i soldi”, quindi non è un articolo che si riferisce al racconto dell’accaduto, ma solleva una critica, a mio avviso, verso il sistema giudiziario che ha permesso a questa persona di essere ancora in libertà. Omar Monestier: È così, è deliberatamente così. Il clandestino che ha scatenato una rissa con i carabinieri questo fine settimana, ed era sul giornale di domenica, è stato preso, ed è stato mollato poche ore dopo, cosa volete che pensi del nostro sistema giudiziario?
Ornella Favero: Un momento, guardiamo bene come sono andate le cose: questo clandestino è stato processato per direttissima, condannato a 4 mesi (cosa gli si vuol dare di più per una rissa?) dopo di che, siccome c’è la sospensione condizionale per tutti perché in tutti i paesi civili, se sei al primo reato, funziona così, lo metti fuori sperando che non venga reiterato il reato. Però abbiamo letto l’articolo, perché qui ci leggiamo ogni virgola, e dire “è già fuori” non spiega affatto che è stato condannato con sospensione della pena, e che se farà altri reati alla prossima condanna si dovrà fare tutta la galera! Omar Monestier: Presumibilmente.
Ornella Favero: Presumibilmente, ma guarda che qui la gente se la fa la galera, eccome! Anche questa è una cosa di cui vorremmo parlare, questa idea di impunità. I giornali e la televisione contribuiscono molto a montare questa idea: “Già fuori!”, ma ci sono tanti modi di essere fuori! I telefilm americani li vedono i giornalisti italiani? noi li vediamo tutti. Là una persona paga una cauzione ed è messa fuori, ma poi se la condannano va in carcere. Però qui nessuno si sogna di spiegare che anche da noi succede lo stesso, solo che i tempi sono lunghi, io vedo gente che viene a scontare una pena 10 anni dopo aver commesso il reato. Ci sono delle donne alla Giudecca detenute per reati fatti quando erano tossicodipendenti e spacciavano, e magari hanno aspettato otto-dieci anni fuori, ma quando gli è arrivata la condanna definitiva, sono entrate in carcere a scontare la loro pena. Omar Monestier: Ed è anche questo uno scandalo, non è che questo non lo sia.
Ornella Favero: Certamente, questo è uno scandalo, ma è ben diverso dal dire “è già fuori” e far credere così che ci sia una sorta di impunità, infatti tanti stranieri sono finiti dentro convinti dell’impunità, perché magari commettevano piccoli reati ed erano fuori in attesa di giudizio, e però alla fine si sono ritrovati qui.
Maher Gdoura: Poi magari nel frattempo tu ti rifai una vita, ti crei una famiglia e riesci a capire da solo che quello che avevi commesso era tutto sbagliato, ma naturalmente te la fanno scontare lo stesso la pena. Io ho commesso i miei reati nel 1995 e sono stato condannato nel 2003, in contumacia, per vari episodi di spaccio, e adesso mi sto facendo tanta galera. Leggendo i giornali, sembra che vengano tutti sempre scarcerati, ma poi il conto arriva da pagare, e a volte è salatissimo! Omar Monestier: Guardate però, non è possibile che conciliamo in qualche modo il mio punto di vista con il vostro, perché stiamo su fronti veramente opposti, voi vivete una situazione particolare, e siete dentro una realtà che non è la realtà di tutto l’universo che sta fuori. Cioè voi vivete in un angolo di visuale molto particolare e siete molto attenti a quello, è inverosimile che noi e voi, cioè io e voi, si trovi un punto di contatto su come si raccontano questi fatti attraverso un giornale…
Elton Kalica: È vero, noi guardiamo la scena da una prospettiva un po’ diversa, se si parla in termini di cittadini regolari e di detenuti, però questo lavoro nella nostra redazione non viene svolto solo da detenuti, il giornale viene fatto anche da volontari che hanno una vita anche fuori e vivono gli stessi problemi di tutti gli altri cittadini, inoltre hanno anche il senso critico di affrontare le cose senza identificarsi nella nostra stessa condizione di detenuti. Anzi, per precisare, qui facciamo delle discussioni feroci con i volontari, perché loro cercano di farci capire molto di quello che ci ha detto lei, com’è il pensiero comune della gente fuori, com’è la realtà nella società: che adesso fuori i problemi di sicurezza esistono, che c’è una grande parte di stranieri che gira e che commette reati, perciò queste cose le sappiamo, e cerchiamo di tenerle sempre in considerazione anche qui, quando ragioniamo su questi problemi. Quindi credo che, se si vuole, si possono trovare terreni in comune su cui riflettere. Omar Monestier: Il fatto è che c’è un Paese reale che vive nell’insicurezza, al di là dei proclami di chi va al potere di volta in volta, e questo è un dato di fatto che non ha colore né appartenenza politica, poi ci sono i toni della campagna elettorale, che ovviamente sono un’altra cosa... Il governo Prodi era un governo debole, con un partito che era tentato di fare alcune riforme, comprese quelle dei flussi di immigrazione, e anche della giustizia, e una minoranza che mandava messaggi molto contraddittori e molto diversi e che poi alla fine ha contribuito a farlo cadere. Di conseguenza è successo che in questo contesto è subentrata una forza politica che ha preso le debolezze del vecchio governo e le ha esaltate, facendone cavalli di battaglia per la propria campagna elettorale: ogni sbarco, ogni delitto a Roma piuttosto che a Treviso, e ce ne sono stati due violentissimi, avevano un forte impatto sull’opinione pubblica ed un carico significativo nei confronti della campagna elettorale. Però chi oggi ci governa ha preso quegli elementi casuali, e li ha trasformati in elementi strutturali del malgoverno precedente, dicendo: “Avete visto? Non c’è sicurezza”. Quindi il tema della sicurezza è stato cavalcato dalla forza che ha vinto le elezioni, ma va poi anche detto, al di là della appartenenza politica di ciascuno di noi, che questo governo di centrodestra sta facendo delle politiche securitarie, sulle quali si può discutere, ma che comunque mantengono quello che aveva promesso di fare.
Ornella Favero: Io però non capisco quando dici che non possiamo avere un punto di vista comune, perché non è che noi neghiamo il fatto che esista un problema di sicurezza nel nostro Paese, noi contestiamo, e su questo secondo me i giornali hanno un ruolo enorme, che tutto questo sia fatto passare come emergenza e che si facciano leggi sempre sotto la spinta dell’emergenza. Perché, vedi, quando io citavo l’articolo di prima dove si diceva “Padova è ormai una giungla”, non è che io contesto che poniate il problema se il mendicante che ha aggredito una donna poi pagherà o no, non è questo il punto, ma il punto è che, calcando i toni, questa diventa una perenne emergenza. Ora noi le leggi emergenziali che ci sono state in questo Paese le conosciamo e sono tante, adesso si invoca il carcere per qualsiasi cosa, e su questo secondo me i media hanno grosse responsabilità, non tanto, ripeto, sui temi della sicurezza, quanto sul farne perennemente un’emergenza. Faccio un altro esempio: l’altro giorno è uscito dal carcere quel pensionato, mi pare di 77 anni, che aveva commesso un omicidio, il titolo era: “Omicida già libero dopo solo 2 anni”. Uno crede che, dopo aver commesso un omicidio, un feroce assassino in due anni è già libero, poi vai a leggere, e scopri che la persona è anziana, seminferma di mente… Omar Monestier: Sì ma è uscito dopo due anni, tu puoi dire quello che vuoi, ma vallo a dire ai figli della donna che lui ha ammazzato che due anni sono un tempo ragionevole perché è anziano o seminfermo.
Ornella Favero: Tu però non stai parlando solo alle figlie, ma a tutta la società o ad una parte di questa che legge il tuo giornale. Omar Monestier: È stato fatto un titolo oggettivo.
Ornella Favero: Secondo me no, perché quella persona era inferma di mente, mentre, se una persona normale avesse ucciso qualcuno, se ne starebbe in galera per anni come ci stanno loro qui. È molto diverso, lo sai bene che la gente si crea l’idea che con l’omicidio stai dentro pochissimo. Elton Kalica: Il problema è che ci sono giornalisti che fanno degli errori grossolani, e non sono neppure sicuro che siano fatti in buona fede. Però anche se fossero fatti in buona fede, il punto è che, se un giornalista economico del “Sole 24 ore” prende delle cantonate su problemi economici, il giorno dopo lo cacciano, mentre se un giornalista parla di giustizia e fa errori grossolani di terminologia o anche più sostanziali, nessuno si prende la briga di andare a controllare se quell’articolo corrisponda alla realtà. Poiché oggi stiamo cercando di trovare un terreno su cui confrontarci, si potrebbe pensare ad un maggior controllo su questa materia, magari offrendoci noi di segnalarle eventuali errori. Omar Monestier: Lo stavo dicendo io, che un sistema per combattere la cattiva informazione è quello di essere molto puntali nella segnalazione degli errori. Io ho avuto negli anni passati lo stesso tipo di problema con la sanità, ve lo racconto perché secondo me può esservi di aiuto. Allora, fino a dieci anni fa la sanità veniva raccontata solo per i grandi fatti, come il trapianto di cuori artificiali, le scoperte, le nuove cure. Poi con il crescere dell’insoddisfazione verso alcuni servizi da parte degli utenti, tipo la lunghezza dell’attesa delle visite, oppure con le forti contestazioni nei confronti degli errori dei medici, e dei chirurghi in particolare, le notizie sulla sanità stavano molto più spesso sui giornali, e noi ci siamo resi conto che i giornalisti non avevano una conoscenza neanche elementare per trattare con competenza questo genere di informazioni. Allora siamo andati direttamente all’azienda ospedaliera di Padova e abbiamo detto: “Guardate, voi avete il problema di vedervi correttamente rappresentati sul giornale, noi abbiamo il problema di voler rappresentare correttamente voi per i nostri lettori”, quindi, dopo una serie di incontri e seminari, in cui i giornalisti hanno capito dove sbagliavano, hanno imparato dove cercare le informazioni, si è costruito un rapporto che adesso funziona molto bene. Perché anche dall’altra parte c’erano delle difficoltà da superare, cioè le aziende sanitarie erano abituate al fatto che davanti all’errore si taceva sempre, o si negava anche quello che era lapalissiano. Allora, visto che siete una redazione che passa ì giornali al setaccio, sugli errori clamorosi, marchiani, vale la pena di tentare di avere degli incontri con i giornalisti che se ne occupano. Una forma potrebbe essere anche quella di mandare delle garbate lettere ai direttori, in cui si dice: “Caro direttore, abbiamo letto l’articolo di cronaca giudiziaria uscito il…, dove si dice… ci permettiamo di dire che non è vero che dopo 6, 7, 9 anni quello è uno che può uscire dal carcere…”. Guardate, questa cosa che magari all’inizio può essere vissuta con qualche fastidio, se ha una sua regolarità, una sua cadenza, e se non la fate su ogni stupidaggine naturalmente, ma solo su grandi questioni, può essere una forma di miglioramento che vi riguarda.
Ornella Favero: Noi infatti volevamo proporre di fare un seminario con i giornalisti di cronaca nera e giudiziaria qui dentro, per ragionare su come alcune questioni vengono trattate dalla stampa. Omar Monestier: Mettere insieme tutti i giornalisti del Veneto diventa dura, bisognerebbe farlo allora per piccole aree, fare un giornale alla volta. Però è una bella iniziativa, perché obbligherebbe loro a misurarsi con le vostre facce, e non con i nomi scritti su un pezzo di carta, e com’è ovvio c’è una grande differenza tra trovarsi davanti uno che ti dice “Io sono quello di cui tu hai scritto una cosa sbagliata”, e vedere solo una riga su un pezzo di carta! Questo forse aiuterebbe anche voi a capire un po’ meglio i vostri processi, tenete presente che quando vedete riportato un documento su un giornale, quelle notizie escono da due posti, o dagli uffici legali, oppure dai palazzi di giustizia, questa è la verità, dopo di che è anche bene che qualche carta finisca ai giornali, perché altrimenti certi scandali non sarebbero mai scoppiati se non avessimo intercettato noi le carte prima che arrivassero in aula. Comunque fra noi giornalisti e voi ci sono molti soggetti, noi non parliamo con voi, anche perché se voi state qui dentro è ovvio che non ci sia una possibilità di comunicazione diretta, e chi racconta le cose che vi riguardano spesso lo fa distrattamente al telefono, o ce le sussurra in un corridoio mentre va da un’udienza all’altra. Questo giustifica parzialmente, anche se non del tutto, una certa incapacità da parte dei giornalisti di essere precisissimi sulle cronache giudiziarie. In ogni caso la lunghezza dei processi e la struttura delle indagini che ha posto in capo al Pubblico Ministero tutta una serie di funzioni investigative, in questi anni ha reso la stampa necessariamente più orientata verso il Pubblico Ministero, perché è l’unica parte che parla subito dopo il fatto e che spesso ha interesse a rendere visibile il suo lavoro, mentre l’altra di solito rimane coperta fino all’udienza. Quindi è vero che la stampa normalmente è più colpevolista che innocentista.
Daniele Barosco: Io voglio rimanere sempre sul tema informazione e sicurezza. Lei prima ha detto che riceve molte lettere su questi reati minori, furti nei garage e simili, difatti sul Mattino ci sono spesso notizie di questo tipo. E poi immagino che riceverà anche molte lettere di chi ha subito i crac, come Parmalat, i bond argentini e simili, e, se le riceve, come mai queste notizie non vengono pubblicizzate e finiscono nelle pagine interne? Omar Monestier: Cominciamo dalle lettere: allora io ricevo anche lettere di persone che ritengono di essere vittime di crac, che dicono di avere perso tutti i loro risparmi, ed è anche capitato di averne pubblicata qualcuna. La differenza è, e qui c’è anche un certo disagio da parte del giornale, che quando uno manda una lettera per segnalare un fatto specifico come “mi hanno rubato la bicicletta”, lo racconta e basta; quando invece mandano delle lettere contro i crac finanziari, siccome questa è gente che ha perso veramente dei soldi, si arrivano a lanciare accuse piuttosto pesanti, del tipo “Sono stato truffato, la tal banca mi ha rubato tutti i miei risparmi”. Fate attenzione, non è mica così facile pubblicare queste cose, io ho una responsabilità penale di cui rispondo in prima persona, oltre che in termini economici.
Daniele Barosco: Allora, se lei deve pubblicare una notizia su un disgraziato che ha rubato un motorino, le tutele giuridiche personali e individuali non servono, se invece la notizia riguarda il direttore di banca, le tutele subentrano tutte, e non si pubblica quella notizia. Omar Monestier: Da tutte le lettere che ricevo, dal povero cristo al direttore di banca, io tolgo, perché impubblicabili, gli insulti e le offese, e poi le pubblico, perché, ripeto, ne rispondo io penalmente. Però nella sua domanda sottotraccia c’era questa idea: “Voi siete forti con i deboli e deboli con i forti”. No, non è proprio così, ci sono giornali che hanno fatto molto per informare sui reati finanziari, pensate al crac, al golpe sventato su AntonVeneta, che di fatto è stato svelato dai giornalisti, e anche noi nel nostro piccolo cerchiamo di fare la nostra parte.
Ornella Favero: Ma in Italia i reati di allarme sociale sono più quelli della zingara che fa tanti piccoli furti, che non, appunto, quei reati finanziari che mettono veramente sul lastrico migliaia di famiglie. Certo viviamo in un Paese in cui se venisse applicata davvero la tolleranza zero finirebbe in galera l’80 per cento degli italiani, perché di gente che viola le regole in tutti i campi ce n’è un’infinità. Cos’è allora l’allarme sociale? comunque un furtarello non lo puoi definire un reato di allarme sociale, lo puoi catalogare nel “fastidio sociale” semmai. Omar Monestier: Diciamo che, se tu sei un pensionato, a 800 euro al mese, e la zingara ti porta via questi 800 euro, non si può dire che è un furtarello, almeno per quel pensionato.
Ornella Favero: Guarda, siamo i primi a dirlo che non si può minimizzare mai il reato, però oggettivamente ci sono due pesi e due misure nei confronti di chi commette reati contro il patrimonio. Daniele Barosco: Basta vedere che, nei vari pacchetti sicurezza, i provvedimenti presi d’impeto colpiscono sempre una certa categoria di persone, però se poi ci si accorge che queste persone ci fanno comodo, allora non si può fare. Le faccio un esempio: volevano introdurre il reato di clandestinità, quando si sono accorti che avevamo 600.000 badanti che andavano espulse il giorno dopo hanno ritirato il decreto. Volevo poi fare una domanda sui dati. Le statistiche e i dati non dovrebbero essere né di destra né di sinistra, anche se certo sono interpretabili. Il Mattino ha interpretato che qui a Padova ci sono circa 50.000 persone che vanno a prostitute, e che un padovano su tre rischia l’arresto, se passa la legge che prevede il carcere anche per i clienti delle prostitute. I giornali poi hanno scritto “Emergenza criminalità a Padova”, il giorno dopo però il generale dei carabinieri, e il capo della polizia dicono che c’è un calo di reati nella regione. Da certi titoli qualcuno qui dentro pensava che fuori ci fosse la guerra civile, allora noi vorremmo capire questi dati come vengono elaborati e diffusi, perché anche noi qui da un anno e mezzo tentiamo di elaborarli, ma ancora non siamo riusciti a capirli. Elton Kalica. I dati di partenza provengono da una fonte cosiddetta ufficiale, che può essere il Ministero degli Interni, o agenzie di statistiche; quello che noi contestiamo è l’interpretazione o l’uso che ne viene fatto quando arrivano sui giornali. Questo dato delle prostitute è un caso, diciamo così, eclatante. Io penso che abbiano calcolato un certo numero di prestazioni per prostituta a sera, hanno preso poi il numero approssimativo delle prostitute a Padova e fatto un totale, diviso poi per il numero dei maschi adulti, allora uno su tre va a prostitute. Ma questa non è una statistica, è una media che ha fatto il giornalista. Omar Monestier: Sì, credo che il dato sia stato calcolato così. Io comunque vedo che negli ultimi due anni, mentre cresce la sensazione di insicurezza, le statistiche dicono sempre che molti reati sono in calo. Tenete presente che dipende anche da che ministro c’è al Viminale, perché spesso passa una linea in cui si dice che i reati sono in calo, ma c’è una lettura politica a monte dei reati che vengono raccolti a valle. Il fatto è che i grandi reati, soprattutto per quanto riguarda Padova, sono oggettivamente in calo, ma c’è questo stillicidio di piccoli episodi sul territorio.
Ornella Favero: È davvero difficile capire se i reati sono o non sono diminuiti. Allora noi organizziamo questo progetto con le scuole, e quindi all’inizio facciamo, con centinaia di studenti, una piccola indagine dove chiediamo se si sentono insicuri dove vivono, e poi da dove nasce questa percezione di insicurezza, se gli è successo qualcosa, e non troviamo quasi nessuno che dica: sì sono stato derubato, o conosco qualcuno che ha subito un reato, vivo in un quartiere pericoloso… e a parte il furto di un telefonino o quelle cose minime che non sono certo da collocare come allarme sociale, tutti quanti ci dicono: “Sì, però i giornali dicono che… Sì però i telegiornali dicono che…”. Io non voglio dire che non esista il problema, sto solo distinguendo tra realtà e percezione indotta dai media. Omar Monestier: Ma la sicurezza, o l’insicurezza sono un fattore di complessità che fanno del nostro tempo non proprio un momento felicissimo, non siamo in una fase di rinascimento, in cui tutti si sentono di far parte di un grande progetto, viviamo in una fase molto convulsa che crea, insieme alla grande difficoltà economica di tutto il pianeta, una situazione di instabilità. Probabilmente gli studenti, che sono nel fiore della loro vita, e per i quali tutte le speranze sono aperte, non hanno mai provato un’esperienza così fortemente negativa da poter dire che questo ha creato in loro insicurezza. Ma vivono dentro una famiglia in cui magari il papà che ha perso i soldi in borsa, la mamma che perde il lavoro part-time, li inducono a credere che viviamo in un momento di grande insicurezza.
Ornella Favero: Ma allora il problema che dobbiamo tirare fuori è appunto un’idea molto più ampia dell’insicurezza, e non il vizio di scaricare tutto sullo straniero e sulla criminalità, e basta, perché secondo me queste sono anche le fasi in cui è facile trovare i capri espiatori. E poi se pensiamo a tutta l’illegalità sommersa che c’è nel nostro Paese, forse la realtà è più complessa, basta vedere che tutti gli immigrati che sono qui in carcere hanno lavorato in nero con datori di lavoro italiani, invece i giornali tendono a ridurre la complessità, semplificando al massimo. Omar Monestier. Ma è la funzione dei giornali! Ci sono le riviste e i convegni per complicare le cose!
Ornella Favero: Io non credo che vedere la complessità significhi complicare i problemi, se sono complicati li analizziamo nella loro complessità. Marino Occhipinti: Io sono convinto che bisognerebbe essere più chiari nel distinguere il tasso di criminalità degli stranieri irregolari da quello dei milioni di stranieri che lavorano regolarmente in Italia, ossia se gli stranieri vengono messi nelle condizioni di lavorare, comunque delinquono molto meno, spesso anche meno degli italiani, quindi forse bisognerebbe valutare anche questo. Maher Gdoura: Io sono tunisino, ho 35 anni, dall’età di 17 sono in giro per l’Europa ed ho visto in diverse città europee come si comportano con gli stranieri, però in questa fase della mia vita è la prima volta che vedo un attacco così forte contro gli immigrati. Per quanto riguarda quelli che commettono reati, non penso che loro vengano qui per fare i delinquenti, però uno che arriva con delle aspettative e non trova lavoro, non riesce a inserirsi perché il clima è pessimo, e magari il lavoro c’è, ma solo in nero, come fa a sopravvivere, come fa a mangiare? Certo questa non è, né può diventare una giustificazione per delinquere, ma è un problema che sta a monte, e che dovrebbe essere valutato. Omar Monestier. Noi siamo in ritardo come Paese nelle politiche di accoglienza degli immigrati, e questo bisogna dirlo, gli altri Paesi sono molto più avanti, ma non è solo un demerito dell’Italia, nel caso della Francia deriva anche dalla sua storia coloniale, così dell’Inghilterra, nel caso della Germania l’ondata migratoria c’è stata molto prima e quindi i Turchi e gli Italiani che vivono lì, per esempio, sono già di terza, quarta generazione, perciò sono molto più integrati. Qui stiamo parlando di alcuni aspetti che non funzionano, ma non sono affatto pessimista per quanto riguarda l’integrazione. Nel Veneto, pur essendoci una politica che parla poco di integrazione, e spesso a sproposito, non ci sono storie di xenofobia gravi o pesanti, il punto è che noi siamo arrivati molto tardi, ripeto, e quando ormai il fenomeno migratorio aveva assunto dimensioni imponenti, se avessimo pochi cittadini stranieri da aiutare, da inserire, non avremmo certo il problema che abbiamo oggi. È che ci siamo trovati improvvisamente davanti ad una marea di gente affamata, che aveva bisogno di lavorare, e che non sapevamo come inserire.
Lucia Faggion (volontaria): Vorrei spostare il discorso dai contenuti degli articoli ai titoli. Molto spesso il titolo di un articolo viene smentito, comunque chiarito o modificato poi dall’articolo stesso. Allora mi chiedo: in che misura un titolo può far vendere più copie rispetto ad un altro? Omar Monestier: Che il titolo smentisca il contenuto di un articolo mi pare grave, il titolo ha un effetto di sintesi rispetto al contenuto dell’articolo, e se è un titolo fatto bene cerca anche di catturare l’attenzione, senza ovviamente cambiare il senso dell’articolo che va a sintetizzare. “Molto spesso” no, questo non posso accettarlo, può capitare qualche volta, ma se fosse molto spesso sarebbe grave; quindi respingo il “molto spesso”. Per quanto riguarda le cose che fanno vendere di più, dipende dai giornali. Il giornale locale naturalmente è molto diverso da quello nazionale, un giornale nazionale può vendere molto in questi giorni anche per la crisi delle borse, mentre un giornale locale è assolutamente indifferente a questo tipo di notizia. Nella media, cioè in assenza di eventi eccezionali, le notizie che fanno vendere sui giornali locali sono sostanzialmente due, quelle di nera, morti, incidenti, rapine, non però fatti sgradevoli, tipo stupro, violenza, la nera quella classica, diciamo da sangue, sparatorie… Oppure le notizie di servizio. Sono sostanzialmente questi i due filoni.
Milan Grgic: Fra le notizie di nera ci sono, per esempio, gli omicidi in famiglia, che vengono commessi per lo più da gente con problemi psichiatrici, insomma io sono un padre di famiglia e se dovessi arrivare ad ammazzare i miei figli vorrebbe dire che qualcosa non va nella mia testa. Ma nessuno si preoccupa di guardare qual è la causa di questa pazzia, perché se magari una persona ha lavorato tutta la vita per costruire qualcosa per i propri cari e poi, arrivata ad un certo punto della sua vita, stermina la famiglia, forse c’è qualcosa che non va anche all’interno della società. Omar Monestier: Io racconto quello che vedo, cioè un uomo che uccide la moglie e i figli, e dico come si è svolto, dopo di che posso trovare qualcuno che mi aiuta a spiegare il fenomeno, magari la figlia che mi dice come è successo o il carabiniere che ha trovato il biglietto con scritte delle spiegazioni, ma è difficile che sia io, sia il mio giornale insomma, a spiegare o a dire come stanno le cose, non è proprio il mio mestiere.
Lucia Faggion: Sempre a proposito di cronaca nera, la compagna di classe di mia figlia più piccola ha il papà che è un medico e che, in un momento di depressione, ha perso la testa e con una mazza da baseball ha cercato di aggredire la moglie. Ora di questa persona sono stati dati generalità e foto dell’abitazione, però c’è di mezzo una moglie che ha subito il fatto, un figlio, i compagni di classe, molti dei quali hanno letto i fatti raccontati con tutti questi dettagli, quando invece gli psicologi, gli educatori, avevano comunque raccomandato che il fatto non fosse presentato nella sua crudezza. Quindi io mi chiedo fino a che punto il dovere di informare tiene conto del diritto di ogni persona, fino a che punto possa essere utile fornire dati che consentano di identificare quella persona, e anche i suoi famigliari. Omar Monestier: Il diritto di cronaca è preminente rispetto a qualsiasi forma di tutela di privacy o di intimità, tranne che per i minori, l’unico fatto sacro è il diritto dei minori a non essere citati, né ad essere riconoscibili, tutto il resto è diritto di cronaca. Trasformo questa mia spiegazione in un esempio, se io scrivessi sul giornale che un noto medico padovano imbracciando una mazza in una abitazione di una non meglio precisata strada nel centro di Padova ha tentato di uccidere la moglie, lei se lo leggerebbe? Io dico di no. Io non posso, come giornale della città, raccontare un fatto senza tirare fuori gli elementi di identificazione, questa è la differenza tra fare cronaca, o non farla. La legge ci impone di non pubblicare il nome dei figli, ma non posso non pubblicare il nome del padre che è riconoscibile, è figura nota. Queste sono questioni che vengono sempre poste, ma sono irrisolvibili, e davanti a questo io sono molto chiaro: il mio diritto di cronaca è prevalente, e preminente a tutto il resto. Un incontro in redazione con i Magistrati di Sorveglianza di Padova, Giovanni Maria Pavarin e Marcello Bortolato È difficile trovare un giornalista che faccia correttamente cronaca nell’ambito dell’esecuzione penale Con i Magistrati di Sorveglianza di Padova abbiamo parlato di buona e cattiva informazione sul carcere, sulle pene, sulle misure alternative
a cura della Redazione
L’incontro in redazione con i Magistrati di Sorveglianza di Padova questa volta è stato in buona parte dedicato al tema dell’informazione. Perché è un tema cruciale oggi: infatti ogni notizia, data in maniera non corretta, sulle pene e sulle misure alternative, rischia di portare un altro mattone alla costruzione di leggi emergenziali, che poi si abbattono pesantemente sulla vita di chi sta in carcere, ma anche su quella dei cittadini liberi, perché un clima di sospetto, di intransigenza, di chiusura su ogni prospettiva di pene più umane alla lunga diventa pesante per tutti.
Ornella Favero: Noi riteniamo che ci sia una informazione così superficiale sull’esecuzione delle pene, che alcuni chiarimenti vorremmo darli ai nostri lettori proprio attraverso di voi, usando soprattutto la nostra News letter, che ha migliaia di utenti. Una delle questioni fondamentali riguarda proprio i criteri con i quali i magistrati decidono se concedere o meno una misura alternativa al carcere. Basta pensare, ad esempio, alla vicenda di Pietro Maso, addirittura trasmissioni televisive facevano i calcoli del suo fine pena mettendo in conto anche i cinque anni della liberazione condizionale, come se fosse una cosa automatica ottenerla. Il dato è invece che la percentuale di concessioni della liberazione condizionale è bassissima, il 3 per cento.
Marino Occhipinti: Uno dei casi che ha fatto più scalpore è stato quello di Michelangelo D’Agostino, che durante una licenza a Pescara ha ucciso il direttore di uno stabilimento balneare. Questa persona era un pentito che aveva commesso 17 omicidi, ma che aveva già finito di scontare la sua pena, molto ridotta appunto in virtù della legge sui pentiti, e stava scontando una misura di sicurezza in una Casa di lavoro. Noi abbiamo visto molte interviste del Magistrato di Sorveglianza di Modena che aveva dato la licenza al detenuto, e che si è assunto la responsabilità di dire: sì io mando diversa gente in permesso, e questa persona l’avevo valutata con la convinzione che avesse fatto un percorso di cambiamento, però mi assumo la responsabilità di aver fatto un errore. Quel Magistrato ha avuto la gentilezza di venire qui in redazione, e noi abbiamo discusso con lui di questa confusione fra la legge sui pentiti e la legge Gozzini, che è veramente deleteria, perché la gente sente dire “17 omicidi ed è già fuori” e pensa che questo non sia frutto della legge sui pentiti ma effetto della legge che permette le misure alternative, cioè appunto la Gozzini.
Giovanni Maria Pavarin: La legge sui pentiti, parliamo della legge del ‘91, riformata nel 2001, dice comunque che serve un ravvedimento prima di avere questi benefici, anche se è vero che si ampliano le maglie della carcerazione e si può dare i domiciliari pure a una persona condannata all’ergastolo. Ma la cosa non è automatica, ed è rimessa sempre alla valutazione discrezionale del Tribunale di Sorveglianza che concede questi benefici previsti, che anzi sono di meno del passato, perché nel passato si poteva dare un affidamento a vita anche a una persona che era condannata all’ergastolo, adesso si può dare solo una detenzione domiciliare e i permessi premio. Anche lì serve una valutazione e il Tribunale è tenuto intanto a valorizzare quella che è la proposta o il parere della Procura Antimafia, e soprattutto è tenuto a verificare che ci sia un mutamento anche morale diciamo, all’interno della persona, quindi è finita l’epoca dello scambio utilitaristico: io ti dico quello che non sai, e tu mi dai quello che non mi merito. Ecco non demonizzerei la legge sui pentiti perché, appunto, anche questa legge subordina i benefici a una valutazione discrezionale del tribunale.
Ornella Favero: Noi non siamo entrati nel merito della legge sui pentiti, abbiamo solo detto che è difficile ipotizzare che un detenuto con 17 omicidi abbia un’autostrada verso la libertà davanti, come l’ha avuta quella persona. Giovanni Maria Pavarin: Certamente c’è un’autostrada spianata per chi ha manifestato un’opera di collaborazione con la giustizia, questa autostrada che alla fine credo appunto che sia utile e opportuna quando c’è l’emergenza, ma cessata l’emergenza io sarei dell’idea che queste maglie larghe dovrebbero essere chiuse. Questo vale per il mafioso, per il camorrista, per l’esponente della ndrangheta, ma lo Stato ha deciso di mantenere in piedi questa norma, e non compete a me né modificarla né criticarla, avendo giurato fedeltà alle leggi, comprese quelle che non ci piacciono.
Ornella Favero: A noi più che altro interessa far capire fuori che le revoche dei benefici previsti per i detenuti comuni sono dello 0,45 per cento, lo 0,45 torna in carcere per la commissione di nuovi reati, mentre per i pentiti sono molti di più i casi di recidiva. Ci piacerebbe comunque ribadire quali sono i criteri che voi usate per formare il vostro giudizio, vorremmo spiegare alla gente che non c’è nessun automatismo nella concessione delle misure alternative, ma una valutazione che tiene conto di moltissimi elementi.
Marcello Bortolato: Innanzitutto dico subito che ho accolto con molto piacere l’invito di quest’oggi, anche perché ho cominciato da poco a fare il Magistrato di Sorveglianza, e quindi ho cominciato da poco, purtroppo per me, a leggere questa rivista che avrei voluto veramente conoscere prima. E ho capito che il lavoro che state facendo è molto importante, è una rivista molto bella, e faccio i complimenti a tutti, credo dovrebbe essere diffusa alle scuole il più possibile, e anche tra di noi, nei nostri uffici giudiziari. Detto questo, colgo lo spunto sul tema dell’informazione pubblica in questo Paese. È evidente che il clima che stiamo vivendo adesso, dal punto di vista politico, è improntato ad una sostanziale disinformazione. È proprio di questi giorni una inchiesta sul senso di insicurezza, che viene trasmesso insistentemente dai mezzi di informazione ma che non corrisponde ad un aumento effettivo dei reati. Si è detto infatti che nel 2007 e nei primi mesi del 2008 si parlava sempre di più di insicurezza dei cittadini, di criminalità in aumento dopo l’indulto, e invece dal punto di vista statistico non si è avuto incremento dei fatti di reato, né si è tenuto conto della circostanza che in ogni caso nel medesimo periodo molti degli indultati sarebbero comunque usciti dal carcere. Quindi è ovvio che la disinformazione è un aspetto contro cui noi Magistrati ben poco abbiamo da contrastare, se non altro per il fatto che raramente ci è data la possibilità di fornire dati reali, oltre al nostro punto di vista tecnico di cui ben pochi, mi sembra, tengano conto. Per quanto riguarda la questione dell’errore umano, al quale mi sembra il collega di Modena si riferisse nella vicenda della concessione di quella licenza, è evidente che l’errore è una variabile di tutti gli uomini. Anche il Magistrato, che è un uomo come tutti gli altri, purtroppo può sbagliare e nel caso della Magistratura di Sorveglianza si tratta spesso di un errore di previsione. Del resto, la prognosi favorevole smentita dai fatti è un’evenienza possibile nel nostro lavoro ed anche ineliminabile se si vuole, perché è nella realtà delle cose: la vita ha tante sfaccettature ed il Giudice di Sorveglianza si occupa più del futuro che del passato. Ciò accade anche in altri settori della giustizia: si pensi al Tribunale dei Minorenni dove ci si confronta quotidianamente con il futuro, la prognosi, la scommessa sul cammino di vita di un bambino da strappare ad una famiglia e da inserire in una nuova. Ma anche al Giudice della condanna, quando concede o nega la sospensione condizionale della pena. Può capitare che le valutazioni di un giudice poi si scontrino con i dati della realtà, i quali possono smentire un giudizio favorevole. Per quanto riguarda il percorso attraverso il quale noi arriviamo ad una decisione sulla concessione dei benefici, si tratta forse dell’elemento più importante del nostro lavoro, perché noi decidiamo applicando delle leggi, alle quali abbiamo giurato fedeltà, e dobbiamo necessariamente applicarle. Poi c’è ovviamente uno spazio lasciato all’interpretazione, che è necessariamente variabile, e nel compiere la quale il Magistrato deve comunque seguire delle norme, ma in cui tuttavia ed inevitabilmente mette dentro anche quello che è lui personalmente, quindi la sua cultura, la sua cura nell’ascoltare, ed anche le sue convinzioni. Ovviamente noi come Magistrati di Sorveglianza ci basiamo prevalentemente su degli scritti, quindi su dati di fatto riportati, relazioni, elementi che desumiamo anche dalla sentenza, che è il nostro punto di partenza, nel bene e nel male. Partiamo dunque da lì, dopo di che ovviamente nel fascicolo leggiamo quello che scrivono i condannati, gli educatori e le forze dell’ordine, e poi ci mettiamo del nostro, attraverso il colloquio, che da quanto ho capito, perché è poco che sto facendo questo lavoro, è un elemento fondamentale per prendere qualunque decisione. Il colloquio che si fa all’interno della Casa di reclusione direttamente fra Magistrato e detenuto, e poi anche in udienza, è un momento fondamentale. Quindi per la valutazione del caso è fondamentale come il detenuto viene al colloquio o in udienza, come si presenta, quello che dice, quello che sa dire su quello che ha commesso, perché ad esempio davanti al Tribunale ci sono quattro magistrati, che lo vedono magari per la prima volta, mentre il Magistrato di Sorveglianza generalmente l’ha già conosciuto, l’ha già visto, quantomeno ha già studiato il suo fascicolo, ma gli altri è la prima volta che vengono in contatto con lui. Mi pare che questi siano gli elementi su cui si può fondare la decisione, che è comunque una decisione oggettiva, perché noi abbiamo fatto studi di diritto e dunque ci basiamo sull’applicazione delle norme. Però il Magistrato porta anche se stesso; qualsiasi uomo quando prende una decisione porta se stesso, e quindi necessariamente fa delle scelte anche in relazione alle sue opzioni ideali, prima fra tutte quella sul valore rieducativo della pena, a quanto creda o non creda in questa funzione. Noi siamo obbligati comunque a crederci, perché la Costituzione dice che la pena ha una funzione rieducativa. Ovviamente più uno ha una sensibilità in questa direzione e più è portato a prendere delle decisioni in un certo senso, questo è un dato inevitabile, ripeto: il Magistrato è un uomo. Per fortuna il nostro sistema giudiziario è fatto in modo tale, che la decisione di un Magistrato non è poi quella definitiva ed è soggetta ad ulteriori controlli e rivalutazioni.
Elton Kalica: Il fatto che ci sia una valutazione individuale così complessa sul soggetto lo sappiamo noi, ma fuori non lo sanno, anzi sempre di più i giornalisti, sui canali televisivi, ma anche sulla carta stampata, fanno dei conti incredibili sull’esecuzione della pena, i più famosi sono i conti che ha fatto Travaglio dicendo che se uno uccide la moglie, fra la riduzione di pena di un terzo per il rito abbreviato, un terzo per l’incensuratezza, tre anni in meno per l’indulto, cinque anni di condizionale, tre anni di liberazione anticipata, dopo tre anni è fuori, quindi ha concluso che oggi in Italia conviene più uccidere la moglie che non divorziare, che ti costa di più.
Giovanni Maria Pavarin: Quello che stupisce e forse addolora, ma che soprattutto stupisce, è come anche le persone più acculturate hanno un atteggiamento un po’ cinico, con cui spesso si accostano a questi grandi temi, probabilmente non pensando che anche in carcere si vede la televisione e uno può sentirsi, non dico offeso, ma sconvolto dalle considerazioni che vengono fatte. E non è la prima volta che dei giornalisti irridono il sistema della pena, quasi non considerando che ci sono delle persone che fanno 10 anni, 20 anni in carcere. Io conosco una persona che ha fatto 44 anni di carcere, quando sentivo questi discorsi mi veniva voglia di dire al giornalista: beh vieni qui che ti presento tizio che è stato 44 anni chiuso. Queste persone credo che andrebbero invitate anche qui per provare a spiegare un po’ la cosa. E se devo giudicare te, Travaglio, con equilibrio, e se devo giudicare la tua serietà e la tua fondatezza, con l’equilibrio delle cose che dici, e da come parli di me, di quelli come me, della pena e dell’esecuzione penale, mi viene da dubitare che tante altre cose che tu dici siano fondate. Quindi per misurarti io ti invito e ti spiego, e ti faccio vedere il carcere, che non è proprio come tu pensi, ammesso e non concesso che le cose che tu dici corrispondano a quelle che pensi. Voi sapete meglio di me, perché ne avete un’esperienza diretta, che cos’è la pena, e cos’è l’esecuzione, e come tante cose che vengono dette non corrispondano al vero. Esistono certo dei casi in cui veramente la società è sbigottita, perché è vero che ci sono delle applicazioni della legge sui pentiti che riconsegnano quasi subito alla società delle persone, che si sono macchiate di gravissimi delitti, solo per la logica dello scambio, ma ripeto la cosa avviene sempre di meno, perché sempre di più i tribunali valorizzano quella discrezionalità, che la legge affida a loro anche per concedere le misure ai pentiti. Questa discrezionalità, di cui ha parlato il mio collega, non è un arbitrio, non è un fare quello che voglio a seconda che mi sia simpatico l’uno o l’altro, è una discrezionalità tecnica, che si basa sull’uso di certi parametri che sono logici, che sono giuridici, che sono di esperienza. Non è un arbitrio puro che non risponde a nessuna logica, è una discrezionalità che deve poggiare su degli strumenti di logica. Ma quali sono gli strumenti della logica che usiamo? Primo il buon senso, la considerazione delle cose che la legge non dice, ma che è giusto che il Magistrato valuti, ad esempio, lo diciamo sempre, la posizione delle vittime, esistono ancora, non esistono più, quante sono, qual è il tuo atteggiamento nei confronti delle vittime, questo è un fattore che ha un’importanza sempre maggiore, ma non è una importanza che diamo per ostacolare il cammino della riabilitazione. È un’importanza maggiore che diamo per rendere più credibile il discorso delle misure alternative, che si legittimano in tanto, in quanto facciamo in modo che la società le accetti sempre più, nella misura in cui, sulla bilancia, diamo un posto e un peso specifico anche ai danni che sono stati fatti. Quindi l’uso della discrezionalità avviene tramite la motivazione del provvedimento che prendiamo, che è soggetto alla censura del giudice che controlla la nostra ipotesi, ed è la Corte di Cassazione. Se la motivazione non è coerente, sufficiente, logica, allora il provvedimento viene annullato.
Elton Kalica: Io vorrei cominciare a fare un ragionamento prendendo tutte queste misure una ad una, ad esempio la liberazione anticipata, che l’opinione pubblica e soprattutto i giornalisti pensano sia una cosa che viene data automaticamente. È vero che voi Magistrati di Sorveglianza la concedete a tutti, o no? Marino Occhipinti: Noi abbiamo già proposto al direttore del Mattino di Padova e al Presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto di organizzare un seminario di formazione con i giornalisti per ragionare su certe questioni, riguardanti le pene, che spesso sui mass media sono affrontate con superficialità, a volte anche con errori pesanti. Mi viene in mente un articolo su un quotidiano locale che parla dei due albanesi condannati per la rapina di Gorgo al Monticano, in cui hanno ucciso la coppia di custodi di una villa. La giornalista pone la domanda: “Fra nove anni, uno per altro lo ha già scontato, Naim Stafa, condannato all’ergastolo, potrà usufruire dei permessi?” E lei stessa risponde: “Certo, e la valutazione del giudice sarà in realtà solo una mera presa di conoscenza del fatto che si sia comportato bene, se lo avrà fatto i permessi non si potranno negare”. Allora con queste affermazioni sì spaventano le persone, non è vero che fra 9 anni sarà “solo una mera presa di conoscenza” quella del giudice nel dire: se ti sei comportato bene, puoi uscire. La realtà è che quello dei termini temporali è il requisito minimo per accedere ai permessi, ma ne potremmo aggiungere un’altra decina. Insomma c’è gente che non arriva mai ad ottenere i permessi. Quindi il seminario con i giornalisti lo vorremmo fare per spiegare meglio queste questioni proprio con le vostre parole, insomma utilizzando questo incontro, per spiegare che in fondo certe cose non le vogliamo dire noi perché ci fanno comodo, sono cose dette da magistrati ai quali devono credere.
Marcello Bortolato: È evidente che non c’è nulla di automatico, perché altrimenti a questo punto basterebbe un computer, o l’amministrazione stessa, è ovvio che se ci sono i magistrati c’è anche una decisione discrezionale. Come giustamente diceva il mio collega, l’importante è che il Magistrato espliciti il percorso motivazionale, ed è giusto che dica perché ha negato un beneficio o perché lo ha concesso, sia in un caso come nell’altro; è un controllo che non solo deve fare la Corte di Cassazione, ma che devono fare i cittadini, la Giustizia viene amministrata nel nome del popolo, e quindi anche i cittadini devono poter controllare il perché un beneficio è stato negato o concesso, oltre ai diretti interessati. Quella dell’informazione è una battaglia difficilissima, perché se noi dovessimo ogni volta ribadire che le cose non stanno come dicono i giornali o la televisione, impiegheremmo gran parte del nostro tempo ad indicare a molti giornalisti e commentatori le inesattezze, le superficialità, le approssimazioni in materia di giustizia. Ecco, l’unica cosa che si può dire in questo caso è che la liberazione anticipata non è assolutamente automatica, certo è un beneficio che viene concesso sulla base di un comportamento buono in carcere, quindi se non ci sono rilievi disciplinari, se il comportamento del detenuto è conforme ad un’opera di risocializzazione, il beneficio è difficile negarlo. Però ciò non toglie che viene negato anche quando da un comportamento complessivo si possa desumere una totale chiusura rispetto all’opera di rieducazione. Forse allora i giornalisti dovrebbero seguire qualche lezione di diritto penitenziario quando si occupano di carcere. Il discorso di Travaglio poi è grave, perché Travaglio è un giornalista molto intelligente, il suo forse è un paradosso, lo sa lui stesso che non è così, però talvolta prevale l’esigenza di andare incontro ad un certo uditorio, ma è ovvio, e lo ribadiamo noi tecnici del settore, che sono assurdi questi calcoli, che non esistono questi automatismi.
Elton Kalica: Per quello che ho visto anche il buon comportamento e la partecipazione alle attività rieducative non determinano sempre la concessione del beneficio. A volte basta un semplice richiamo per infrazione al regolamento interno del carcere, o anche per aver otturato lo spioncino del bagno quando si va a fare i propri bisogni, e i 45 giorni si perdono. Anche perché dopo aver fatto 5, 10, 15 anni di carcere non è una cosa facile mantenere un comportamento lineare senza incappare mai neppure in un semplice richiamo. Giovanni Maria Pavarin: Sulla liberazione anticipata dobbiamo ricordare quello che dice la legge, sono concessi 45 giorni per ogni semestre di pena espiata a chi abbia fatto due cose: punto primo, abbia tenuto regolare condotta, punto secondo, abbia dato prova di aver partecipato all’opera di rieducazione, questi sono due pilastri logici sui quali il Magistrato ha l’obbligo di fondare le sue motivazioni di decisione, punto. Poi c’è una norma che spiega che cosa significa partecipare all’opera di rieducazione e cosa significa regolarità nel comportamento, anche qui c’è la discrezionalità del Magistrato, che deve spiegare il perché la dà o il perché la nega. Regolare condotta significa non essere incappati in sanzioni disciplinari, o meglio in rapporti, un rapporto può sfociare in una applicazione di una sanzione oppure no, si legge spesso di sanzioni che sembrano eccessive rispetto al fatto addebitato, come per converso si incontrano casi in cui sembra applicata una sanzione minore rispetto al disvalore e alla gravità dell’illecito raccontato nel rapporto disciplinare. Aderire all’opera di rieducazione significa non solo avere partecipato alle attività che il carcere organizza, quando le organizza, ma avere fatto sì che chi ti incontra possa desumere che tu un po’ alla volta ti sei allontanato dal male che hai fatto e hai intrapreso un cammino verso un momento della tua vita, in cui tu decidi di rompere definitivamente con quello che hai fatto, insomma è la trasformazione della persona che si allinea alla condotta di quelli che non delinquono. Che cosa è però successo, e qui dobbiamo dare ragione, se pure in parte, ai mezzi di informazione? È vero che noi in genere concediamo la liberazione anticipata basandoci di più sul primo pilastro, che non sul secondo, guardiamo di più la condotta regolare, che non l’adesione all’opera di rieducazione, ma perché capita questo? Perché nella stragrande maggioranza degli istituti si fa poca rieducazione, e non posso negare la liberazione anticipata se uno non ha lavorato, se è il carcere che non gli dà lavoro. Capita poi che, se andiamo a leggere la storia delle detenzioni, abbiamo dato tre mesi all’anno di sconto di pena a quelle stesse persone che dopo, uscite dal carcere, sono tornate a delinquere, e manco è prevista la revoca della liberazione anticipata che ti ho concesso nella vecchia carcerazione su di un titolo espiato. Quindi io darei ragione in parte alla stampa, anche se il fenomeno va spiegato come vi ho detto, andando a leggere quello che hanno scritto i parlamentari quando hanno approvato questo articolo 54. Sostanzialmente cioè hanno detto che la liberazione anticipata è uno strumento di governo del carcere, purtroppo è così, se tutti i detenuti sanno che non hanno nulla da perdere, il carcere diventa ingestibile, di conseguenza c’è un riconoscimento della funzione sostanziale di questa norma, che è quella di rendere governabile sotto il profilo dell’ordine interno il carcere.
Ornella Favero: Sul fatto della liberazione anticipata, forse bisognerebbe spiegare che comunque in tutti i Paesi ci sono dei sistemi analoghi. Rispetto alle persone incensurate, per esempio, ci sono paesi come la Germania, in cui se hai un comportamento corretto in carcere devi scontare solo metà della pena. Ma voi non provate mai il desiderio di informare di più, vedendo che il vostro ruolo è completamente stravolto sui giornali e in certe trasmissioni televisive?
Marcello Bortolato: Il Magistrato dovrebbe parlare solo con i provvedimenti, ogni volta che qualcuno ha cercato di andare un po’ al di là, è stato accusato di uscire dai suoi ambiti, insomma il nostro mestiere è delicato, noi non possiamo sempre cercare di spiegare perché abbiamo preso una tal decisione né possiamo sempre correggere un’informazione sbagliata o tendenziosa, informare sulle nostre decisioni spetta ad altri. Dobbiamo infine coniugare il nostro diritto ad esprimerci liberamente – come qualunque cittadino – al dovere di imparzialità che ci impone la legge.
Ornella Favero: Per capire quanto pesa l’informazione basta vedere un “esperimento” che abbiamo fatto con i ragazzi di una scuola, che sul caso di Pietro Maso hanno letto alcuni articoli dei grandi quotidiani, e poi alcuni articoli che hanno scritto i detenuti della nostra redazione per il Mattino di Padova. Allora una di questi ragazzi, che ha tredici anni, scrive in un suo testo di commento a questa notizia: “Ma poi questa semilibertà, si può definire una vera libertà? secondo me no, secondo me vuol dire solo allargare i confini del carcere, perché uno non è poi così libero se deve stare attento a qualsiasi cosa faccia e in qualunque posto vada”. Quindi questa ragazzina ha capito, leggendo degli articoli con punti di vista diversi, che la questione è più complessa di come la fanno tanti giornali.
Marcello Bortolato: Ma i ragazzi sono molto più attenti e più intelligenti, di quanto a volte li si voglia dipingere e sicuramente hanno degli insegnanti altrettanto intelligenti che li possono guidare ad allargare le loro conoscenze.
Silvia Giralucci (giornalista, volontaria in redazione): Nelle critiche che vengono spesso rivolte alla stampa, è insita l’idea che i giornali debbano educare. A mio avviso i giornali sono lo specchio, non il lume della società. Hanno il dovere di informare correttamente, ma anche di interessare i loro lettori. Quando lavoravo in un quotidiano mi sono spesso trovata in difficoltà perchè l’esiguità dello spazio a disposizione rendeva impossibile dare conto dei diversi punti di vista, dei grigi, e in questi casi nel fare delle scelte si tende a privilegiare la storia che “fa notizia”, quella che si ritiene piacerà al lettore e farà vendere il giornale. Sulla questione dei permessi premio dei detenuti, quando anche un giornalista si renda conto di questa complessità, può, per esempio farci una scheda, se lavora in un giornale dove questo tema è sentito, ma un quotidiano non riesce assolutamente a entrare nel merito. Non c’è il tempo, non c’è lo spazio, perché si parte dal presupposto che probabilmente i lettori non sarebbero interessati. Travaglio con quella uscita ha centrato un problema, era sicuramente un paradosso e ha fatto notizia, ha dimostrato di essere un bravo giornalista perché è riuscito a catturare l’attenzione. Certo, da una parte c’è un po’ di malafede, e dall’altra c’è la necessita di costruire una notizia. Il problema della rappresentazione infedele della realtà non riguarda solo la realtà carceraria. Voglio dire, se guardiamo la sanità, anche i medici hanno la stessa difficoltà: basta un paziente che si lamenti, e la notizia è che in quell’ospedale si muore e la sanità fa schifo. Quello che mi veniva in mente per cercare di far si che almeno i giornalisti abbiano coscienza di quello che scrivono, è cercare di avere un rapporto con l’Ordine nazionale dei giornalisti, per inserire questi tipi di studi nel programma per l’esame di stato di giornalista professionista. O di organizzare dei piccoli corsi di aggiornamento con gli Ordini regionali, da proporre ai giornalisti che fanno cronaca nera e giudiziaria.
Ornella Favero: Sì è quello che vorremmo proporre, un seminario qui dentro sui temi della giustizia, per i giornalisti di giudiziaria e di cronaca nera. Anch’io non credo che i giornali debbano educare, però informare, e non disinformare, questo sì. Perché poi secondo me la disinformazione passa non tanto sulla notizia falsa, quanto sulla mezza notizia, che diventa di fatto peggio della notizia falsa, nel senso che non è smentibile immediatamente. Il discorso di Travaglio, io lo trovo discutibile, perché ha fatto una ricostruzione del sistema giocata proprio sulle mezze verità, sul paradosso del caso limite che non è mai successo e che mai succederà. Del resto, qualsiasi telefilm americano sulla giustizia spiega il loro sistema senza scandali meglio di quello che fanno tanti nostri giornalisti: lì c’è la persona che esce su cauzione, qui direbbero “è già libero”. Senza spiegare che se quello però verrà condannato, poi entrerà in carcere. Silvia Giralucci: Questo dipende anche dalla preparazione e dalle fonti del giornalista. In casi come quelli della scarcerazione di pluriomicidi magari il cronista interpella l’avvocato delle parti civili, che gli mette una pulce nell’orecchio, e il giornalista che non ha né il tempo né gli strumenti per valutare la riporta, senza – e questo sì colpevolmente – citare la fonte.
Marcello Bortolato: Oppure cita solo le fonti di polizia, perché spesso invece di chiedere al giudice o all’ufficio giudiziario, chiedono alla questura, o ai carabinieri. Però, secondo me, il dato della preparazione professionale di un certo giornalismo che si occupa di giudiziaria è un dato oggettivo, purtroppo anche noi leggiamo delle notizie, che spesso sono delle mistificazioni, ecco è vero che il giornalista fa il suo lavoro, vende un prodotto, il prodotto va, ma se non rende un servizio buono per i cittadini, allora quello è un cattivo giornalista. Silvia Giralucci: Il giornalista parla con la polizia probabilmente perché è un interlocutore abbastanza informato e soprattutto disponibile. Il pezzo va scritto in giornata, contattare un magistrato con questi tempi potrebbe essere così difficile che il cronista preferisce scegliere una strada dove è più probabile trovare le informazioni che cerca.
Marcello Bortolato: Sì, ma si può contattare il Magistrato non sul caso specifico, è ovvio che il Magistrato del caso Maso non dirà mai con che motivazioni gli ha dato la semilibertà, perché c’è il provvedimento che parla per lui. Però quanto meno un Magistrato può spiegare che cos’è la semilibertà, che cos’è la liberazione condizionale, può dire come stanno le cose oggettivamente. Per esempio di recente il dottor Tamburino, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, ma anche responsabile del Coordinamento nazionale dei Magistrati di Sorveglianza, è stato intervistato quando si parlava del braccialetto elettronico, e anche lì si andavano dicendo le cose più impensabili, per fortuna che lui ha potuto dire alcune cose oggettive. Secondo me, così si rende un servizio al lettore, che è messo in grado di capire di più.
Giovanni Maria Pavarin: Prima Occhipinti ha parlato dell’articolo di una giornalista, che è considerata esperta di cronaca giudiziaria, ma un conto è fare cronaca giudiziaria, e un conto è essere a conoscenza dei temi dell’esecuzione penale. Sono due mondi non dico contrapposti, ma molto distanti, quindi è difficile trovare un giornalista che faccia correttamente cronaca di esecuzione penale, non ne ho ancora conosciuto uno.
Daniele Barosco: Io vorrei porre un’altra domanda. Prima dell’indulto in questo carcere c’erano più o meno 700 persone, come ce ne sono adesso, allora è possibile sapere il motivo per cui le persone che andavano in permesso prima dell’indulto erano moltissime, e adesso sono una sessantina, e le persone ammesse alle misure sono molte di meno rispetto a prima? Cioè c’è un motivo particolare, c’è stato, come nel crac delle borse, anche il crac dell’indulto che ha prodotto questo effetto secondario, oppure sono cambiati i criteri di valutazione? Lo chiedo perché si vive meglio nelle sezioni quando si vede che le persone che hanno pene brevi, con delle situazioni famigliari solide, con una offerta di lavoro, trovano la loro possibile collocazione fuori dal carcere, e vengono ammesse ai benefici.
Giovanni Maria Pavarin: Personalmente non mi pare di aver cambiato il metro di giudizio, ma forse è aumentata l’esperienza, forse sono aumentate le delusioni, non escludo che di benefici, invece di darne 10, oggi ne do 9, non lo escludo. Però mi sembra più o meno di ragionare allo stesso modo, ho detto di no, per esempio, a tre persone che conosco da tantissimi anni, che hanno avuto due carcerazioni con me, che hanno avuto permessi con me, e alla fine gli ho risposto: guarda, è vero che tu finisci la pena fra poco, ma con me hai chiuso, mi hai pugnalato due volte, e con me hai chiuso. Spero che ti arrivi un altro Magistrato che non ti conosce, però io ti ho dato fiducia due volte e l’hai tradita tutte e due le volte, allora ti finisci la tua pena e siamo a posto così, chiunque di voi credo e spero ragionerebbe come me al mio posto.
Marcello Bortolato: Se posso aggiungere qualcosa per quanto mi riguarda, la valutazione è sempre esclusivamente personale e individuale, voglio dire che noi non facciamo politica criminale, cioè non diciamo che d’ora in poi saremo più severi o d’ora in poi più buoni, ogni volta un fascicolo è una storia a sé, un fascicolo è una persona, è un caso a sé. Quindi per quanto mi riguarda io continuerò a valutare i casi uno per uno indipendentemente dagli altri, perché se uno mi ha deluso, la delusione evidentemente deve ripercuotersi solo su di lui.
Braccialetti inutilizzati? Forse inutili e troppo costosi Il braccialetto elettronico fu introdotto nel 2000 in via sperimentale nelle città di Milano, Roma, Napoli, Catania e Torino allo scopo di aumentare il controllo delle persone sottoposte agli arresti domiciliari. Il 6 novembre 2003, ad esperimento concluso, il Ministero degli Interni siglò un accordo con Telecom Italia che avrebbe dovuto fornire e installare le apparecchiature per un costo, pari a circa 10,3 milioni di euro per il 2003 e un canone annuo di 10 milioni e 899 mila euro dal 2004 al 2011. Quasi undici milioni di euro all’anno per un servizio che è rimasto finora pressoché inutilizzato. Se si ipotizza di utilizzare i braccialetti elettronici per le persone già condannate in via definitiva che siano in detenzione domiciliare, è il caso di riflettere sul fatto che forse non ha senso spendere tanti soldi per questi braccialetti, visto che il rischio che le persone, che scontano una parte della pena all’esterno in misura alternativa, tornino a commettere reati è bassissimo (0,45 per cento). Un incontro in redazione con Gianluca Amadori, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto Giornalisti a scuola in galera? Pensiamo a un percorso che punti a portare periodicamente i giornalisti all’interno del carcere, per parlare di giustizia, carcere, esecuzione delle pene, e per riflettere sul valore delle parole, perché quando si scrive le parole hanno la concretezza delle storie, delle persone, delle sofferenze di cui raccontano
a cura della Redazione
Gianluca Amadori è da poco presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto. Quando lo abbiamo invitato a un incontro nella nostra redazione – anche perché ci sentivamo “maturi” per stabilire un rapporto con l’Ordine, “osando” proporre un seminario di confronto e formazione sui temi del carcere e dell’esecuzione della pena proprio qui, in galera – ha subito dimostrato interesse per la nostra proposta ed è venuto a discuterne direttamente con noi.
Gianluca Amadori: Ho ricevuto il vostro invito con la proposta di organizzare nella vostra redazione un seminario sulle questioni riguardanti la giustizia, le pene, il carcere. Non è per cercare giustificazioni ai giornalisti, ma effettivamente il nostro è un lavoro che si fa spesso in fretta, che è sull’attualità, per cui trovare la precisione, l’attendibilità perfetta è impossibile. D’altronde è verissimo che nelle redazioni si insegna sempre di meno, molti giornalisti non sono preparati. Proprio per questo l’Ordine sta cercando di fare un ragionamento sulla loro preparazione, sulla formazione. Sono convinto che i giornalisti devono confrontarsi, devono essere con e tra la gente, perché i primi che ci giudicano e hanno il diritto di criticarci sono quelli che ci leggono. La vostra redazione mi ha proposto un percorso, per creare dei momenti di incontro e di discussione. Credo sia una proposta importante perché i colleghi, e io sono il primo, conoscono poco la realtà del carcere, probabilmente per la gran parte non ci sono neppure mai stati. Ritengo che tutte le notizie, quando c’è un interesse pubblico, debbano essere date, ma bisogna porsi il problema di come vengono date, avere la consapevolezza che dall’altra parte ci sono persone, dunque rispettando la dignità delle persone. Pertanto trovare dei momenti di incontro è il primo passo. Magari poi sarebbe bello creare un percorso, e portare periodicamente i giornalisti all’interno del carcere, per far capire che le cose che si scrivono sono delle cose concrete, dove ci sono persone, storie, con dietro dei drammi personali. Credo che potremmo essere aiutati a capire un po’ di più chi è dall’altra parte, a usare le parole in maniera meno superficiale, più attenta, e più rispettosa soprattutto delle persone. Da parte dell’Ordine ci sono perciò una apertura e un interesse molto grande verso questi temi.
Elton Kalica: Intanto grazie, perché così abbiamo l’opportunità di aprire questo confronto con voi, perché anche noi ci troviamo a far parte dei lettori, anzi forse noi leggiamo in un modo più accanito i giornali, che sono una delle poche finestre che abbiamo per guardare alla società civile, e a quello che accade fuori. Oggi ci troviamo ad avere a che fare con un modo di dare le notizie, che spesso crea un cortocircuito tra informazione, politica e opinione pubblica, che poi finisce per tradursi in un peggioramento delle normative che riguardano noi che stiamo in galera, ma anche in generale si ripercuote su tutto quello che riguarda la giustizia, le pene, il sistema carcere. Quello che vorremmo fare allora con i giornalisti è confrontarci con loro, ragionare, se possibile, su due caratteristiche dell’informazione che ci interessano, la sobrietà e la correttezza, ma anche sul modo in cui vengono trattati i dati e vengono interpretate le leggi. Negli articoli di cronaca giudiziaria noi vediamo che i giornalisti prendono in mano le sentenze e fanno dei conti sommari. Faccio un esempio, si dice: uno prende una condanna a 30 anni, ma se togli un terzo per l’incensuratezza, se togli un terzo per il rito abbreviato, se togli 5 anni di liberazione condizionale, se togli 3 anni di liberazione anticipata… alla fine fai 3 anni di carcere… mentre noi qui ci guardiamo in faccia, ed essendo persone che abbiamo preso delle condanne molto alte, notiamo che la galera ce la stiamo facendo tutta, e con pochi sconti. Marino Occhipinti: Sempre su questi temi, noi ci siamo incontrati qui anche con i magistrati di Sorveglianza, ed è emerso che c’è questa necessità di aggiornamento, perché soprattutto sull’esecuzione penale c’è poca conoscenza in generale, non solo per quanto riguarda i giornalisti. Io ricordo che quando ho finito tutti i processi, e sono diventato definitivo, l’avvocato che mi aveva seguito fino ad allora, un bravissimo avvocato di 65 anni, quindi non uno sprovveduto, mi disse: guarda da oggi ti arrangi, perché io sull’esecuzione della pena non so nulla. Quindi se questo lo diceva un avvocato che aveva 40 anni di esperienza, capiamo quanto possa essere difficile per un giornalista, e soprattutto per dei giornalisti praticanti. Io ieri sera leggevo le Regole minime emesse dall’Europa sui penitenziari, splendide, peccato poi che quelle regole sono applicate in alcune carceri all’uno per cento, in altre al 20, in altre ancora al 30, allora credo che, oltre a leggere l’Ordinamento penitenziario, bisogna scontrarsi poi con quello che in realtà succede. Perché per esempio scrivere che il Magistrato di Sorveglianza i permessi premio non te li può negare se ti comporti bene, mi sembra che sia una assoluta falsità, perché per ottenere i benefici ci vuole ben altro, che non il solo buon comportamento. Perciò mi fa piacere trovare una porta aperta stamattina, nel senso che ancora prima di cominciare la discussione c’è un riconoscimento da parte sua della necessità di affrontare certi temi, e quindi credo che oggi si potrebbe invece fare un passettino in avanti e provare a fissare dei punti sui quali fare questi seminari, e come farli. Gianluca Amadori: Capita che io venga attaccato dai colleghi, perché cerco di dare all’Ordine un’immagine che non sia quella di una casta. Difendo i giornalisti se vanno difesi, se non vanno difesi vediamo quali sono le critiche. Secondo me l’informazione in questo momento in Italia ha dei grossi problemi. Eccesso di spettacolarizzazione, per esempio: tutto sembra un reality. Per recuperare dignità professionale dobbiamo confrontarci su questo. La nostra forza è la qualità dell’informazione, l’attendibilità, la credibilità, e a questo si arriva attraverso una formazione sempre migliore. Perché nascono alcuni di questi problemi? Perché gli editori, invece di investire su professionisti, prepararli e pagarli adeguatamente, spesso fanno scelte diverse. Nei giornali sempre di più chi scrive, chi fa cronaca, sono ragazzi appena entrati che vengono pagati pochissimo. Che qualità di informazione vogliamo avere, se al primo che passa per la strada diamo un microfono in mano e lo mandiamo in giro? Dobbiamo cercare di vedere quali sono i punti critici e di far crescere tra i colleghi una sensibilità, perché solo così si riesce ad arrivare ad un’informazione migliore. Secondo me Elton Kalica ha detto una cosa assolutamente giusta, il problema è di correttezza e di sobrietà delle informazioni. Abbiamo un codice deontologico che ci impone di scrivere tutto quello che noi sappiamo o di cui veniamo a conoscenza, per dare un’informazione più completa possibile, il problema poi è come lo scrivi. È giusto scrivere “catturato il mostro”? Secondo me no, tu stai parlando comunque dell’arresto di una persona, e devi cercare di dare un’informazione più completa possibile, ma con sobrietà e senza usare tante parole che non servono, questa è la cronaca. Oggi su questi temi c’è una forte strumentalizzazione politica, per cui è la politica che cerca di trascinare l’opinione pubblica da una parte o dall’altra, adesso c’è l’emergenza criminalità, sembra che siamo un paese dove non si può più girare per strada. E su questo i giornali hanno spesso la responsabilità di forzare troppo i titoli, in alcuni casi anche di portare avanti certe tematiche per motivi che sono soprattutto politici. Credo comunque che riunire e portare qui i giornalisti di giudiziaria e di nera sia un passaggio importante per aprire un confronto su questi temi.
Ornella Favero: La nostra proposta è esattamente questa, e siamo anche consapevoli e molto realisti, sul fatto che non possiamo chiedere che un giornalista non scriva certe cose, o scriva come piace a noi, però vorremmo approfondire dei temi. È proprio per approfondire le questioni del carcere e delle pene che noi facciamo questo progetto faticosissimo con le scuole, dove prima andiamo noi con alcuni detenuti in permesso, e poi vengono loro qui a gruppi di due classi alla volta: con gli studenti misuriamo tutti gli effetti di certi luoghi comuni sul fatto che nessuno in Italia “si fa la galera”, li invitiamo a guardare il caso della Franzoni, adesso lei è in carcere, ma fuori non si sono neanche accorti che lei dopo la condanna è stata riportata dentro. Io sono arrivata al punto che penso che qualche giornalista bisognerebbe denunciarlo per “istigazione a delinquere”, qualcuno di quelli che continuano a sostenere che le pene in Italia sono bassissime e in carcere non ci finisce nessuno. Gianluca Amadori: A me piacerebbe portare qui anche i direttori, perché i giovani colleghi, una volta che gli spieghi come stanno le cose, hanno una certa sensibilità, però i direttori vogliono vendere i giornali, allora del caso gli interessa relativamente, ed è anche su quello che bisogna lavorare, quindi se riusciamo a portarli qui sarebbe una bella cosa.
Marino Occhipinti: Io credo si debba discutere tutto sommato di cose semplici, forse banali: se si parla di indulto, per esempio, prima dell’indulto eravamo 62.000 detenuti, adesso siamo in 59.000, e allora si dice che l’indulto non è servito a niente, che sono rientrati tutti in carcere. No, non è così, e forse andrebbe spiegato che è rientrato il 30 per cento, che non sono tutti, forse andrebbe spiegato che l’aumento dei detenuti è dovuto a norme più restrittive, a pene più severe su alcuni reati. Io ho un articolo qui dove si dice che solo 4 detenuti su mille in misura alternativa tornano a commettere reati, però questo lo trovi sul Sole 24 Ore o su Ristretti, e pochissimi altri giornali ne parlano, allora io credo che quel dato lì a volte i giornalisti dovrebbero sforzarsi di infilarlo magari quando si discute di casi eccezionali come quello di Izzo, o dì Minghella, o di Piancone che sono sempre i soliti che fanno discutere, sui quali poi propongono dì abolire la legge Gozzini, ecco alcuni dati secondo noi andrebbero davvero sviscerati, tirati fuori, e discussi di più. Daniele Barosco: Poi ci sono dati che raramente riusciamo a trovare pubblicati: ho qui dei dati del Ministero delle Finanze, che dicono che sono stati liquidati in 4 anni 212 milioni di euro per ingiusta detenzione. Quindi ci sono 3.000 persone che sono state liquidate, ma che hanno cause pendenti ce ne saranno molte di più, e invece succede che tanti giornalisti danno già per colpevole la persona ancora prima che sia stata arrestata e portata in carcere. Ma io non ho mai sentito che un ministro dica: guardate che abbiamo liquidato milioni di euro per ingiusta detenzione, e che migliaia di persone hanno fatto anni di carcere innocenti. Certo nessuno è un santo qui, se no non saremmo in carcere, ma perché poi voi quando ci sono delle assoluzioni su casi di cui avete scritto come se fossero già colpevoli, non mettete delle smentite significative? Gianluca Amadori: Quello che tu dici ha dei fondamenti di verità, così come è indubitabile che ci sono anche dei giornalisti che fanno bene il loro mestiere e che fanno delle cronache corrette. Che non si diano le notizie delle assoluzioni, questo non è vero sempre, è vero anche che una notizia, data dieci anni dopo, non può avere lo stesso spazio in pagina. Cioè la notizia fa effetto quando è immediata, quando è di attualità, dieci anni dopo interessa di meno e ha un trattamento diverso, questo purtroppo è un meccanismo al quale non è facilissimo porre rimedio, dopo di che, il fatto che tu ti arrabbi io lo prendo assolutamente come una cosa legittima, e sono convinto che sia giusto dare un’informazione più equilibrata, non soltanto ad effetto e non soltanto puntata sulla cosa emotiva. Cosa io posso fare all’Ordine quando ricevo delle segnalazioni? Io vi posso dire che abbiamo aperto all’Ordine del Veneto in un anno 100 procedimenti disciplinari nei confronti di colleghi, perché facevano pubblicità, per conflitto di interessi, per notizie date in maniera poco corretta. Io credo che sia un cammino difficile, ma doveroso da fare quello di riuscire a trovare un equilibrio tra l’esigenza di giornali e Tv di stare sul mercato e quella di dare le notizie con equilibrio. Voi mi chiedete perché certi dati non escono. Perché c’è tanta superficialità, c’è tanto pressappochismo, e su questo bisogna lavorare, ci sono i colleghi che si studiano le normative, e quando scrivono di cronaca giudiziaria o penitenziaria sono precisi, e ce ne sono altri che si sono buttati a fare il lavoro senza preparazione, o che non hanno voglia di approfondire, che sono meno precisi. Secondo me è necessario partire dall’alto, cioè ragionare con i direttori, quelli che danno la linea editoriale, sul fatto che la notizia va data e in maniera approfondita. Purtroppo la tendenza è di cercare di spararla più grossa possibile, perché così la gente compra il giornale. Che secondo me è una cosa che non tiene neanche dal punto di vista economico, perché la gente lo compra una volta, lo compra due e dopo si stanca.
Elvin Pupi: Io vorrei fare un’altra domanda: perché, quando una notizia è negativa, viene tirata fuori di nuovo anche dopo 10 o 15 anni? Gianluca Amadori: Prendi il caso di Maso, nel momento in cui Maso esce dal carcere. è una storia che ha tenuto i titoli sui giornali per mesi, per non dire per anni, come fai a non scriverne? Questo fa parte del meccanismo dell’informazione, dopo di che c’è questa tendenza da parte del giornalista di correre dietro a quelli che sono i lati emotivi, per cui poi si trovano tutti questi titoli con “è già fuori”.
Ornella Favero: Credo però che il discorso del “diritto all’oblio” abbia degli aspetti anche diversi, perché è giusto ritirar fuori il caso Maso, è una notizia quella della sua semilibertà, ma il problema secondo me è un altro, è quello di una persona che ha commesso un reato, ha scontato la sua pena, passano anni, c’è un’informazione che la riguarda di tutt’altro tipo, e però viene di nuovo messo in piazza il suo reato, processi, carcere. Io penso soprattutto alle famiglie, perché le famiglie delle persone detenute sono comunque delle vittime. Quindi ci sono situazioni nelle quali probabilmente è impossibile tutelare le persone, però ce ne sono per cui non è così inevitabile che uno si debba portare dietro questo destino per tutta la vita. Temi da trattare quindi ne abbiamo parecchi, teniamo conto anche che la nostra redazione si è conquistata degli spazi in un carcere, che è diventato davvero più aperto e “trasparente” di tanti altri, quindi se adesso noi proponiamo un seminario qui dentro, non troviamo grandi ostacoli, stiamo ragionando su cose fattibili e concrete. Gianluca Amadori: Oltre al seminario, che potrebbe essere un punto di partenza per costruire un percorso, credo sarebbe importante anche creare un punto di contatto, in modo che dal carcere escano tutta una serie di notizie, di dati, per i quali posso mettere a disposizione il giornale dell’Ordine, che va ai giornalisti, e il nostro sito, con dei link in cui le tematiche sul carcere vengano affrontate da dentro, con dei pareri, con dei dati, quindi creare anche un interfaccia giornalistico. Perché a volte il giornalista, anche quello bravo, i dati non li ha, ma il pezzo deve uscire in quel momento, non è che può uscire domani. Allora, il fatto di dargli degli strumenti e il sapere dove andare a cercare le notizie, le persone a cui chiedere, avendo così dei punti di riferimento, può essere importante, per cui possiamo costruire una rete del genere con dei referenti, che possono anche essere i volontari che lavorano in carcere.
Sivia Giralucci (giornalista e volontaria in redazione): Partendo da esempi concreti, oggi abbiamo individuato una serie di argomenti che spesso non vengono trattati in maniera corretta. Si potrebbe redigere e mettere online una piccola guida, con tutte le questioni che un giornalista di giudiziaria dovrebbe sapere, anche riguardo all’esecuzione della pena, e questa guida potrebbe essere inviata via e-mail a tutti i giornalisti iscritti all’Ordine, e consegnata ai professionisti o ai pubblicisti quando entrano a farne parte. Sarebbe anche importante indicare una serie di fonti che possono essere disponibili per un giornalista che deve scrivere di carcere. Nell’incontro con i Magistrati di Sorveglianza ci hanno spiegato che loro non possono commentare le sentenze, però hanno un Coordinamento nazionale, di cui è responsabile proprio il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia, che può farlo. Ristretti Orizzonti poi è già di fatto una agenzia di stampa, oltre che una rivista, perché ogni giorno manda a una mailing list di più di settemila persone una newsletter con una rassegna stampa sul carcere, che a detta di tutti quelli che la ricevono è fatta benissimo. Potrebbe diventare sempre di più anche una agenzia di informazione per i giornalisti. Ornella Favero: Noi abbiamo già elaborato una specie di miniguida proprio sulla terminologia, e sulle questioni meno chiare, relative alla giustizia, al carcere, all’esecuzione della pena. Mentre sulle modalità del seminario e sulla questione dei direttori, credo anch’io che sia interessante se si riesce a coinvolgerli di più, però per questo abbiamo bisogno che l’Ordine dia degli stimoli. Sulla questione del seminario invece a me piacerebbe che diventasse un’iniziativa stabile, nel senso che anche i praticanti possano avere questa possibilità. Se è difficile riunirli, si può fare un primo incontro, e poi pensare a momenti diversi di formazione. Ma anche i contenuti vanno un po’ studiati, perché noi abbiamo tirato fuori la questione della lettura dei dati, ed è importante, ma ci interessa anche il linguaggio. Tu hai parlato di usare le parole in maniera meno superficiale, noi la questione della scelta delle parole la riteniamo centrale. Spesso quando incontriamo gli studenti, cerchiamo di ragionare con loro anche sui reati, e per esempio sugli omicidi che avvengono nel corso di risse tra ragazzi, o per guida in stato di ebbrezza. Allora qui abbiamo discusso tantissimo su questa orrenda forma dell’italiano che è “… e poi ci è scappato il morto”, e abbiamo deciso che non si può dire che ci è scappato il morto, perché se guidi la macchina ubriaco e uccidi qualcuno, non c’è scappato il morto, qualcuno ha ucciso una persona.
Quindi mi piacerebbe che affrontassimo le questioni tecniche, le questioni di linguaggio, e il modo di raccontare le storie.
Mi viene in mente di nuovo il modo in cui, della storia giudiziaria di una persona in attesa di giudizio agli arresti domiciliari o in libertà, si scriva che è già fuori, ma si taccia il resto: che cioè può succedere, come è capitato qui dentro a Marco, che ha raccontato la sua storia per il Mattino di Padova, che si entri in carcere per scontare una pena 16 anni dopo la commissione di un reato. Quindi questa è una cosa su cui mi piacerebbe stimolare i giornalisti, fargli venir voglia di raccontare delle storie di persone, e dopo quanto tempo si ritrovano a scontare la pena. Perché poi quando nelle scuole raccontiamo queste storie, cascano tutti dalle nuvole, qualche giorno fa abbiamo visto che un ragazzo era molto preoccupato, e poi alla fine è venuto a dirci che ha una denuncia per un furto, e pensava di non aver molto da preoccuparsi, che tanto in Italia in carcere non ci va nessuno… Marino Occhipinti: Prima abbiamo anche parlato di giornalisti bravi, che studiano l’Ordinamento penitenziario, il Codice penale e magari la teoria l’hanno imparata benissimo, ma nella pratica poi non funziona così. Io mi ricordo un senatore della Lega, che fece un’interrogazione parlamentare dove diceva che in carcere c’erano celle con l’acqua calda, possibilità di studiare, il barbiere, la scuola, le attività, il lavoro, e quindi chiedeva come sia possibile che in carcere ci siano tutte queste cose, che non sono garantite neanche ai cittadini liberi. Sicuramente lui aveva letto l’Ordinamento penitenziario, dove certe cose sono previste, ma spesso restano sulla carta, quindi se un giornalista legge l’Ordinamento, rischia di fare anche sui benefici lo stesso errore. Per esempio, legge che ci sono 45 giorni di sconto per buona condotta, su ogni semestre di pena scontata. Poi se adesso uscendo da qui qualcuno fuma una sigaretta in corridoio, i 45 giorni li ha persi, cioè mentre tu rischi una multa se fumi dove è vietato, noi rischiamo di perdere lo sconto di 45 giorni di galera. Forse in questi incontri ci sarà proprio il bisogno, per spiegare come funzionano materialmente le cose, di fare questi esempi, che sono piccoli ma poi sono quelli che regolano la nostra vita, i nostri percorsi. Gianluca Amadori: Io sinceramente lo vedrei proprio come un momento di confronto, nel senso di come voi oggi a me avete posto tutta una serie di problemi, facciamo una scaletta di temi, e poi poniamo all’ordine del giorno di quella giornata un tema o anche più di un tema e focalizziamo l’attenzione su quello. Che può essere da un lato una serie di critiche, e dall’altro una serie di proposte di collaborazione, di dati messi a disposizione, ed eventualmente anche di storie che qualcuno vuole raccontare, perché mettere il dato freddo vuol dire tutto e non vuol dire niente.
Marco Libietti: Sì, a volte non è soltanto un dato, 16 anni in attesa della sentenza definitiva come è capitato a me: c’è tutto un mondo dietro, quello che è passato in quei 16 anni, l’idea che domani ti vengono a prendere, che domani possa accadere quello che stai aspettando. Mia moglie ha vissuto con il sistema nervoso sempre alterato, arrivava il postino nell’ora sbagliata, io non ero a casa, lei mi telefonava agitata, e magari era solo una lettera dell’avvocato. E poi sono entrato in carcere a 50 anni, beh preferivo sinceramente entrarci a poco più di trenta e oggi avrei finito e forse dimenticato questo periodo. Poi magari uno può dire che potevo non farlo, il reato. Io l’ho fatto e me ne sono assunto le mie responsabilità, e allora dovevano farmelo pagare prima, e mi evitavano quegli inutili 16 anni. Quando sono venuti a prendermi, e sono venuti mesi dopo che ero passato definitivo e che c’era l’ordine di carcerazione, io ho raggiunto quasi uno stato di pace. È logico raggiungere uno stato di tranquillità nel momento in cui tu entri in carcere? Sì, alla fine questo è stato, paradossalmente. Franco Garaffoni: Se si pensa che entrano 100.000 persone all’anno in carcere, e ne escono 97.000 o 98.000, perché non si possono tenere tutti in galera in attesa di giudizio, le persone destinate ad andare ai processi avranno presumibilmente dei tempi per diventare definitivi di 15, 16, 17 anni. Io i miei primi reati li ho fatti negli anni 70 e 80. Ma quella falsa impunità, e quella falsa possibilità di continuare a vivere libero che lo Stato ti dava arrestandoti e rilasciandoti, arrestandoti e rilasciandoti, significa poi che lo Stato perde l’occasione di intervenire sul detenuto, di lavorare sul detenuto. Così finisce che lo Stato stesso favorisce un evolversi delinquenziale nelle persone, perché è chiaro che io forse avrei capito qualche cosa, se mi avessero fermato allora, ma se ti arrestano e ti lasciano andare e ti processano dopo 14 o 15 anni… Io poi ho proseguito nella mia carriera criminale, però c’è anche chi, e sono i più, si è fatto un’altra vita, ma quando diventa definitivo lo arrestano lo stesso, quindi se oggi noi abbiamo dei delinquenti, ne abbiamo anche perché lo Stato non è mai intervenuto con chiarezza. Ornella Favero: Questo secondo me è un tema cruciale, perché quando si parla di certezza della pena, il problema va spostato, quello che manca è la tempestività della pena, e qui possiamo veramente intrecciare l’informazione con le storie delle persone. E poi credo che sia fondamentale che diamo ai giovani, e anche agli stranieri, delle informazioni più chiare sul nostro sistema penale. Maher Gdoura: Sì, è importante anche per gli stranieri, che capiscono poco di come funziona il vostro sistema, perché io sono stato denunciato e sono rimasto fuori, non mi hanno mai arrestato e forse mi sono illuso di averla fatta franca, intanto sono andato in Francia mi sono regolarizzato avevo una vita nuova, una moglie una famiglia e tutto. Poi sono tornato in Italia e mi hanno fermato, e mi sono trovato con una condanna in contumacia a 18 anni, per vari episodi di spaccio, otto anni dopo che avevo commesso i reati. Praticamente è come dire a una persona come me, che ha cercato di fare i conti con se stessa e di cambiare, che deve ritornare alla vecchia strada. Lucia Faggion: Qualche volta penso che sarebbe importante ricordare ai giornalisti che il Codice penale è un codice che risale all’epoca fascista, e fare un ragionamento sulle nostre pene in confronto con le normative di altri Paesi, perché si suppone sempre che le pene previste dal Codice in Italia siano tutte basse, in realtà le nostre pene sono le più elevate d’Europa. E sarebbe giusto, secondo me, che il messaggio passasse anche attraverso la testimonianza di chi sta qui dentro, che è una testimonianza reale di cosa significa la privazione della libertà e quanto può essere devastante l’esperienza di un lungo numero di anni di carcere, devastante innanzitutto per la società alla quale poi quella persona ritorna, e questo la gente fa fatica a coglierlo perché è male informata e ha questo desiderio di soddisfazione attraverso il carcere, il carcere diventa la risposta a tutto. Gianluca Amadori: Io credo che la politica giudiziaria sia stata gestita in questi anni in maniera allucinante, senza neppure mai arrivare alla riforma del Codice penale. E ogni volta le riforme vengono fatte solo sull’onda emotiva. Basta guardare l’ultimo caso di un ragazzo che ha ucciso una coppia in un incidente stradale, e gli hanno contestato l’omicidio volontario, e non so neppure dal punto di vista giuridico come stia in piedi una sentenza del genere, su questi temi qui io credo che noi dovremmo scrivere un po’ di più e più approfonditamente. D’altro lato c’è una politica, che purtroppo o fa finta di non sapere, o usa queste notizie strumentalmente per altri fini, e credo che sia ancora più grave.
Sandro Calderoni: Credo però che siano proprio i giornali e le tv che cavalcano queste situazioni: parliamo dei casi degli incidenti stradali, si creano sempre le emergenze, mentre i problemi andrebbero affrontati razionalmente, con maggiore attenzione alla prevenzione. E invece non si fa altro che inasprire il clima, e poi vediamo condanne per omicidio volontario, forse giuridicamente insostenibili, ma intanto a quel ragazzo gli hanno dato dieci anni di carcere, e questo magari sull’onda emotiva perché forse anche i giudici ne sono stati coinvolti. Gianluca Amadori: Certo, il giornalismo dovrebbe fare un po’ meno spettacolo, e un po’ più di riflessione. Io la prima cosa che ho fatto quando sono stato nominato presidente dell’Ordine dei giornalisti del Veneto è stata di convocare gli stati generali sull’informazione del Veneto, dove ho cercato di portare tutti i colleghi a discutere su questi temi, dicendo che dobbiamo abbassare i toni e fare meno informazione-spettacolo. Credo comunque che l’approccio che avete avuto voi oggi sia ineccepibile, nel senso che siete partiti analizzando delle notizie decisamente trattate in modo superficiale, i dati che non vengono forniti o vengono distorti, ecco queste cose secondo me non sono assolutamente contestabili.
Elton Kalica: Un altro dato che noi siamo andati ad analizzare è quello della permanenza media in carcere, queste oltretutto sono statistiche che hanno fatto al ministero, ma che davvero poi, per come sono state riportate sui giornali, hanno creato molta confusione. In pratica loro hanno preso tutte le persone detenute, in custodia cautelare o condannate per specifici reati, hanno sommato i tempi di permanenza in carcere e poi hanno diviso per il numero dei detenuti, creando così un dato sulla permanenza media in carcere, che risulta bassissimo, per esempio per i reati di rapina il tempo medio è di meno di 20 mesi, per il sequestro di persona, che è il reato che prevede delle pene altissime dai 25 ai 30 anni, la permanenza media è di 7 anni, cioè un dato che a noi sembra fuori da ogni realtà. Ecco questo dato è stato ripreso da tutti i canali televisivi, ma anche adesso di tanto in tanto lo ripropongono, magari per parlare di un singolo e specifico reato. Quindi se parlano di violenza carnale, fanno riferimento a questa statistica e dicono che chi violenta rimane in carcere per un massimo di due anni, è una statistica che continua ad essere usata e nessuno è andato a studiarsela un po’ più da vicino. Ornella Favero: Io da lì ho imparato che i dati bisogna comunque andarseli a leggere attentamente, quindi solo se hai una certa formazione e se sei una persona abbastanza informata hai anche la capacità di metterli in dubbio e verificarli. Ecco forse alla base della proposta del seminario c’è proprio questo, siccome l’arte del dubbio se uno non è preparato non la può esercitare, allora noi abbiamo cercato di ragionare su come contribuire alla formazione di chi si occupa di queste questioni. Prince Obayangbon: Qui abbiamo accennato ad alcuni problemi dell’informazione, io comunque alla fine ho visto che tante di queste notizie incomplete o non verificate sono riportate non inconsapevolmente, perché i giornalisti se volevano andare più a fondo potevano farlo, però spesso è comodo per loro non farlo. Io ho visto che i giornalisti in realtà oggi in Italia sono quelli che “fanno la politica” principalmente, perché sono lo strumento più efficace di una forza politica, e se si guarda qualche telegiornale si vede che quasi tutti dicono una stessa cosa, non c’è quello che possiamo chiamare giornalismo investigativo. Ho paura che alla fine, se ci sono questi interessi, sia difficile cambiare qualcosa. Spesso i giornalisti non vedono che io ho figli, non vedono che io sono una persona, vedono solo il potere, mentre io credo che il giornalismo oggi dovrebbe essere una professione che guida, che aiuta la formazione concreta di un paese. E invece è proprio un gioco, parlavamo prima di emergenze, quando in un giorno succedono tre incidenti siamo in piena emergenza come se ne fossero successi mille. Ma se voi prendete un problema e questo viene trasformato in una emergenza, cosa pensate che facciano i legislatori? faranno vedere alla popolazione che loro sono lì per combattere questi fenomeni. Questa questione io la vedo come il gatto che si mangia la coda. Perciò dobbiamo capire dove possiamo risolvere questo problema, che forse non è sempre un problema di ignoranza, non è il problema che non ci sono fonti per l’informazione, ma che spesso è comodo così, e allora sarà molto più faticoso cambiare. Franco Garaffoni: Io ho la sensazione che oggi stampa e tv vogliano praticamente dire alle persone quello che loro vogliono sentirsi dire, allora forse non è più informazione e non è più neanche una cronaca, forse si cade nella narrazione, si diventa più scrittori che non giornalisti. Io racconto quello che viene ravvisato dalla società come fonte del suo malessere sociale, se il malessere sociale è orientato sugli incidenti, allora io lavoro su quello, però non faccio il giornalista, non faccio cronaca, faccio il narratore di quelle storie che so che incontrano l’interesse della gente: non è un po’ così il meccanismo? Elton Kalica: Vorrei aggiungere una cosa brevemente su questo tema, perché ho sentito pochi giorni fa in televisione un giornalista che intervistando Carlo Lucarelli gli chiedeva: “Ma scusi, come mai lei da scrittore, si è messo a fare il giornalista?”. E lui ha risposto: “Finché i giornalisti continueranno a scrivere romanzi, allora ci toccherà a noi scrittori fare i giornalisti”. Adnen El Barrak: Credo che ci sia anche un altro problema: forse i lettori italiani sono ormai abituati a questo tipo di giornalismo, e se si cambiasse radicalmente, e si cominciasse a dare informazioni vere, non si venderebbero più i giornali. Forse davvero giornalisti e politici sono diventati “imprenditori della paura”, e quindi più la si dà crudele la notizia e più si vende e la gente compra. Allora per avere un cambiamento reale credo che ci sia bisogno di cambiare completamente mentalità al lettore, e davvero fare più giornalismo, e meno scrittura creativa. Gabriella Brugliera (volontaria): Mi sto chiedendo qual è lo scopo della paura che un certo giornalismo cerca di coltivare nella gente, questo me lo sto chiedendo da un po’ di tempo a questa parte, qual è la finalità, oltre a quella politica. Ad esempio quando si comincia a parlare di un fatto di emergenza - mi viene in mente il discorso dei sassi che venivano buttati dai cavalcavia, adesso degli incidenti stradali - io non credo che queste cose siano venute fuori tutte nello stesso momento, però da quello che si legge sui giornali o si vede in televisione, da come ci presentano la notizia, sembra che improvvisamente un fenomeno si verifichi quotidianamente, ecco io vorrei capire perché, o meglio che cosa c’è sotto. Gianluca Amadori: Io non credo che ci sia una regia politica. Invece sulla creazione della notizia c’è un meccanismo perverso, che secondo me sfugge anche al controllo del singolo, nel senso che ormai il meccanismo dell’informazione è di una velocità tale, che da un lato c’è internet, dall’altro ci sono le televisioni, tutti si rincorrono. Se andate bene a vedere le notizie che escono sui telegiornali, sono sempre le stesse dieci, che sono le stesse che vedrete il giorno dopo sui giornali, cioè agisce il meccanismo per cui tu non ti puoi permettere di bucare una notizia, quindi devi avere le stesse notizie degli altri. E questo è un meccanismo che porta a un’uniformità da un lato, e dall’altro quelle notizie sono poi le stesse che anche tu pompi, sulle quali punti per diventare più appetibile e per vendere. Credo che sia un meccanismo di autoalimentazione dell’informazione, che però non ha una regia di qualche tipo: la cronaca nera è sempre stata ed è il punto di forza di un giornale o di una televisione, e probabilmente sarà sempre così, perché fa più notizia una persona che muore, con tutto il dolore, gli amici, i famigliari. Il problema vero è che sono saltati gli equilibri, quindi probabilmente c’era lo spazio della cronaca nera, c’era lo spazio del caso positivo, c’erano gli approfondimenti, oggi gli approfondimenti non si fanno più, perché non c’è tempo, non vogliono investire soldi, e le redazioni sono sempre più strette. L’informazione sta diventando una merce sempre più veloce, la notizia si brucia nell’istante stesso in cui tu l’hai data, dopo di che non interessa più, allora non hai il tempo di approfondire, di tornarci sopra, di sentire le varie sfaccettature, questo è un grande problema. Però, il problema è anche rendersene conto. Noi giornalisti dovremmo riappropriarci della nostra professionalità: bisogna parlarne e bisogna trovare delle soluzioni.
Marino Occhipinti: Ci sono rimasti pochi minuti e vorremmo strappare una promessa, per vedere di portare avanti questo seminario Gianluca Amadori: Vediamo di riuscire ad organizzarlo in primavera, dobbiamo coinvolgere i colleghi, e costruire un progetto, secondo me va bene anche un momento di analisi critica, perché non si può prescinderne, purché poi si passi ad un piano costruttivo. Allora io cercherò di coinvolgere i direttori, sopratutto per far venire i colleghi che si occupano di nera e giudiziaria. Ovviamente io non ho la possibilità di obbligare i colleghi a venire, faremo una operazione di “moral suasion”. Sono davvero convinto che questa sia un’esperienza più bella che non andare ad un convegno a parlarci addosso.
Elaborazione del Centro Studi di Ristretti Orizzonti su dati del Ministero della Giustizia (Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria) e della Corte dei Conti Addio alla presunzione di innocenza? Meglio un innocente in galera che un presunto colpevole in libertà? Quanto ci sono costate le ingiuste detenzioni e gli errori giudiziari dal 2004 al 2007
di Daniele Barosco
In un recente sondaggio dell’ISPO, Istituto per gli Studi sulla Pubblica Opinione, alla domanda se preferiscono vedere un innocente in carcere piuttosto che un presunto colpevole in libertà, il 65 per cento degli italiani ha risposto che preferisce vedere l’innocente in galera piuttosto di rischiare che un presunto colpevole resti libero. Di innocenti in galera ce n’è comunque parecchi, come Melchiorre Contena che si è fatto “solo” trent’anni di ingiusta detenzione e altre migliaia di cui poco o niente sappiamo. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze dal 2004 al 2007 ha speso per ingiusta detenzione ed errore giudiziario la modica cifra di 212.979.100 euro! Tale somma è solo quella realmente liquidata, mentre migliaia di altre richieste sono tuttora pendenti. Le riparazioni del periodo indicato riguardano 3029 cittadini italiani e 391 cittadini stranieri. Il Ministro della Giustizia Angelino Alfano ci ha ricordato che in carcere vi sono il 50 per cento di persone in attesa di giudizio. La presunzione di innocenza e non di colpevolezza vige nel nostro ordinamento fino al terzo grado di giudizio. Moltissimi media scordano questo “futile dettaglio” e con processi sommari tutti televisivi incollano sentenze a destra e a manca. Ergastoli a più non posso, pene severissime a tutti coloro che sono coinvolti in incidenti stradali con esiti funesti, più carcere per tutti i reati più “fastidiosi”. Fatto sta che in carcere arrivano sempre di più quei cittadini che fino ad un minuto prima di bere due bicchieri di vino in più o due birre in più o prima di fumare uno spinello mai pensavano di finire all’inferno, in quell’inferno che si chiama carcere e che loro stessi auspicavano sempre più duro, vendicativo e punitivo. Ieri ho parlato con due di loro. Dopo i quarant’anni l’uomo dovrebbe essere quasi adulto, il carcere però li fa ridivenire bambini. Sono spaesati, impauriti, quasi terrorizzati, a volte piangono. Ma non erano gli stessi che il sabato prima di arrivare qui, al bar esultavano per l’ergastolo comminato ad Olindo e Rosa? Quelli che battevano le mani alla condanna a dieci anni comminata a Stefano Lucidi, colpevole di non aver rispettato un semaforo e aver ucciso così i due fidanzati di Roma? Anche i loro famigliari hanno cambiato sponda dopo un solo colloquio in carcere. Ora sono tutti più “possibilisti”, più consapevoli che in carcere, se continua questa gara alla carcerizzazione di massa, una probabilità di finirci ce l’hanno ormai in tanti. Una distrazione durante la guida, un bicchiere sorseggiato in più per festeggiare il Natale in famiglia o il Capodanno in compagnia di amici, un momento di sconforto in famiglia, di rabbia covata per anni che esplode all’improvviso senza segni premonitori. Perché allora non si ragiona più a fondo sul carcere? Perché non si cercano modalità diverse di punire e rieducare, ma anche nuovi strumenti di prevenzione? Oltre duecento milioni di euro saranno anche pochissimi, ma perché non usarli per rieducare, reinserire e responsabilizzare invece di spenderli per aver distrutto con una ingiusta detenzione tremila vite umane più quelle delle loro famiglie? E questi tremila innocenti liquidati dallo Stato, non valgono nemmeno una riga nei quotidiani e nelle televisioni? Non la valgono nemmeno le loro famiglie?
Elaborazione del Centro Studi di Ristretti orizzonti su dati del Ministero dell'Economia e delle Finanze Detenuto, ma quanto mi costi! Le carceri scoppiano, ma non di salute Quali sono i numeri del sovraffollamento e quali i costi delle persone che vivono sempre più ammassate nelle galere italiane?
di Daniele Barosco
Era il 13 ottobre 2008, quando il Ministro della Giustizia Angelino Alfano ha dichiarato: “Questa notte dormiranno nelle carceri italiane 57.187 detenuti”. Un po’ mi ricordava il linguaggio usato dal presidente degli albergatori di una nota località balneare quando riferiva delle presenze di turisti negli alberghi cittadini citando i pernottamenti di ferragosto. Ma quali sono i numeri del sovraffollamento e quali i costi delle persone che vivono sempre più ammassate nelle galere italiane?
Ma quanto costiamo davvero?
Il costo medio giornaliero di un detenuto è di 131,67 euro! Quanto un pernottamento in un albergo a quattro stelle. Solo che non si tratta di spese per il nostro mantenimento nel lusso, perché per tre pasti lo Stato spende per ogni detenuto 2,95 euro al giorno, e prima o poi manda il conto del mantenimento carcere: se infatti durante la carcerazione il detenuto ha la possibilità di lavorare, la quota del cosiddetto “mantenimento carcere” viene trattenuta direttamente dalla busta paga, in caso contrario la richiesta di spese pregresse sarà notificata al domicilio dell’ex detenuto. Che dovrà cominciare a pensare pure a quello, oltre agli altri mille ostacoli del dopo pena. Qual è invece il costo di un detenuto statunitense? È di circa 76 euro. A fronte poi di un organico di 43 mila unità di agenti di polizia penitenziaria, in Italia si conta un agente ogni 1,4 detenuti. In Europa la media è di un agente ogni tre detenuti. Negli Stati Uniti la media è di un agente ogni sette reclusi. Il costo del personale incide per circa l’80% del costo medio giornaliero calcolato per ogni singolo detenuto. Il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione ed il trasporto incidono per circa il 14,5%. I beni e servizi circa il 2,5%. Gli investimenti circa il 2%. L’informatica di servizio e gli oneri comuni circa per l’1%. Ma ci sono altri numeri importanti. 551 circa sono gli educatori, rispetto ai 1.376 previsti nella pianta organica ministeriale. Il rapporto fra educatori e detenuti è di circa 1 a 107. Gli assistenti sociali in servizio risultano essere circa 1.223, rispetto ai 1.630 previsti dalla pianta organica. Quindi il rapporto fra assistenti sociali e detenuti è di circa 1 a 48. Gli psicologi in servizio sono circa 400. Vi sono circa due psicologi per istituto. La media è ottenuta dividendo il numero degli psicologi per il numero degli istituti. Non viene detto però che la loro presenza in carcere si limita a poche ore al mese ciascuno. Il rapporto fra psicologi e detenuti risulta comunque di 1 a 148 circa.
Le “camere” dei detenuti
I dati che seguono provengono da una ricerca dell’associazione Antigone e riguardano le camere dei detenuti. Non ha la doccia in cella, come invece è previsto dal regolamento penitenziario del 2000 (D.P.R. n° 230/2000), l’89,4% dei detenuti. Non ha l’acqua calda in cella il 69,31% dei detenuti. Non ha il bidet il 60% delle detenute, madri e bambini compresi. Il 12,8% dei detenuti vive in celle dove il bagno non è collocato in un vano separato, bensì vicino al letto! Il 55,6% vive in carceri dove non sono consentiti colloqui visivi all’aria aperta. Il 29,3% non può accendere le luci dall’interno delle proprie celle. Gli interruttori sono situati all’esterno delle stesse. Il 7,69% vive in celle con schermature alle finestre che rendono insufficiente l’illuminazione naturale dell’ambiente, con tutte le nefaste conseguenze per la vista e il ricambio dell’aria. In questo ambiente perennemente sovraffollato spesso si passano “solo” venti ore al giorno! Il 18,4% invece vive in un ambiente costantemente illuminato artificialmente, è allucinante ma è verissimo. Gli israeliani pare usino queste tecniche di convincimento per piegare la forza di volontà dei terroristi palestinesi.
Chi lavora e chi, ahimè, non lavora affatto in carcere
Circa 12.000 detenuti lavorano alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria. Fra i circa 2.700 detenuti non alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria, circa 1.600 semiliberi sono alle dipendenze di datori di lavoro esterni. Altri 600 circa lavorano negli istituti per imprese (150 circa), e per cooperative (450 circa). Altri 500 circa lavorano all’esterno per cooperative o altri enti locali. Gli stranieri occupati rappresentano circa il 23% dell’intera popolazione lavorativa. Circa 4.000 lavorano per l’Amministrazione Penitenziaria, altri 400 circa per datori di lavoro esterni. Ce n’è ogni giorno, di gente che esce dal carcere a fine pena dopo aver scontato anni di galera praticamente senza far niente. Ne ho conosciuti molti, e molti sono quelli che ho visto uscire e poi rientrare. Guarda caso però, la maggior parte di queste persone erano tutti detenuti che mentre stavano in carcere non hanno potuto (qualche volta anche per loro volontà, ma per lo più per mancanza di risorse da parte del carcere), seguire un programma che prevedesse prima un percorso interno e poi un percorso graduale di reinserimento e così finisce che dopo anni di carcere una persona esce e, se sa fare il ladro torna a rubare, o se conosce gente che lo rifornisce di roba, torna a spacciare. Perché per sopravvivere sa fare solo quello, perché una volta uscito molto spesso gli unici “amici” che trova sono quelli che lo fanno rientrare in quei giri, perché la società non è molto accogliente, e quando sa che hai avuto a che fare con la galera difficilmente ti dà la possibilità di un lavoro. Cerchiamo comunque di non dimenticarci che ragionare sui numeri delle carceri è anche ragionare su che tipo di società vogliamo.
Fonte: D.A.P. - Ufficio per lo Sviluppo e la Gestione del Sistema Informativo Automatizzato - Sezione Statistica. (Situazione al 30/06/08) Non avendo più leggi punitive da inventare, vogliamo ripristinare quelle che abbiamo abrogato?
di Maurizio Bertani
Siamo un paese che ha depenalizzato nel 1999 il reato di oltraggio a pubblico ufficiale, previsto dal Codice penale Rocco, emanato in pieno regime fascista. Non avendo però più leggi punitive da inventare, stiamo per ripristinare quelle che democraticamente abbiamo abrogato: ci sono ben otto proposte di legge, che prevedono da sei mesi a due anni di carcere per chi offende l’onore o il prestigio di un pubblico ufficiale. È preoccupante che una norma penale considerata obsoleta 10 anni fa, oggi diventi quasi un’emergenza. Come detenuto questa possibilità di ripristino del reato di oltraggio a pubblico ufficiale mi preoccupa. È comunque una norma difficilmente applicabile, se l’oltraggio è commesso da un cittadino libero, perché è un reato minore, quindi se consideriamo che in Italia circa 200.000 reati all’anno vengono avviati alla prescrizione, questa fattispecie di reato è destinata a finire così. Nelle carceri invece oggi l’oltraggio è punibile con un rapporto disciplinare, che fa perdere al detenuto uno sconto di pena di 45 giorni. Ma incappare in un procedimento penale per oltraggio a pubblico ufficiale equivale a una condanna quasi certa, credo non ci sia modo di difendersi in nessuna aula di Tribunale, basta la parola del pubblico ufficiale offeso per essere condannati. Le carceri sono destinate a breve a superare il limite che ha provocato la concessione dell’indulto nel 2006, ma non ne concederanno certo un altro. Difficilmente potranno aprire vecchie carceri e costruirne di nuove, perché poi mancherebbe il personale, e l’economia italiana non è così florida da permettere nuove assunzioni. Nel frattempo i posti branda sono già stati aumentati oltre ogni decenza. L’unica legge che produrrebbe un deflusso graduale di una parte della popolazione detenuta è la Gozzini, che prevede i benefici penitenziari, ma oggi è semiparalizzata, sempre meno detenuti riescono a uscire prima dal carcere per fare un percorso graduale di reinserimento. Come si pensa allora di tenere sotto controllo le carceri? Temo con la repressione, con la paura di un peggioramento della propria vita: e là dove ieri si doveva vivere in due, domani si vivrà in tre, e si dovrà stare attenti a non offendere chi ti deve tenere in queste condizioni, perché altrimenti si incapperà nel reato di oltraggio a pubblico ufficiale. Di contro il personale di polizia penitenziaria si troverà costretto a turni massacranti, allora quale sarà il risultato? Quante denunce per oltraggio saranno provocate da questa situazione? Mi ricordo che da bambino, quando mia mamma mi dava qualche scapaccione, mi vendicavo sul suo barboncino, prendendolo a calci nel fondo schiena, sicuramente ero un bambino un po’ stupido per prendermela con un cagnolino, e me ne rammarico molto. Oggi ho una brutta impressione, e spero tanto di sbagliarmi, perché mi dispiacerebbe fare la fine del barboncino di mia mamma.
Galera certa e galera promessa, ce n’è per tutti Questa tabella non ha nessuna pretesa di scientificità, perché vuole solo dimostrare che non siamo più in grado di capire, né noi “addetti ai lavori” né tanto meno i cittadini comuni, dove con nuove leggi sia già stata introdotta “più galera” e dove la galera sia stata per ora solo minacciosamente promessa, e però incomba sulle nostre vite e su quelle delle nostre famiglie, dove per “nostre” intendiamo di tutti, anche delle persone “perbene” che cercano di rispettare la legge, ma proprio perché appartengono alla specie umana, e non divina, la possibilità dell’errore, della leggerezza, della distrazione ce l’hanno nelle loro esistenze e non ne sono, ahimè, immuni. per guida in stato di ebbrezza o sotto effetto di droghe per omicidio colposo e lesioni colpose per i reati commessi in danno di persone portatrici di minorazione fisica e anziani per chi impiega minorenni per l’accattonaggio per abusi sessuali su minori e pedo-pornografia per molestie telefoniche, mail, etc. (stalking) per atti di bullismo per rapine, scippi e furti in abitazione per abbandono di rifiuti pericolosi o ingombranti per deturpamento ed imbrattamento muri (writers) per indebita occupazione del suolo pubblico (ambulanti) per vendita di prodotti contraffatti (ambulanti) per ingresso o permanenza illegale in Italia per chi impiega lavoratori privi del permesso di soggiorno per chi affitta a stranieri privi del permesso di soggiorno per i tifosi violenti per incitamento all’odio razziale e alla discriminazione per responsabilità negli infortuni sul lavoro (morti bianche) per pirateria musicale e informatica (hackeraggio) per esercizio della prostituzione in luogo pubblico (ma un nuovo disegno di legge prevede il carcere anche per i clienti delle prostitute) per esercizio abusivo di professioni per la diffusione di notizie secretate (intercettazioni, etc.) per utilizzo di farmaci dopanti Due detenuti provano a rileggere dati e statistiche: 59.000 fantasmi? Sì, il numero dei detenuti continua a crescere eppure le statistiche dicono che i tempi di permanenza in carcere sono bassissimi anche per reati gravi Ma siamo proprio sicuri di “saper leggere” i numeri che ci danno?
di Marino Occhipinti
“È inaccettabile e vergognoso che in Italia in carcere non ci stia nessuno. Chi sbaglia deve pagare, invece la media di permanenza in carcere per i responsabili di violenza sessuale è di due anni, mentre anche i pluriomicidi rimangono dietro le sbarre al massimo per otto anni…”. Queste, grossomodo, le parole che l’opinionista Paolo Del Debbio ha pronunciato, davanti a milioni di persone, il 21 dicembre durante la trasmissione domenicale pomeridiana di Canale 5. Naturalmente a queste affermazioni ha fatto eco lo sdegno dei partecipanti alla trasmissione, e così è stata avanzata, proprio in diretta, la proposta di infliggere l’ergastolo anche ai responsabili di omicidio colposo da incidente stradale, scordando che, per l’involontarietà che c’è spesso dietro un incidente, con questi metodi può capitare a chiunque di trovarsi dietro le sbarre. Le affermazioni di Del Debbio, fondate su cifre reali probabilmente senza tener conto di alcune variabili, fanno riferimento a una ricerca sui tempi medi di permanenza in prigione, effettuata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. La statistica in questione, ed è quantomeno “curioso” e insolito che un lavoro di approfondimento e di analisi debba essere fatto in carcere, per di più da “giornalisti” detenuti, rivela però delle parti di difficile interpretazione, sulle quali poniamo alcuni interrogativi: Il primo. Si è tenuto conto in modo corretto di tutte le persone che, liberate in attesa che la sentenza diventi “definitiva”, sono uscite dal carcere per rientrarvi, però, quando la sentenza diventa esecutiva (come è successo, tanto per citare un caso conosciuto, ad Annamaria Franzoni che ora sta scontando in carcere la condanna)? Il secondo. Si è sottolineato il fatto che poco meno del 50 per cento di chi si trova in custodia cautelare viene assolto durante i tre gradi di giudizio, oppure viene definitivamente scagionato durante la fase delle indagini preliminari, come è accaduto, solo per citare un altro caso noto, a Patrick Lumumba nel noto omicidio di Perugia? Il terzo. Come mai la media della detenzione per ogni singolo reato è stata effettuata prendendo in esame il 2006, proprio l’anno in cui è stato concesso l’indulto? La ricerca dice che non ha tenuto in considerazione i beneficiari dell’indulto, ma come dimenticare che dai circondariali sono uscite comunque le persone colpevoli di reati per cui la pena prevista era inferiore ai tre anni? Considerando quindi almeno questi tre elementi è facile dedurre che le medie siano perlomeno da analizzare con grande attenzione. Perché per esempio Annamaria Franzoni ha addirittura “spezzato” in due la sua media di permanenza in carcere e Patrick Lumumba, con i suoi 10 giorni di galera peraltro ingiusta, ha magari abbassato la media di chi in prigione per omicidio ci rimane venti o venticinque anni o anche più. Solitamente chi utilizza questa statistica – come ha fatto Del Debbio anche in altre trasmissioni, oppure Bruno Vespa a Porta a Porta – attacca la legge Gozzini affermando che in Italia non c’è la certezza della pena; chi sostiene ciò “dimentica” forse che la galera in Italia è certissima, solo che magari la si sconta, e di miei compagni in queste condizioni ce ne sono moltissimi, dieci anni dopo aver commesso il reato, quando le persone si sono già ricostruite una vita, hanno un lavoro e una famiglia. Ma questo lo sanno in pochi, e la maggior parte dei cittadini crede che dal carcere si esca troppo in fretta, così almeno ha sostenuto il 93 per cento degli intervistati in una ricerca dell’Ispo. Ho letto molte statistiche sul carcere, sulla pena e sulla giustizia. Nonostante molte di esse confermino un netto calo dei reati (secondo il Viminale la diminuzione media dei crimini è stata del 10,1 per cento nel primo semestre del 2008; gli omicidi si sono ridotti di due terzi negli ultimi 15 anni, ma con un esponenziale aumento di quelli commessi in ambito famigliare), i sondaggi sulla sicurezza continuano a mostrare prevalentemente l’aspetto della paura diffusa, e a demonizzare le misure alternative, perché “fanno uscire prima” la gente dal carcere. Quasi nessuno sa per esempio, ad eccezione degli addetti ai lavori, che tra i quasi 10mila detenuti che nel primo semestre del 2008 hanno fruito di una misura alternativa alla detenzione “solo” 42, e cioè 4 su mille hanno commesso nuovi reati (il tasso del periodo 2001-2008 è stato ancora inferiore, oscillando tra il 2 e il 3 per mille) ma piuttosto si tende ad esaltare l’eccezione proprio come i casi di Izzo e Minghella, utilizzati come “scarica emotiva” sull’opinione pubblica ogni volta che si vorrebbero restringere i benefici penitenziari, che invece funzionano e creano sicurezza. Pacchetto sicurezza, pene sempre più severe per i tossicodipendenti, la legge ex Cirielli sulla recidiva, nuove norme sull’immigrazione, carcere anche per chi getta la lavatrice in discarica, gesto sicuramente deprecabile ma sicuramente non da galera: oggi il 40 per cento dei detenuti è in carcere per reati “bagatellari”, ossia quelli che comportano pene lievi, tipici delle fasce deboli. Eppure a sostenere con gran chiarezza l’inefficacia del pugno di ferro e la conseguente convenienza sociale oltre che economica di una giustizia più umana è stato proprio il capo dell’Ufficio studi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giuseppe Capoccia: “Il modo migliore per evitare che i delinquenti tornino al crimine una volta scontata la pena? Non tenerli in galera. Sì, perché il tasso di recidiva tra i condannati affidati ai servizi sociali, alle comunità terapeutiche o al lavoro esterno è meno di un terzo di quelli che invece restano in cella”. Reati e permanenza media in carcere La statistica è mia e me la gestisco io
di Sandro Calderoni
Quando ero ragazzo mi veniva sempre detto che la matematica non era un’opinione. Tuttora, studiando filosofia, trovo in tutti i filosofi, dai pitagorici ai logici contemporanei, che questa materia è ritenuta universale, e assolutamente “affidabile”. In questi ultimi anni però, dall’uso che viene fatto dei numeri, questo discorso mi sembra fuori luogo, specialmente quando si presume che non solo i dati statistici (la statistica è pur sempre un ramo della matematica), ma anche la loro interpretazione debbano essere presi come una scienza esatta. Ho notato che ultimamente ci sono sempre dei solerti tecnici che ricavano dai dati diverse interpretazioni, a seconda di quello che vogliono far credere, ed altrettanto solerti politici o giornalisti li usano per i loro scopi. L’esempio per me più eclatante e fuorviante riguarda quella statistica fatta sulla carcerazione media di una persona che commette reati, e, stando a quello che dicono, sembrerebbe che chi commette rapine rimanga in carcere mediamente meno di due anni. Se ciò fosse vero, allora nel mio caso vale la regola dell’eccezione, dato che per quel tipo di reato sono in carcere da trent’anni, e di queste eccezioni ce n’è parecchie, per il semplice fatto che se la rapina nel Codice penale prevede un minimo di 3 anni e 6 mesi fino ad un massimo di 20, solo questo dato fa pensare che i numeri dati sopra suonano strani. Ammettiamo anche che si venisse condannati con il minimo della pena che prevede il reato di rapina semplice, bisogna comunque sapere che di solito, per questo tipo di reato, vengono sempre contestate anche le cosiddette aggravanti che comprendono l’arma, il furto d’auto, a volte il sequestro di persona, e in media la condanna si aggira sui 5/6 anni, quindi è presumibile ritenere che sia più una regola che un’eccezione il fatto che io mi sia preso un sacco di anni. Se poi continuassimo a parlare di reati, direi che coloro che divulgano certi dati senza analizzarli accuratamente dovrebbero essere accusati di istigazione a delinquere, in quanto fanno credere ai cittadini liberi che in un certo qual modo il delitto paga. Il fatto è che questi numeri sulla permanenza media in carcere vengono usati in un modo che invece di fare chiarezza crea confusione, in quanto vengono calcolati i periodi di carcerazione di tutte le persone arrestate per un dato reato, che siano in carcere in attesa di giudizio o siano state condannate definitivamente, senza definire in modo chiaro alcuni importanti “dettagli”: gli arresti che non vengono confermati e le assoluzioni (su cento arrestati, quanti dopo poco vengono scarcerati perché ritenuti estranei o perché non ci sono prove sufficienti per rinviarli a giudizio?); le scarcerazioni per scadenza dei termini previsti, in cui una persona non può restare in carcere più di un certo periodo di tempo, senza aver subito un equo processo (per la rapina è 1 anno e 6 mesi per ogni grado di giudizio); la concessione di arresti domiciliari (che vale come carcerazione). Se si provasse a fare i conti in modo più trasparente, sicuramente il termine medio di permanenza in carcere per chi commette rapine, per esempio, sarebbe di gran lunga più alto. Nonostante tutto, e grazie ai miei studi di filosofia, ritengo che la matematica sia veramente una scienza pura, ma che invece la statistica non abbia nulla a che fare con questa nobile scienza, o meglio, che la statistica usata “allegramente” per far credere alle persone comuni che certi dati abbiano un fondamento scientifico, di scientifico invece abbia ben poco.
|