|
Se il carcere sta sul mercato Più di cento invitati per inaugurare i laboratori del consorzio Rebus. Fabbriche di valigie e manichini, cucina e pasticceria, perfino un call-center per attività di telemarketing. Nella Casa di reclusione di Padova il consorzio Rebus impiega più di cinquanta detenuti, offrendo a chi sconta la pena l’unico strumento utile in libertà: una competenza professionale
a cura di Marino Occhipinti
«Esprimo vivo apprezzamento per le attività della Rebus perché esaltano il significato educativo e sociale del lavoro, offrendo contributi determinanti per la riabilitazione dei detenuti». Perfino il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi si è “scomodato” a mandare il suo messaggio personale al consorzio Rebus, in occasione dell’inaugurazione ufficiale delle attività lavorative nella Casa di reclusione di Padova. Un taglio del nastro con oltre cento invitati, quello avvenuto a metà novembre scorso, più simbolico che reale visto che la cooperativa Giotto, capofila del consorzio, ha aperto il suo primo laboratorio al Due Palazzi già nel 2001. Tutto è cominciato con la produzione di manichini per l’alta moda in uno dei capannoni abbandonati del carcere. Poi le attività si sono moltiplicate: assemblaggio di valigie, cartotecnica, un call-center (il primo, in Italia, che impiega i detenuti nel telemarketing), la cucina che ha preso in gestione la mensa interna e una pasticceria che vende i propri prodotti fuori. Infine due corsi di formazione: il primo di giardinaggio (un classico, ormai, nelle carceri italiane), mentre il secondo è fin troppo originale, tanto che ai primi detenuti-candidati la proposta è parsa come uno scherzo dai toni macabri. Si tratta infatti di un corso per operatori cimiteriali, e i detenuti che hanno partecipato sono poi stati assunti dalla cooperativa Giotto per lavorare all’esterno, in misura alternativa. Il consorzio Rebus associa quattro cooperative: Giotto, Work Crossing, Punto d’Incontro e Cusl, e ognuna gestisce laboratori specifici per un totale di sei poli lavorativi. Attualmente impiegano 58 detenuti, cinquanta reclusi e otto che godono dell’articolo 21 per lavorare all’esterno, più altre sette persone che hanno appena finito di scontare la pena. Numeri significativi, se pensiamo che nei dieci penitenziari di tutto il Veneto sono solo 141 i detenuti-lavoratori alle dipendenze delle cooperative, secondo le ultime statistiche del Dap relative al primo semestre 2005. Il consorzio Rebus assume i detenuti dopo un tirocinio di tre mesi, e il numero dei lavoratori aumenta grazie al notevole turn-over, dovuto alle scarcerazioni per fine pena o per ammissione alle misure alternative. È stata soprattutto la legge Smuraglia, approvata cinque anni fa, a stimolare l’avvio delle nuove lavorazioni. La normativa prevede infatti dei vantaggi economici, sotto forma di sgravi fiscali e crediti d’imposta, per le aziende che portano lavoro in carcere, estendendo anche alcuni benefici per le cooperative sociali già sanciti dalla legge 381 del 1991. Ma nel carcere di Padova i progetti non avrebbero potuto realizzarsi senza la collaborazione di una rete di soggetti: l’amministrazione penitenziaria, gli enti pubblici, il privato sociale. «Abbiamo portato all’interno attività imprenditoriali e sociali ha affermato il presidente di Rebus, Nicola Boscoletto, durante l’inaugurazione perché noi non facciamo assistenzialismo, ma realizziamo prodotti che vanno direttamente sul mercato. Inoltre offriamo alle persone detenute un percorso di recupero per riappropriarsi di capacità fondamentali, anche formative, che diano la possibilità di un concreto rientro nella società». Nella Casa di reclusione di Padova la situazione non sarà ottimale, perché ci sono ancora troppe persone che trascorrono lunghe ore nell’ozio, ma la realtà è certo migliore rispetto ad altre carceri d’Italia, dove la giornata tipica del detenuto è scandita da piccoli riti che servono solo a far passare il tempo: colazione, passeggi, pranzo, posta. Poi di nuovo passeggi e infine cena. Una sorta di ospedalizzazione, una detenzione a dir poco inutile, quasi anestetizzante, sia per chi deve pagare il proprio reato sia per la società, che presto o tardi si ritroverà ad accogliere persone libere e sfiancate dall’ozio, difficilmente capaci di riprendere in fretta i ritmi della vita “normale”. Non a caso, statistiche attendibili confermano il calo della recidiva tra le persone che sono state avviate a qualche attività lavorativa in carcere, rispetto a chi ha riposato in rassegnato letargo. Ma la teoria dice poco, e allora, visto che anch’io lavoro per la cooperativa Giotto, ho avuto la possibilità di passare in rassegna le varie attività, raccogliendo alcune testimonianze che fanno capire il contesto meglio di tanti discorsi ideali sul lavoro in carcere.
Mohamed El Assouli, marocchino, lavora nel laboratorio di cartotecnica Alcuni anni fa la direzione di questo carcere mi ha inserito in un corso, dove ho imparato i principi della legatoria e della cartotecnica. Questa attività mi ha permesso di restare più ore fuori dalla cella e di imparare qualcosa, ma soprattutto mi ha poi consentito, quando le cooperative Cusl e Giotto hanno aperto la legatoria-cartotecnica dei capannoni, di essere avviato al lavoro. In questi ultimi sei mesi, grazie agli insegnamenti di Paolo, l’operatore esterno della cooperativa, ho imparato ad usare tutti i macchinari di cui siamo dotati: praticamente facciamo una produzione più “industriale”, mantenendo però l’artigianalità che è anche lo spirito del nostro lavoro. Realizziamo prodotti di cartoleria di vario genere, ed i più interessanti sono sicuramente quelli che hanno come soggetti i dipinti di Giotto che si trovano nella famosa cappella degli Scrovegni di Padova. Gli oggetti che produciamo vengono venduti nel negozio della cappella, quindi i turisti che visitano il museo li portano in tutto il mondo. Per il periodo natalizio stiamo preparando anche parecchi gadgets, ordinati da banche, alberghi e ditte varie, che poi li donano ai loro clienti. Grazie a questo lavoro riesco ad essere più indipendente economicamente, quindi a non essere di peso alla mia famiglia.
Altin Demiri, albanese, lavora nel laboratorio di pasticceria Sono albanese, mi trovo in carcere da undici anni e in questo periodo ho girovagato tra cinque diversi istituti. Durante la detenzione ho quasi sempre lavorato in cucina, e devo ammettere di essere stato fortunato perché il lavoro in carcere è un lusso per pochi. Ecco perché qualcuno lo definisce un privilegio. Anche qui a Padova, per circa un anno, ho fatto l’aiuto cuoco. Quando pochi mesi fa ho sentito che la cooperativa Giotto doveva aprire un laboratorio di pasticceria, mi sono messo in testa che avrei dovuto farne parte. È stato come un richiamo, perché si tratta di un’attività che ho già svolto dodici anni fa in Sicilia, quando la mia vita era quella di una persona onesta. La mia conoscenza nella pasticceria era limitata, inoltre dodici anni di inattività mi avevano fatto perdere la mano. Un po’ come per il chitarrista che ha bisogno di continuo allenamento, anche nella pasticceria c’è bisogno di esercizio, perché fare i dolci a livello professionale è un’arte. Sono veramente soddisfatto perché divento sempre più bravo: in questo periodo, ogni giorno produciamo circa 50-60 chili di pasticcini e torte, e dal mese di ottobre abbiamo iniziato con i panettoni natalizi. Ne sforniamo 200 al giorno e per fine anno toccheremo quota novemila. Dovreste sentire il profumo che comincia a viaggiare nei corridoi… Questa occupazione mi ha fatto risollevare anche nei confronti del futuro. Ora so che quando uscirò non avrò problemi a trovare lavoro, perché i pasticceri sono molto richiesti e la voglia di fare non mi manca. In conclusione qualche parola per i nostri maestri pasticceri Sambo, Alessandro e l’altro Alessandro detto Gion, veri professionisti che vengono ogni giorno a lavorare in carcere e che con passione e pazienza ci insegnano questo mestiere antico. Grazie al lavoro in questi mesi mi sono riappropriato di quel contatto umano che in questo luogo, il carcere, ti viene in buona parte sottratto.
Franco Zornetta, italiano, lavora nel laboratorio di assemblaggio per valigeria Sono detenuto da 14 anni e sono condannato “a vita”. Dopo aver “visitato” alcune carceri del Nord-Est, nel 1997 sono stato trasferito in questa Casa di reclusione. Dal 2000 al 2004 ho lavorato per una cooperativa. Assemblava componenti elettronici. Da circa un anno e mezzo lavoro alle dipendenze della Punto d’Incontro. All’inizio abbiamo montato supporti per guard-rail, mentre adesso assembliamo componenti per la ditta Valigerie Roncato. Per me quest’occupazione è una valvola di sfogo non indifferente, ed una fonte di guadagno che mi permette di essere autosufficiente. Quando si è reclusi è molto importante essere autonomi economicamente: significa che ci si può arrangiare e non si deve dipendere in tutto e per tutto dai propri cari. Durante i primi anni di detenzione, ogni volta che dovevo chiedere qualcosa ai miei familiari mi sentivo impotente e umiliato, ora invece ho questa opportunità che, oltre a permettermi di imparare un lavoro, mi dà una bella iniezione di fiducia nel futuro, sempre se può esistere un futuro per chi ha una condanna come la mia. Ma forse un giorno potrei cominciare a lavorare all’esterno, e queste possibilità che mi vengono offerte sono determinanti. Spero che sempre più aziende imitino le cooperative sociali Giotto e Punto d’Incontro, che ci offrono questa grande chance per un futuro reinserimento nella società, ma purtroppo le ditte “girano” al largo dal carcere perché le informazioni giornalistiche che vengono date sui detenuti sono sempre e solo negative.
Gianni Dall’Agnese, italiano, lavora in cucina Sono convinto che il vero cambiamento di una persona inizia dal suo interno. Un’evoluzione spontanea, che spesso nasce dalla presa di coscienza dei propri errori. Un percorso difficile, e capisco chi lo rifiuta perché anch’io l’ho fatto per tanti anni. Non è facile maturare in carcere senza un terreno fertile, ma anche tra queste quattro mura possono sbocciare vite nuove. Lavoro in cucina, ho iniziato come lavapentole, ma grazie alla formazione della cooperativa Giotto (che mi ha insegnato anche l’importanza di una pentola pulita in un contesto di gruppo, dove ognuno deve fare bene il proprio lavoro, anche il più umile), oggi spazio fra tante mansioni: taglio, cucino, pulisco, aiuto gli altri quando serve, non mi tiro mai indietro. Siamo una ventina, suddivisi in turni, a produrre i pasti per le 750 persone detenute in questo carcere. Ci coordinano due cuochi esterni, due esperti del settore, sempre disponibili per chi, come me, ha voglia di imparare.
Mustafa Cantasdemir, turco, operaio al laboratorio dei manichini in cartapesta Sono in carcere dal 1999 e finirò di scontare la mia condanna nel 2008. Dopo essere stato detenuto a Trieste, nel 2000 sono arrivato in questo carcere e nel 2002 sono stato chiamato per lavorare ai capannoni. Il carcere è stato molto duro soprattutto perché, abituato a lavorare, non riuscivo ad accettare l’inattività. Lavorare mi ha fatto sentire meglio, utile a me stesso e anche agli altri. Nel capannone dove lavoro assieme ad altri sette miei compagni produciamo manichini in cartapesta completamente fatti a mano, quindi molto ricercati in Italia e all’estero. Si tratta di un lavoro artigianale dove conta molto la manualità e il tempo vola: tutto questo mi ha fatto scontare buona parte della mia condanna in maniera costruttiva.
Le attività e i numeri del consorzio Rebus
Manichini: 6 dipendenti Si producono manichini industriali e manichini in cartapesta per l’alta moda con un brevetto esclusivo e certificazione di qualità Iso9000.
Valigeria: 10 dipendenti Si fa assemblaggio per un noto marchio di valigie.
Cartotecnica: 2 dipendenti Un piccolo laboratorio che, in occasione della ricorrenza dei settecento anni della Cappella degli Scrovegni di Padova, ha realizzato una linea di oggetti di cartoleria.
Call-center: 8 dipendenti Ha 28 postazioni per dare lavoro a oltre 50 persone. Attualmente si fa un’attività di telemarketing per vendere generi alimentari, pannelli solari, sistemi di condizionamento, corsi di formazione e indagini di mercato. È in fase di avvio una cellula del Centro unico di prenotazione per conto dell’Azienda ospedaliera di Padova.
Ristorazione: 18 dipendenti Per conto dell’Amministrazione penitenziaria, Rebus gestisce un progetto sperimentale che prevede l’esternalizzazione del servizio di ristorazione.
Pasticceria: 6 dipendenti L’ultima nata è la pasticceria, i cui prodotto vengono venduti all’esterno, con sei persone recluse alla scuola di maestri pasticceri.
Quando la moda“sa di carcere”Un abbigliamento dall’aspetto “pulito”. Codiceasbarre, un progetto nato nel carcere femminile di Vercelli. Sforna una linea di abbigliamento che si ispira con ironia alle vecchie divise carcerarie, utilizzate in alcune galere prima del 1975
a cura di Marino Occhipinti
Codiceasbarre parte dalla sezione femminile della Casa circondariale di Vercelli e da un laboratorio di sartoria allestito dall’Amministrazione penitenziaria all’interno del carcere, da una sarta specializzata nel confezionamento di abiti da lavoro, da alcune detenute, poi assunte da un Consorzio, accomunate da una vicinanza di cella e dalla volontà di spendersi e di spendere il proprio tempo in maniera utile. Il progetto mira naturalmente ad allargarsi coinvolgendo altre prigioni, come Le Vallette di Torino e quella di Ivrea. Le quattro ospiti-stiliste della Casa circondariale vercellese sono state scelte fra quelle che ancora non godono di benefici penitenziari. Sono due italiane, una slava e una nigeriana, con età fra i 25 e i 45 anni. Tagliano e cuciono 30 ore alla settimana (dopo un corso di formazione di 16 mesi) con uno stipendio di 750 euro. Hanno parecchi anni di carcere ancora da scontare e per contratto hanno diritto alle ferie: le vacanze sono una felicità per i cittadini liberi ma un dramma dietro le sbarre, dove non c’è nulla da fare, ma tant’è. A coordinare la linea di abbigliamento e le idee delle detenute è un giovane designer ex collaboratore di marchi noti. L’ispirazione dei capi jailwear nasce guardando l’archivio delle divise carcerarie prima del 1975: niente metallo, solo cerniere in plastica. Stampe al posto delle “pericolose” etichette dove si potrebbero nascondere stupefacenti, coulisse con fettucce corte per non farsi del male… Prima di iniziare la produzione, infatti, gli operatori di Codiceasbarre si sono immersi nei magazzini impolverati delle carceri, traendone spunti sia di tessuti che di dettagli e annusando l’odore di cappotti duri e infeltriti. Un nuovo modo di vestire, insomma, che usa tessuti grezzi e basici di alta qualità, accoppiati e reversibili in felpa e gabardine, lino e nylon cerato, costina e tyvek. Una linea di abbigliamento dall’aspetto “pulito”, dove l’ispirazione resta la prigione, con quella vecchia divisa inzuppata di omologazione e annichilimento della personalità. Tutti i capi sono regolarmente in vendita, distribuiti dalla Age di Torino in 120 negozi italiani di target alto. Di Codiceasbarre abbiamo parlato con Caterina Micolano, che ne è la project manager. Codiceasbarre. È un progetto sociale nato nel 2002 dalla collaborazione tra un’impresa sociale (il consorzio sociale Armes), il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, il Comune di Vercelli con lo scopo di promuovere un’iniziativa imprenditoriale “innovativa” rispetto ai tradizionali approcci “da operatori sociali”. Volevamo, in sostanza, pensare a qualcosa di diverso da offrire alle donne detenute presso la sezione femminile del carcere locale.Abbiamo selezionato il personale in collaborazione con gli educatori del carcere, individuato quattro donne a cui abbiamo proposto un percorso durato circa 16 mesi durante il quale hanno frequentato un corso di formazione sul taglio e cucito, e condiviso un lavoro di gruppo con i responsabili del consorzio su imprenditorialità e comunicazione finalizzato a definire, in maniera condivisa, come e cosa comunicare – attraverso il nostro marchio e quindi i nostri capi – del mondo che conosciamo da dentro, ovvero il carcere. Ne è nata l’idea di far diventare il mondo carcerario fonte di ispirazione per la definizione di un nuovo stile, il jailwear, e di un modo di vestire libero dagli stereotipi della moda. Oggi le quattro detenute sono imprenditrici con noi, assunte a tempo indeterminato con il rispetto dei contratti sindacali di categoria, definendo strategie di marketing, fornendo le indicazioni di concept sui capi allo stilista e personalizzando in maniera unica e sartoriale alcuni capi della collezione.
Far parlare del carcere e della riabilitazione dei detenuti in un modo diverso, meno assistenziale, meno “pietistico”
Lo stilista. Mente creativa e mano operativa di CDSB è Rocco Manco, un giovane designer vercellese reduce da anni di lavoro per conto di marchi internazionali di moda e sport (Napapjiri, North Sails, Freddy per citarne alcuni). Aveva letto del progetto sociale su un giornale locale. Ci ha contattati e dall’incontro è nata l’idea di lanciare un vero e proprio marchio.
Le detenute. Hanno scelto quattro alias con cui presentarsi a giornali e media che dallo scorso anno a oggi hanno chiesto di intervistarle e/o filmarle per servizi televisivi. Sono Giada, Nicole, Valentina, Giulia (sono i nomi delle loro figlie o nipotine). Hanno storie differenti, hanno compiuto reati differenti… contro la persona, contro il patrimonio… Alcune di loro hanno parecchi anni da scontare, altre si apprestano (nei prossimi anni) a terminare di pagare il proprio debito. A loro, soprattutto, dedichiamo lo sforzo dello start up di questi primi anni di vita, affinché al momento della loro uscita l’azienda che hanno contribuito a fondare sia in grado di garantire loro un lavoro sicuro anche fuori dal carcere.
La provocazione di CDSB. Far parlare del carcere e della riabilitazione dei detenuti in un modo diverso, meno assistenziale, meno “pietistico”. Per questo il canale di distribuzione scelto non è stato quello del commercio equo e solidale (più consono a progetti a carattere etico, e frequentato da un pubblico sensibile a cause di questo genere) ma quello dei negozi di target alto, nei quali il prodotto riesce a entrare perché qualitativamente all’altezza della situazione. Niente sconti, insomma, a fronte dell’eticità della filiera. A partire dalla collezione per il 2006 la distribuzione è curata dalla Age srl di Torino.
La sfilata del 21 ottobre 2005. Il partenariato del Ministero di Giustizia ci ha consentito, per il secondo anno consecutivo, di chiedere ospitalità al Tribunale di Milano per effettuare una sfilata: quale miglior luogo per essere giudicati? Si è svolta nella sala conferenze dell’ordine degli avvocati con uno spettacolo che ha raccontato il senso del progetto e della collezione. Ad inaugurare la kermesse è stato Roberto Sbaratto, attore teatrale, con la recita di alcuni testi scritti da detenuti. Il testimone è poi passato ai “Torino Hip Hop Connection” con una coreografia hip hop d’effetto indossando i nostri capi icona (la divisa da detenuto e la felpa reversibile CDSB) e la nuova collezione in un percorso di liberazione dalle proprie prigioni mentali. A chiudere, di nuovo un intervento di Sbaratto con la recita di un testo firmato da un ragazzo senegalese. Infine hanno sicuramente fatto effetto gli inviti alla sfilata: “avvisi di garanzia” in piena regola per informare che a Palazzo di Giustizia avrebbe sfilato la moda made in prison. Fra divise a righe da bagno penale, rivisitate e corrette, e un rancio a base di pane e vino serviti nelle gavette militari.
|