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Ci sono vite tormentate, ma ricche e sempre degne di essere vissute Quando l’amore è spazio di libertà Libertà è una parola che Stefano usava per parlare della nostra storia, una libertà che cercavamo di difendere anche quando l’eroina stava invadendo qualsiasi spazio
di Francesca Rapanà
Penso ai tanti aperitivi, alle chiacchierate, alla tua disperazione. A una cosa forse non avrei pensato; che saresti diventato così irraggiungibile, che sarei arrivata ad un punto in cui avrei iniziato a combattere senza di te. Scegliere di rimanerti accanto, a volte senza che tu ci fossi, mi ha fatto scattare una forza che non credevo di avere, una forza che a volte mi sembrava freddezza davanti all’impossibile che stavamo attraversando, ma poi ho capito essere un istinto di sopravvivenza, l’unica opzione che avevo per starti vicino il più a lungo possibile.
Così scrivevo a Stefano cercando di spiegargli cosa significava stargli vicino nel periodo più difficile della nostra storia, in cui la sua sofferenza era disperata. L’eroina stava invadendo qualsiasi spazio, intuivo che gran parte delle sue forze fisiche e mentali erano indirizzate a trovare il modo di farsi, e di farsi sempre di più per anestetizzarsi dalla consapevolezza di una situazione in caduta libera. È terribile comprendere che i guai sono sempre più grossi e vedere negli occhi della persona a cui vuoi bene la disperazione e le lacrime, la vergogna, gli sbalzi di umore apparentemente incomprensibili e a volte anche la cattiveria, di chi non regge il peso di una persona che soffre a causa sua. E cercare di trovare i modi per capire, senza chiedere, cercando di sottrarsi a quel gioco delle parti quasi automatico, per cui sembra che uno chieda per giudicare, e l’altro menta, contemporaneamente, agli altri e a se stesso; e passare ore ad avvitarsi in discorsi infiniti che lasciano senza energie, senza trovare risposte, probabilmente perché le domande erano sbagliate. Cercavo di capire quanto fosse ineluttabile questa sofferenza, in fondo non era un cancro, possibile che non ci si potesse sottrarre in qualche modo? Vedevo la persona che ormai era parte di me auto-distruggersi e in qualche modo chiedermi aiuto e cercavamo di costruire linguaggi comuni rinunciando a capire il perché e il per come, o almeno non il “perché” delle domande talmente razionali, da non avere senso in situazioni come queste. Io e Stefano ci siamo innamorati quando l’eroina non era così presente e il suo richiamo non così pressante. Sapevo che c’era, Stefano me ne aveva parlato quasi subito, con lo sguardo basso e rassegnato, ma anche speranzoso perché questa volta non si era nascosto, non lo aveva negato per rispetto alle persone cui voleva bene. Non ho pensato di defilarmi, anzi, immaginavo le difficoltà, ma non volevo sottrarmi a questo per andare alla ricerca di un amore migliore senza orari, vizi, prescrizioni come Stefano mi aveva detto una volta; c’era comunque spazio per tante cose, per tutte le cose che succedono tra persone che si amano. Io mi sentivo un “ponte”, che cercava di ricomporre due realtà separate che non comunicano quasi mai, che parlano due linguaggi diversi, ma sono parte dello stesso mondo. Era come tirare Stefano per i capelli mentre qualcos’altro lo tirava per i piedi. Non ho rifiutato quella realtà, non l’ho negata, ma ho cercato, insieme ad altri, di non fargli dimenticare che ce n’era anche un’altra in cui lui aveva un posto prezioso, una realtà in cui gli argini dei canali banalmente sono quelli dove vai a prendere il sole, e non a farti, e la stazione è solo il posto da dove si parte e dove si arriva, e non dove si compra la roba o si muore. Stefano si lasciava tirare per i capelli, lottando per non murarsi vivo nella sua dipendenza, chiedendo aiuto come poteva e scrivendo, comunicando agli altri le sue debolezze e le sue contraddizioni. Ti dedico ogni sera un pensiero prima di provare a spegnere un cervello ribelle, ma sei una delle piccole libertà che mi prendo, ed è un piccolo filo che non riesco a spezzare. Potrebbe però essere pericoloso, la mia vita potrebbe avere una svolta da un momento all’altro e non vorrei che qualcuno ci rimanesse sotto.
Stefano non era solo un tossicodipendente
Una volta mi ha detto: certo che sei tenace. Io gli ho risposto, come ho risposto a tutti quelli che mi facevano quest’osservazione e che cercavano di capire perché resistevo in una situazione così difficile. A me sembrava che da capire non ci fosse poi molto o almeno non questo; certo che era una storia in parte molto dolorosa, certo che a volte ho pensato di essermi cacciata in un guaio, ma la nostra storia non era solo questo e Stefano non era solo un tossicodipendente. C’era spazio per la dolcezza e le risate, per i progetti e i sogni, per fare le cose “normali”, che ci si creda o no. Ma ti trovi nella situazione di dover rendere comprensibile agli altri questo sentimento, a volte quasi di doverlo giustificare, perché non può essere che una persona decida di reggere una situazione così, senza essere masochista o avere la sindrome della crocerossina. O di doverlo negoziare con enti e istituzioni per cui il tuo compagno è un utente, e che hanno bisogno di definizioni e impegni certi, non zone di grigio e di incertezza che in tutti i rapporti sono ammesse e in questi no. Evidentemente preferivo attraversare i cosiddetti “periodacci” piuttosto che immaginarmi senza Stefano, e non certo perché sono buona e generosa, ma perché era già un amore “migliore” quello che mi dava, alla faccia degli orari, dei vizi e delle prescrizioni. A volte devo dire che era un po’ fastidioso dover analizzare al microscopio questi sentimenti e la loro origine con le persone esterne a questa storia, ma lo potevo capire, forse io stessa avrei consigliato ad un’amica che mi descriveva questa storia “lascia perdere”. Ma qualcuno ha capito, anzi mi ha capito e ha detto Beh, dev’essere una persona speciale questo Stefano. Indipendentemente dal fatto che lo fosse o meno in termini assoluti, lo era per me, che avevo avuto la fortuna di conoscerlo prima che si rendesse “inconoscibile”, quando la dipendenza fagocitava molti aspetti del suo vivere quotidiano sempre più sotterraneo. E adesso quando vedo negli altri il dolore, anche quello che non sembra ineluttabile, che a qualcuno può sembrare una colpa, perché “è lui che sceglie”, riesco a comprenderne la complessità, le contraddizioni, che non significa giustificare qualsiasi azione che da quel dolore deriva, ma contestualizzare, immaginare, sospendere un giudizio che troppo spesso semplifica. Credo si debba accettare che in nessun rapporto si può scegliere cosa prendere e cosa no dell’altra persona, non siamo sezionabili, e così ho fatto, pensando molto anche al mio di bene, a quello che mi avrebbe reso più felice, cioè non rinunciare a questo sentimento e all’amore di un uomo che a volte avrei preso a schiaffi, ma con cui sono diventata una persona migliore, uno che trovava sempre lo spazio per farsi coinvolgere dai miei problemi, che non mi assecondava mai e dopo avermi ascoltato mi diceva “bene, e ora, cosa intendi fare?”. Forse proprio perché non siamo sezionabili la sua sofferenza e la sua umanità erano due facce della stessa medaglia, ed è aver conosciuto così bene il dolore che lo ha portato ad essere molto attento a quello degli altri. Una depressione, la sua, che consentiva spazi di lucidità spietata in cui il senso di impotenza era alimentato dalla consapevolezza di Stefano di avere delle risorse proprie e degli affetti che lo facevano sentire ancora più perduto, ma era anche ciò che lo legava con un filo, a volte spesso, a volte sottile a questa vita, alla sua storia, ai suoi affetti presenti e passati. Ho davanti a me i suoi occhi mentre mi chiedeva “Ce la faccio?” e io mi sentivo un terremoto dentro perché non lo sapevo e con Stefano certo non si poteva barare.
Ciao Fra, ho passato un pomeriggio di sofferenza e con questo sentimento decido di mettere l’inchiostro sulla carta. Sì, sono un uomo fortunato, ho una donna che mi ama, dei genitori che non mi mollano e tanta gente che mi vuole bene, talmente tanta che non ti immagini. Poi sono anche un tossico bruciato super recidivo con reati quasi bagatellari, non un detenuto politico né una star del crimine, un tossico che però quando “comunica” trasmette qualcosa, interessa, fa pensare. Questo mi aiuta a rimanere vivo, mi dà forza e da solo so che sarebbe diverso.
Una quotidianità che stava diventando una corsa, quasi una fuga disperata
Ma le difficoltà sarebbero molte meno se non si dovesse combattere con l’illegalità, le prescrizioni senza senso, l’improvvisazione di un sistema di cura pigro, il moralismo di chi vede nelle dipendenze solo un vizio, una legislazione emarginante e criminalizzante, le contraddizioni di un sistema deviato fino a sembrare sadico, che si accanisce contro chi fa reati per procurarsi la roba, e lo definisce anche recidivo. Ma come si fa a considerare recidivo un tossicodipendente, senza almeno problematizzare le ragioni di questa recidiva? Ma con quale ipocrisia si ricorre all’arresto dopo mesi dal compimento dei reati, quando una persona è già entrata in comunità, ha iniziato ad ambientarsi, a costruire una relazione con le persone che lavorano e abitano la comunità, a ricostruire la propria storia per l’ennesima volta, a convincersi che forse questa volta può essere diverso? Ma se la galera è l’unica risposta, perché allora non lo si è lasciato in galera quando compiva reati e veniva arrestato per due giorni e poi buttato fuori, con gli stessi problemi, anzi di più, ad accumulare altri mesi di pena? O davvero si pensava che due giorni di galera in cui in maniera spesso discutibile ti viene detto che “questo non si fa!” fossero sufficienti? Se c’è un senso che mi sfugge è proprio questo, dove è il senso, quale logica? E si evitino risposte ipocrite che citano leggi e articoli o i tempi della burocrazia. Se non pensassi che in buona parte è improvvisazione e superficialità, penserei davvero che è una perversione lucida e matematica, per rendere impossibile a chi è tossicodipendente di avere una vita migliore o almeno di desiderare di averla. Subire dei furti è estremamente fastidioso (lo so, li ho subìti), ma in casi come questo, anche commetterli non dev’essere facile: che ti becchino o no sei comunque fregato. In Stefano vedevo crescere il disprezzo per se stesso, il disgusto per una quotidianità che stava diventando una corsa, quasi una fuga disperata, a volte da chi gli voleva bene, a volte dalla schiavitù verso una sostanza e da un certo modo di affrontare la vita.
Questa è una lettera di Paolo, un amico comune, che mi aggiornava su cosa succedeva in un periodo in cui ero dall’altra parte del mondo: Di certo c’è soltanto che è finito dentro, al Circondariale. Ed è una roba che oltre ad amareggiarmi mi manda in bestia, perché non riesco a capacitarmi delle lungaggini che hanno protratto di giorno in giorno un ricovero in comunità che – visto che lui era disponibile – poteva esser fatto già alcuni giorni fa. Che senso ha prolungare tanto a lungo l’attesa con uno come lui, così pericolosamente pencolante fra la voglia di combattere e quella di lasciarsi di nuovo andare? Avrebbero dovuto spedirlo in comunità di corsa, visto che era disposto ad andarci, e invece sono ancora lì a palleggiarsi le pratiche… Un’assurdità.
È qui che bisogna cercare di capire e capire per migliorare, non per giudicare le scelte individuali, quelle sono spazi di responsabilità che è bene consentire e tutelare, ma quale è la logica, quale è il metodo, quale l’idea di cura. Perché così com’è è un paradosso disarmante, lasciato sulle spalle di operatori, psicologi, volontari che si distinguono per sensibilità, impegno, coraggio, intelligenza, ma che vanno supportati, perché la vita delle persone non può essere lasciata in mano alla fortuna che ti capiti un bravo operatore.
Chiudo con questo frammento di lettera ricevuto durante l’ultima carcerazione, e lo immagino rivolto da Stefano a tutte le vite tormentate, ma ricche e sempre degne di essere vissute.
Per stasera mi sono comprato un po’ di vino rosso e te lo dedico, in memoria dei tempi passati, quando ci specchiavamo nei calici ubriacandoci a chiacchiere, oltre l’orario delle prescrizioni, rischiando la galera per un sentimento fuorilegge. Così io stasera brindo alla tua complicata esistenza, alla tua forza di volontà come alle tue paure, al tuo orgoglio intrigante, ai tuoi fianchi e ai tuoi capelli. Vorrei tu facessi lo stesso, quando arriverà la lettera, così, solo per gioco, un brindisi alla mia vita tormentata e senza senso, ma comunque vita. Una riflessione sul complesso rapporto “droga-galera” Ricordando coloro, che se ne vanno da giovani Vite parallele, di Ljuba in Russia, di Stefano in Italia, segnate fino alla fine dalla droga
di Ljudmila Al’pern scrittrice, membro dell’O.N.G. Moscow Center for Prison Reform
A proposito del dolore
Tempo fa ho proposto a mio figlio adolescente questa riflessione sull’uso di stupefacenti: ci sono persone che evitano del tutto l’uso, altre che usano sostanze ma non cadono mai nella dipendenza, altre ancora che, quando iniziano a usarle, diventano tossicodipendenti – subito e per sempre. L’alternativa: si può provare, sapendo però di correre un rischio, si può rifiutarsi di farlo per sempre. Io non so che cosa succeda davvero a quelli, che diventano tossicodipendenti “subito e per sempre”. Forse questa condizione è simile a quella che io ho vissuto dopo la morte dei miei genitori – come lo spalancarsi di un portone nero, e la consapevolezza che fare un passo oltre quel portone poteva risultare semplice come è semplice seguire la persona che ami. Dopo la morte di mia madre ho vissuto un anno in uno stato del tutto particolare – non ero né qui, né là con lei, ma tuttavia ho resistito, sono rimasta in piedi, ho continuato a vivere. A volte bisogna prendere la decisione di rimanere in vita, di resistere nonostante il dolore, e saperla anche mantenere. Con che cosa la droga attrae e trascina oltre quel portone, quali argomenti ha dalla sua parte, io proprio non lo so. So quello che sanno tutti – che ci sono persone che senza di lei stanno male, forse si sta male come quando si deve provare a vivere senza i genitori, o forse anche peggio. Perché i genitori, nonostante tutto, cercano di insegnare al bambino a diventare indipendente, la droga al contrario ti rende dipendente. Il fatto che, col tempo, diventi sempre più pesante la condizione di dipendenza e si desideri trovare una via d’uscita e un conforto, non è una novità. Ma è possibile sopportare tutto questo, si può convivere con la droga e con la sofferenza della dipendenza? Io so che si può imparare a vivere con le proprie depressioni, allontanandosi in un certo modo da loro, cercando di stare in parallelo, di non identificarsi con loro. La nostra personalità non è un tutt’uno, non è lineare come a volte vorremmo, e se riconosciamo il diritto all’esistenza dei più diversi stati d’animo, dobbiamo accettare il loro alternarsi, che è naturale come il cambio del giorno e della notte. Nessuno mette in discussione il fatto che la notte, per quanto nera sia, sia però necessaria. Invece uno stato oscuro dell’anima noi lo rifiutiamo, senza neppure rifletterci. Noi semplicemente non sappiamo vivere col dolore, nonostante una simile capacità sia necessaria, per crescere, per diventare adulti. Chi non è in grado di sopportare il buio pesto e il vuoto dell’anima, accettando la sua inevitabilità, capendo il suo significato, probabilmente non crescerà mai. Oggi, in un’epoca in cui c’è il culto della giovinezza, qualsiasi cosa essa significhi, dalla bellezza del corpo alle esperienze più nuove, succede che tutto ciò che è collegato all’età che avanza viene considerato “invecchiamento”, cioè decadimento, e non maturazione, e viene in un modo o nell’altro rifiutato. Le persone non vogliono parlare della loro età, una età che può essere giustificata e sopportata solo in presenza di meriti particolari, come per esempio una posizione sociale elevata. Altri successi, come la maturità interiore raggiunta, o un elevato livello culturale, non vengono neppure considerati. Sembra che l’umanità non sappia cosa farsene del principale prodotto della sua cultura – la capacità di soffrire e di valutare il dolore per il contributo che porta allo sviluppo della coscienza. È possibile che la droga (ma anche l’alcol) elimini proprio questo problema, il problema della sofferenza interiore, trasformando però i propri estimatori in tossicodipendenti. È possibile anche che diventino tossicodipendenti proprio quelli, la cui sofferenza spirituale è particolarmente significativa, la sensibilità elevata, ed è invece assente la capacità di sopportare quella sofferenza. E forse questo modo di porre il problema cambia il punto di vista su questa questione, creando prospettive diverse.
A proposito della galera-madre
“A qualcuno è cara al cuore la galera, a qualcun altro la madre”. Proverbio popolare russo
Molti detenuti, con i quali mi è capitato di entrare in contatto nel mio lavoro carcerario (lo posso definire a fatica lavoro, dal momento che non lavoro in carcere, ma lavoro con il carcere) erano tossicodipendenti. O meglio – donne tossicodipendenti. Le loro innate qualità spesso suscitavano entusiasmo: bellezza, bontà, una intelligenza acuta, sensibilità. Ma tutto questo – in galera. La galera, la condizione di prigionia, li costringeva a tornare alla propria condizione naturale, a quella condizione che avevano prima di aver “provato” le sostanze e di essere diventati creature incapaci di provare dolore, di vivere con il dolore. Secondo me questo rifiuto è il punto principale di fuga dalla condizione umana, ed è questa l’essenza della condizione del tossicodipendente. La cosa terribile è che la possibilità di tornare alla propria condizione originaria, prima della droga, si manifesta solo in presenza di una pressione dell’ambiente esterno, che sia simile o anche superiore alla pressione interiore – e spesso una pressione tale è data proprio dalla galera. La galera, in quanto meccanismo studiato per dare sofferenza, può competere con le fonti interiori di dolore e in un certo senso sostituirsi ad esse. La galera è un vero dispositivo antidroga, il cui difetto principale è il fatto che la sua azione finisce quando sopraggiunge la libertà. Questo aspetto della galera e le sue qualità “materne”, favolose, nel mio paese, la Russia, spesso vengono ricordate nelle forme colloquiali come proverbi, modi di dire, o anche la poesia: “Poiché non c’è solitudine più amara del ricordo di qualcosa di favoloso, in galera ritornano coloro che ci sono stati, come i colombi all’Arca” (J. Brodskij). Nei testi scientifici, nei saggi, nei testi sulla tutela dei diritti la galera però è sottoposta a critiche per la sua crudeltà e arretratezza. Nella vita moderna la tutela del padre si esaurisce quando il figlio raggiunge la maggiore età, e tutto il successivo percorso l’uomo lo deve fare da solo, assumendosi le funzioni di controllo e di consolazione – sotto forma di un dialogo continuo con se stesso. Ne deriva che nella società moderna l’uomo non ha nessuno a cui rivolgersi se non se stesso. La galera per un periodo di tempo ben definito costringe l’uomo a prendersi cura di sé e a fare i conti con quello che ha commesso, ma poi alla fine della pena lo butta sulla riva della vita come un pesce privato degli organi necessari per procurarsi l’ossigeno per respirare. Come meravigliarsi allora se tante persone praticamente non hanno nessuna chance di sopravvivere, dopo che per alcune decine di anni (e in Russia spesso è proprio così, di pene lunghissime si tratta) hanno scontato una pena sotto il controllo della “madre magica”, e ora non hanno niente con cui sostituire la sua protezione, se non la droga?
A proposito di Ljuba
Dalla trasmissione radio “Nuvole”: L’8 agosto 2000, per decreto del Presidente della Russia, Ljuba Nebrenchina è stata graziata. La pena stabilita per lei dal giudice è stata ridotta di cinque anni. Nell’istanza del Centro Nazionale per la riforma della giustizia penale, rivolta al Presidente, si diceva tra l’altro: “Noi conosciamo Ljubov Nebrenchina da due anni, da quando lei, come migliaia di altri detenuti, ci ha scritto chiedendoci aiuto. L’indirizzo del Centro Ljuba lo aveva saputo grazie alla trasmissione radio “Nuvole”, che viene trasmessa sulle frequenze di “Radio Russia”. Noi le mandammo un opuscolo della serie “Conosci i tuoi diritti”, con l’aiuto del quale lei ha potuto, almeno in parte, difendersi, riuscendo a farsi un po’ ridurre (di un anno) l’enorme pena che le era stata comminata dal giudice (9 anni). Poi abbiamo letto i suoi versi, che ci aveva inviato per lettera, e ci siamo enormemente meravigliati per la profondità delle sue riflessioni e per il suo talento. Dai colloqui con Ljuba sappiamo che quando, dopo l’arresto, fu condotta al numero 38 della Petrovka, il personale di questa istituzione statale la pestò a sangue fino a farle perdere coscienza e la trasferì in cella di isolamento ridotta a un pezzo di carne coperto di sangue rappreso. Purtroppo questo non aveva scandalizzato né interessato nessuno. Noi non sappiamo che uomini siano gli impiegati di istituzioni statali capaci di usare metodi di interrogatorio simili su una giovane donna fragile, sappiamo però che chi è passato attraverso simili torture ha pagato per tutti i suoi peccati, passati e futuri. Ma ora parliamo d’altro. Ljuba non ha avuto una esistenza felice, la sua vita si è spezzata quando aveva 14 anni ed è diventata una vita da adulta senza che lei avesse la necessaria preparazione per viverla. Ha abbandonato la scuola, ha iniziato a lavorare, cercava qualcosa. Ha cominciato a frequentare delle persone, amici diversi, diversi tipi di felicità e diversi modelli di vita. La sua vita intanto aveva cominciato a scorrere ai confini con la criminalità, e a volte a superare quei confini. In qualche momento aveva disimparato a distinguere una cosa dall’altra, si era fatta una sua idea di giustizia, di quello che nella vita è principale o secondario. Aveva già sommato due condanne, ma tutto questo non l’aveva resa più consapevole, non era stato abbastanza convincente. Alla fine questa situazione l’aveva portata al reato, per il quale aveva preso una pena altissima. Noi naturalmente abbiamo letto la sentenza, e conosciamo anche la versione di Ljuba. Il suo reato non si può giustificare, ma si può dare una spiegazione dell’accaduto. Le persone, soprattutto quelle giovani, spesso diventano ostaggio di un modello di vita, non perché in sé non hanno niente di buono, ma perché chi sta loro accanto non sa cogliere questo bene e loro stesse non sanno manifestarlo, perché si perdono nel caos del loro mondo interiore ed esteriore. E invece bisogna saper rispettare le leggi, sapere dove sta il bene e dove sta il male e vedere la loro differenza. Ma ci sono situazioni, nelle quali i diversi aspetti si mescolano, il bene e il male si suddividono in proporzioni diverse. È come il regno degli specchi deformanti. Tuttavia alcuni riescono a rompere lo specchio deformante e a sbucar fuori nel mondo in cui la luce e l’ombra sono quelle giuste. Il nostro lungo rapporto con Ljuba ci aveva convinti che lei ci era riuscita, che quelle sofferenze, quei tormenti che aveva sopportato durante la carcerazione preventiva, avevano risvegliato il lato luminoso che ancora sopravviveva nella sua anima. A noi sembra che non ci sia nessun particolare senso a continuare a far scontare una pena a una persona, che si è davvero ravveduta. Questo complica solo il suo ritorno alla libertà. La vita nei posti di privazione della libertà ha una strana logicità – non viene sempre accettata come un castigo. In qualche momento la galera diventa l’unico luogo e modo di esistere possibile dell’uomo, come la giungla per Mowgli. Per questo è importante con la galera non esagerare mai, e lasciare all’uomo la strada aperta per rientrare nella vita vera.
Dall’intervista, concessa alla trasmissione radio “Nuvole”, il terzo giorno dopo la liberazione di Ljubov Nebrencina, nel luglio del 2000:
“In carcere ho passato tre anni e mezzo. Ritornando in libertà, provo dei sentimenti abbastanza confusi. E continuamente mi riscopro persa in pensieri curiosi: da una parte è come se io non avessi mai scontato una pena ma, dall’altra, mi sorprendo ad aspettare il segnale della ritirata, o a spedire le lettere senza chiuderle… In carcere infatti le lettere non vengono chiuse, per permettere al censore di leggerle. Ed ecco perché io scrivo lettere e non le chiudo… Per quel che ho potuto osservare, nel periodo che ho passato in galera, credo che per qualcuno la galera sia un destino, per qualcun altro un puro caso. Ma ecco che per alcune persone la galera sembra una specie di salvezza, in grado di rigenerare, di aiutare a crescere spiritualmente, ad acquisire nuovi valori. Parlo proprio di me: in galera ho imparato a creare versi, nei quali ho riversato tutta la mia disperazione, il dolore della separazione dai mie cari, e, spesso, l’irreparabilità di certi atti. Scrivi un verso, ne segue un altro e un altro ancora, e in un certo senso tutto diventa più leggero. Per questo so che molti detenuti sono attratti dal foglio di carta, proprio per trovare uno sfogo. Le carceri sono piene di persone che scrivono”. Ljuba, scrittrice e poetessa, è morta il 10 giugno 2007 per overdose, esattamente sette anni dopo essere stata liberata. Il 16 settembre avrebbe compiuto 33 anni. Lei è stata, delle persone di cui mi sono occupata, quella che ho amato di più, la più dotata di talento, a lei ho dato così tanto di me, ma ugualmente non sono riuscita a darle altro che una liberazione dalla “madre galera” anticipata di cinque anni. Le droghe sono ritornate subito nella sua vita, anche se lei faceva delle pause, quando la sua condizione diventava critica. No, in fondo avrebbe potuto finire tutto diversamente: la sua vita, dopo che era stata liberata, non era così priva di sostegno, come prima che entrasse in carcere: lei si era lasciata contagiare, da me, da noi con la passione del lavoro sociale, noi (il Centro per la riforma della giustizia penale) eravamo diventati per lei un nuovo modello di vita. Ljuba all’inizio aveva collaborato con la nostra associazione, poi aveva iniziato a lavorare in una organizzazione non governativa, aveva scritto un libro, dedicato alle donne detenute (io, delusa dalla sua tossicodipendenza, che lei mi nascondeva sempre, mentre era viva non ho voluto leggere questo libro), si era anche sposata… Ma il portone nero della droga era già spalancato e lei non è riuscita a passargli accanto senza varcarlo, senza entrarci dentro. Ricordando Stefano Stefano l’ho incontrato nel settembre del 2005 a Venezia, lui era ancora detenuto, era alla festa del volontariato penitenziario nell’isola di San Servolo. Era il secondo incontro, il primo era avvenuto alcuni giorni prima a Padova nella redazione di Ristretti Orizzonti. Ambedue gli incontri erano stati dedicati alle carceri, a come sono concepite nelle diverse culture. Lui parlava inglese, per questo avevamo conversato senza dover ricorrere sempre alla traduzione di Ornella, che conosce benissimo sia la complessa materia di cui parlavamo, sia la mia non meno complessa lingua. È stata solo una conoscenza breve, che non mi legittima a descrivere seriamente qualcosa che abbia davvero a che fare con la vita reale di un’altra persona. A parte i tratti del suo volto, e una particolare dolcezza nel modo di comunicare, che pure forse è una caratteristica degli italiani, e l’interesse per il tema di cui discutevamo, io non ho altro da ricordare, tranne forse il fatto che lui non mi era sembrato per niente uno “condannato” a morire giovane. Di me una questione l’aveva incuriosito in modo particolare: lui mi aveva chiesto come mai ero capitata da quelle parti. La domanda poteva sembrare banale: che cosa c’è di strano nel fatto che una persona arrivi a Venezia, il centro del turismo mondiale? Ma io non ero una turista, e lui questo l’aveva capito. Allora gli avevo descritto la mappa del percorso, che mi aveva portato qui: prima di tutto quello che di Venezia aveva scritto Josif Brodskij, poeta, premio Nobel per la letteratura, ex detenuto e internato in ospedale psichiatrico (con Stefano avevamo parlato anche della psichiatria in carcere), i cui versi avevo letto ancora in gioventù in samizdat(1). Seconda tappa: l’ambiente che frequentavo, quello dei dissidenti, che mi aveva dato modo di leggere tutto questo molto prima della perestrojka, e poi aveva orientato il mio interesse sulle carceri. E ancora, la preoccupazione per i prigionieri politici noti e meno noti, il lavoro in una organizzazione, fondata dopo la perestrojka da uno dei più noti prigionieri politici, lo studio delle esperienze internazionali di riforme penitenziarie, la tomba di Brodskij a Venezia, il mio quasi istintivo inseguire il poeta fin qui. E, certo, la passione per questi luoghi, che mi aveva assalito subito al mio arrivo. E il desiderio di appropriarmene a modo mio: cioè conoscere le galere di Venezia, e per questo ero arrivata a San Servolo con Stefano e con Ornella, e però non dimenticare l’altro lato della medaglia, il fatto che qui avevo trovato le “Fondamenta degli incurabili” di Brodskij e quel libro era diventato la mia guida in città. Il cerchio si chiudeva. Stefano mi aveva ascoltato, sbalordito.
(1) Samizdat in russo significa “edito in proprio”, e indica un fenomeno spontaneo che esplose in Unione Sovietica negli anni 60 e 70, che consisteva nella diffusione clandestina di scritti illegali perché censurati dalle autorità o in qualche modo ostili al regime sovietico
Epilogo
Stefano è morto circa un anno e mezzo dopo essere stato liberato, e questa morte forse si spiega con la sua incapacità a vincere il dolore. Ornella, a differenza di me con Ljuba, non lo aveva abbandonato, nonostante lui, a differenza di Ljuba, non nascondesse il suo rapporto con la droga, ma nemmeno questo lo ha aiutato. Io ricordo però che lui aveva dei progetti di vita, lui scriveva splendidamente, era capace di analizzare spietatamente se stesso e il suo problema, aveva delle prospettive davanti a sé. Questo io lo so dai racconti di Ornella, avrei voluto solo avere la possibilità di leggere i suoi testi direttamente, ma ancora non ho imparato l’italiano. Mettersi in gioco, anche con dolore C’è chi non ce la fa a non fare più uso di droga Sono persone che hanno dritto a mantenere una dignità nel loro essere consumatori, come chiedeva Stefano
di Lorena Orazi "responsabile dell’area pedagogica della Casa di Reclusione di Padova"
Sono stata l’educatore di Stefano Bentivogli per un breve periodo durante la sua permanenza nella Casa di reclusione di Padova, dove faceva parte della redazione della rivista “Ristretti Orizzonti” e del TG 2Palazzi, e ho continuato a seguirlo a distanza dopo la sua uscita dal carcere attraverso i racconti di Ornella e i suoi contributi al giornale, incontrandolo a Padova in occasione di varie iniziative. Stefano è stato una persona che non lasciava indifferente chi lo incontrava, una persona che non nascondeva il suo passato e nemmeno le difficoltà del suo presente. Un ragazzo, un uomo che sembrava avere le risorse e le potenzialità per “farcela”, per trovare un suo modo di stare nel mondo. Era stimato e amato dalle molte persone che lo avevano conosciuto, aveva trovato “áncore” cui potersi aggrappare, operatori che lo avevano capito e cercato di aiutare con gli strumenti che egli, forse, aveva già tante volte sperimentato, eppure… non è stato sufficiente a scacciare quel “tarlo”, quel qualcosa che gli rendeva così difficile il vivere quotidiano. Mi rendo conto che parlare in termini razionali di una vita finita a causa di un’overdose rischia di trasformarsi in una operazione che potrebbe cadere nel moralismo o in un manifesto politico sulla droga e il suo consumo. Mi limito a osservare che le testimonianze contenute in questo numero della rivista parlano dei tanti e diversi percorsi che hanno fatto le persone che hanno consumato droghe di vario genere e del loro epilogo in carcere. Come se ne esce? Dal carcere? Dalla droga? Purtroppo non c’è una risposta unica e certa a nessuna di queste domande. Stefano ha provato. Per lui è stato possibile uscire dal carcere, avere una alternativa. Non è riuscito a non fare più uso di droga e ha chiesto, gridato di poter mantenere una dignità nel suo essere consumatore. Oggi che non c’è più rimane il dolore di chi l’ha conosciuto e aveva sognato per lui, forse con lui, un’esistenza diversa. Un sms… “È morto Stefano” Mi faceva rabbia vedere quanto stava male, come tutte le sue risorse fossero vanificate da una sostanza schiavizzante
di Elisa Nicoletti "volontaria"
Per mia fortuna era da un po’ che non mi trovavo costretta a confrontarmi con la morte. Ma anche questa volta purtroppo fa un male cane. Stefano non era un mio amico, forse lo potrei definire solo un conoscente, eppure a pensare che se ne è andato mi si stringe lo stomaco. E mi è venuta voglia di scrivere. L’ho conosciuto in carcere. Lui lì dentro ci doveva stare giorno e notte, io sceglievo volontariamente di entrarci per poche ore. Mi è da subito sembrato una persona riservata, ma con una sensibilità e un’intelligenza poco comuni. Scriveva, Stefano, e basta leggere uno dei suoi tanti articoli pubblicati su Ristretti, per capire quanto sia vero quello che ho appena detto di lui. Non aveva paura di parlare di sofferenza, disagio, di cose che non funzionano, con una capacità di analisi e spesso di “denuncia” che ti lasciava spiazzato. E sapeva comunicare in modo semplice, ma incisivo, a tutti. L’ho notato soprattutto quando ho partecipato con lui agli incontri sul carcere nelle scuole: i suoi racconti e discorsi catturavano studenti, insegnanti e chiunque fosse presente. Raccontava di sé, di quando era un ragazzo di buona famiglia, studente modello al liceo classico. Di quando era partito per l’Africa con l’ONU per una missione umanitaria. E di quando poi aveva iniziato a farsi e di come da allora la sua vita “regolare” fosse franata, si fosse poco a poco sbriciolata. Da lì era iniziato il calvario per procurarsi la roba, i furti, i processi, la galera. Ricordo quella volta in cui ha raccontato che aveva appena rubato un’auto, ma quando, per puro caso, aveva scoperto che il proprietario era anche lui un “pover’uomo”, gliel’aveva restituita. E gli si poteva credere, perché nel raccontarsi era abbastanza spietato con se stesso. Questo è lo Stefano che è rimasto impresso in me. Un uomo fragile, che sapeva cogliere il dolore degli altri, che voleva far emergere le contraddizioni del nostro sistema, in modo deciso, a volte provocatorio, ma che lasciava intendere come dietro ci fosse una grande testa. Mi faceva rabbia vedere quanto stava male, come tutte le sue risorse fossero vanificate da una sostanza schiavizzante. E ora mi fa ancor più rabbia sapere che non ce l’ha fatta a rifarsi una vita. Spesso dai suoi discorsi emergeva la difficoltà di doversi ricreare delle relazioni significative dopo aver vissuto per anni dentro la “scatola chiusa” del carcere. E mi faceva pensare a quanto, nel nostro mondo occidentale avanzato, gli individui “liberi” si stiano chiudendo sempre più nelle loro esistenze fragili e spesso spoglie, perdendo la capacità di condividere emozioni, vissuti, umanità. Sapere che non ce l’ha fatta una persona come Stefano mi riempie di dolore. E mi fa venir voglia di scrivere. Di parlare di tutto quello che non va. Di lottare perché le cose vadano un po’ meglio. Di sognare una società meno escludente e più umana. Grazie Stefano, per tutto quello che mi hai trasmesso, magari senza neanche accorgerti di averlo fatto. Quelli che sono capaci di svuotare con le mani della tenacia il mare dei pregiudizi Guidare gli altri “che non sanno” dentro il mondo della pena vuol dire mettere insieme domande profonde e sentimenti, sguardo critico, interrogativi scomodi e vissuto reale
di Grazia Grena "associazione Loscarcere" e di Susanna Ronconi "Forum Droghe"
Stefano avrebbe dovuto essere con noi, prima di Natale, a Lodi, a dire ai futuri volontari che cos’è il carcere, ma soprattutto, chi sono quelli che lo popolano, le loro vite, i loro desideri e i loro diritti. A buttare là domande inquietanti, per far sì che alzassero lo sguardo a chiedersi cosa sia la pena, quale il suo senso. Avevamo pensato a lui per primo: e chi meglio di lui per sentimenti e intelligenza, per profondità e sapere della vita? E anche per quel tanto di seduzione con cui non gli dispiaceva avvolgere gli interlocutori, la seduzione di chi sa che è importante, troppo importante che l’altro sappia, senta, capisca. La seduzione dettata dall’urgenza: troppa sofferenza inutile, nelle celle, troppo accanimento nella società incattivita, troppi diritti fatti carta straccia. Ma, insieme, intelligenza e sapere pratico: non bastava l’urlo, a Stefano, c’era bisogno di ragionare, conoscere, analizzare, proporre. Per questo abbiamo pensato “ecco un buon formatore”: perché guidare gli altri “che non sanno” dentro il mondo della pena vuol dire mettere insieme domande profonde e sentimenti, sguardo critico, interrogativi scomodi e vissuto reale. Bravo, Stefano, eri bravo, sensato e coraggioso insieme, e non ti sei risparmiato. Peccato, per questa nuova occasione in cui non ci sarai, con noi, a svuotare con le mani della tua tenacia il mare delle indifferenze e dei pregiudizi. Bravo anche quando hai preso parola sulle droghe: qualcosa che per te non era un “discorso”, frasi da affastellare per sostenere chissà quale tesi, ma lo sviscerare senza infingimenti una realtà scritta sulla tua pelle, metterti in gioco, anche con dolore, accettando la sfida della lucidità. Con la forza di andare controcorrente. Siamo tristi e addolorate per la tua morte, e anche arrabbiate, arrabbiate come quando si assiste a un’ingiustizia: come se, troppo tardi, volessimo rivendicare per te un po’ di felicità. Non serve, adesso. Adesso possiamo dirti che terremo di te una memoria bella, tenera, riconoscente. Ciao, Stefano. Una scrittura così lucida, da illuminare in modo inaspettato la realtà carceraria Attingere dai suoi pezzi una lezione di coraggio e consapevolezza Perché la vita di Stefano è stata una vita coraggiosa, che si è nutrita delle sconfitte esibite per comprendere e far comprendere
di Adriana Lorenzi "scrittrice, formatrice, conduce laboratori di scrittura autobiografica nelle carceri"
Stefano. L’ho incontrato la prima volta nella Redazione esterna di Ristretti Orizzonti e non vedevo l’ora di conoscerlo, perché era l’unico che mancava all’appello. Gli altri li avevo già incontrati dentro il carcere. Leggevo da tempo Ristretti Orizzonti e finivo sempre per farmi irretire dagli articoli di Marino (Occhipinti), Elton (Kalica), Graziano (Scialpi) e Stefano (Bentivogli). I loro pezzi mi costringevano a ripensare i luoghi comuni sul carcere, a passare attraverso le difese irritanti messe in atto dalle persone che con il carcere non hanno nulla a che fare, ma che adorano discettare sulla reclusione come villeggiatura, dove si mangia e si dorme senza alcuna preoccupazione con la dotazione in sovrappiù di televisione, campo di calcio e palestra. I loro articoli avevano il potere di convocarmi, mi chiedevano di ascoltare la loro storia che mi arrivava per frammenti dall’odore aspro della violenza, della miseria e del sangue. Al termine della lettura non ero più quella di prima e da sempre, anche solo per questo, continuo ad essere grata a Ristretti Orizzonti in generale e a loro in particolare. Quando sono entrata per la prima volta nel carcere di Padova e ho stretto la mano a Marino, Elton e Graziano, non mi erano affatto estranei, come lo ero io a loro. Quella stretta di mano era per me una forma di riconoscimento e ci misi la forza del ritrovamento: incontravo il corpo e la voce capaci di dare vita a quella scrittura così autentica, personale e nello stesso tempo così lucida da illuminare in modo inaspettato la realtà carceraria, svelandone i retroscena, mettendo a nudo le vite chiuse dietro le sbarre. Stefano però non c’era. Era fuori e Ornella mi parlava di lui e dei faticosi tentativi di aiutarlo a sconfiggere la sua tossicodipendenza. Nelle mie lezioni sul carcere in Università, citavo il brano che Stefano aveva scritto dopo avere incontrato gli studenti all’interno del progetto “Il carcere entra a scuola”, quando si era accorto della possibile dannosa operazione di idealizzazione dei detenuti ad opera dei ragazzi che scoprono di avere di fronte uomini e non reati. Dopo la piacevole “indigestione di complimenti”, ha indirizzato parole coraggiose agli studenti: “A prescindere dal fatto che il carcere sia utile o giusto, noi siamo stati chiusi qui perché sappiamo essere pericolosi e sappiamo fare del male. Siamo diversi da voi perché, ognuno con livelli di gravità e di responsabilità differenti, abbiamo commesso davvero dei reati… non siamo dei mostri, ma nemmeno dei discoli che hanno rubato la marmellata alla nonna, siamo persone con una storia drammatica, complicata, responsabili di situazioni a volte al limite della comprensione umana”(2). La drammaticità e la complicazione della sua storia, Stefano se la portava addosso, tatuata sulla pelle e accoccolata nello sguardo. Questo ho pensato, non appena l’ho visto entrare nella stanza della Redazione, trafelato per la corsa, con lo zaino sulle spalle e un berretto di lana sulla testa. Ero così felice di incontrarlo, che non ho controllato il mio entusiasmo e stringendogli la mano e presentandomi, l’ho investito di complimenti per i suoi articoli, citandogli a memoria intere sue frasi. Mi ha frenato immediatamente e mi ha detto che lui era timido e i complimenti lo mettevano in imbarazzo. A quel punto ero io ad essere in imbarazzo. La sua bellezza disarmava: Stefano apparteneva a quella categoria di uomini che fa sognare le donne di ogni età – alto e moro, dinoccolato ed elegante –, eppure la sua bellezza era sfregiata dalla dipendenza, esperta disegnatrice di ombre lugubri sul corpo affilato, inquieto. Piegato da tempo. Antichi potrei definire i suoi occhi… sprofondati in un passato sempre presente impossibile da cancellare e pesante da gestire, nel tentativo di non fare troppo male a sé e agli altri. Dopo essersi accomodato alla scrivania, si è rilassato, come se avesse trovato il suo posto e fosse pronto a conoscermi: ha cominciato a farmi domande sul laboratorio di scrittura all’interno del carcere di Padova. Conosceva ogni uomo che chiamavo per nome, mi ascoltava con attenzione, ridendo di alcuni aneddoti oppure offrendomi la sua opinione su quei comportamenti che mi lasciavano spesso interdetta. Mi sono ritrovata anche a parlargli del mio lavoro nel reparto femminile della Casa Circondariale di Bergamo, sfogando la frustrazione di avere un gruppo di detenute così poco produttivo soprattutto al confronto di quello padovano. Da una parte uomini che si impegnavano e scrivevano con me senza sbuffare sia al mattino che al pomeriggio e che mi suggerivano libri da leggere del loro paese d’origine; dall’altra giovani donne che non avevano voglia di impegnarsi davvero, che preferivano rimanere in cella a guardare le macchie del soffitto piuttosto che partecipare all’attività di scrittura. Stefano mi suggerì di offrire loro la possibilità di scrivere qualcosa per Ristretti Orizzonti, magari potevano esserne lusingate… mi disse che la cosa più importante era continuare a stimolarle, pungolarle un po’ per risvegliare il loro interesse. Per alcune settimane fotocopiai i testi di Stefano, Graziano, Elton e Marino e li proposi alle donne di Bergamo, invitandole a scrivere ai detenuti di Padova per intrecciare una relazione anche solo epistolare… nessuna di loro scrisse, però riuscii a coinvolgerle in appassionate discussioni che mi permisero di avere un gruppo più partecipante. Una di loro scrisse anche un brano sull’Ora d’aria che feci pubblicare sulla rivista Mezzocielo. Fui grata a Stefano per i suoi suggerimenti anche se non gliel’ho mai detto. Dopo quella volta l’ho visto ad una lezione organizzata da Ornella e rivolta ad alcune insegnanti sul metodo di lavoro incentrato sulla scrittura autobiografica e memoriale. Stefano si era seduto alla mia destra e mentre parlavo, non riuscivo a vederlo in faccia ma, accennando all’esperienza in corso nel carcere di Padova, mi veniva spontaneo voltarmi verso di lui che sapeva esattamente di chi stavo parlando: lui mi sorrideva. Lo sentivo complice e partecipe e la sua presenza mi faceva bene. Quando proposi un esercizio di scrittura, le insegnanti si mostrarono un po’ recalcitranti, lui si dispose a scrivere e accettò anche di leggere il suo testo ad alta voce. L’ho apprezzato ancora di più. Poi, ci siamo incontrati al convegno di maggio a Padova del 2006, a quello di quest’anno a Bologna e ha avuto sempre per me un abbraccio stretto, mentre mi chiedeva come stavo e come procedeva l’attività a Bergamo. La sua bellezza inquieta, la sua intelligenza lucida continuavano a raccontarmi una storia sempre più sedimentata, stratificata nelle membra, nel cuore e nel cervello.
Figli che non vogliono essere amati
“Che ne è dei figli che non vogliono essere amati?” si chiede Alkmene nel racconto di Karen Blixen(3). Può succedere che muoiano anzitempo, ponendo fine alla sofferenza che non cessa di essere tale. Forse anziché chiedersi il perché del suo morire così giovane, sarebbe meglio domandarsi come abbia fatto a resistere tanto a lungo dentro i luoghi dell’emarginazione più avvilente come il carcere e la comunità, a scrivere così densamente per Ristretti Orizzonti e per Fuoriluogo, portando avanti le sue battaglie per una vita più giusta nelle carceri italiane, sempre accompagnato dall’ombra ben visibile della morte appollaiata sulle spalle. La sua è stata una vita coraggiosa, che si è nutrita delle sconfitte esibite per comprendere e far comprendere. Ha cercato di vincere quella morte, lusingandola con la scrittura che voleva durare, scandagliare, rovistare nelle pieghe più riposte prima di arrendersi alla fine. Non sempre la vita è bella. Resta la sua scrittura, restano i suoi articoli con i quali Stefano provava a dire le cose così come stavano, dalla sua posizione di ex-detenuto, di tossicodipendente, di uomo che parlava perché aveva visto tanto e perché l’esistenza, almeno quella degli altri dentro e fuori le mura del carcere, potesse essere diversa e il mondo almeno un po’ migliore. L’annuncio della sua morte mi ha fatto male… il pensiero della sua scomparsa ha segnato i miei giorni, spegnendoli per un po’. Con ossessione mi ritornava in mente quanto avevo letto dei lemming, animaletti che vivono nelle loro tane, finché non diventano troppi e allora le abbandonano per camminare, camminare finché non arrivano al mare dove affogano. Camminare per affogare. Vivere per morire. È buia l’immagine della sua morte, alla stazione di Lecco… overdose… forse, però per lui, quell’attimo di passaggio è stato dolce, beato, senza sofferenza. Non so. Non mi interessa neppure saperlo, perché mi pare più interessante concentrami sulla possibilità di rileggere i suoi testi, di ricordarlo, di nominarlo nella redazione interna di Ristretti Orizzonti. Mi piace che Ornella abbia deciso di dedicargli un numero e che Elton, appena ieri, mi abbia mostrato l’indice dei diversi contributi. Stefano rimane un interlocutore impossibile da dimenticare, un giornalista al quale rivolgermi per attingere dai suoi pezzi una lezione di coraggio e consapevolezza, mentre cerco la strada dentro il mondo reale da raccontare, da denunciare, da trasformare in comunità vivibile per i tanti senza nome, così come lui stesso si era riproposto di fare nel corso della sua vita sempre più assottigliata, nascosta nell’oscurità della sua anima piagata.
(2) Ristretti Orizzonti, n 3 maggio 2005, pp. 13-14 (3) K. Blixen, Racconti d’inverno, Adelphi, Milano, 1980
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