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Ordinaria quotidianità carceraria
Ci occupiamo da anni di carcere e di problemi di importanza fondamentale come la salute, la negazione degli affetti, le difficoltà del reinserimento, ma la vita in galera è fatta anche di tanti piccoli momenti, tanti problemi minuscoli, tante frustrazioni che sono come la goccia che scava e scava e consuma chi sta dentro. È lo stress e la fatica di sopportare continue ed estenuanti proibizioni, quello che rende le giornate pesanti e logoranti, ed è con questo logoramento che vogliamo iniziare questo numero del giornale: logoramento, perché i genitori anziani sono costretti ad aspettare ore in piedi per incontrare i figli detenuti, perché le famiglie arrivano da lontano e si vedono spesso negare il colloquio di due ore, perché le punizioni collettive si abbattono a raffica su tutti per la responsabilità di uno. Se poi la persona detenuta ha anche una forma di disabilità, il carcere diventa un inferno: nessuno che ti assista, le docce in ambienti malsani, promiscui e di difficile accesso, le scarpe che ti farebbero camminare meglio e non ti vengono concesse. Queste sono le storie che raccontiamo, perché è soprattutto da qui, dal dolore e dalla rabbia che si accumulano giorno per giorno, che si deve partire se si vuole davvero rendere più umana e dignitosa la vita in galera.
La Redazione
Colpiscine cento per non rieducarne nemmeno uno In carcere quando uno sbaglia a pagare sono sempre molti
di Graziano Scialpi
Mao Ze Dong sosteneva che era necessario "colpirne uno per educarne cento". In carcere la prassi è di colpirne cento per non rieducarne nemmeno uno. In barba a tutti i principi che stabiliscono che la responsabilità (in particolare quella penale) è individuale, che vige il principio della presunzione di innocenza, che nel dubbio bisogna decidere in favore del reo o presunto tale, perché è sempre preferibile lasciar scappare cento colpevoli piuttosto che punire ingiustamente un solo innocente, in carcere quando uno sbaglia a pagare sono sempre molti. Il numero può variare da quello minimo dei compagni di cella, a quello massimo dell’intera popolazione del penitenziario, passando attraverso le misure intermedie: tutti quelli che si trovavano in saletta, o nel cortile dell’aria, o l’intera sezione o i compagni di lavoro.
Uno spesino viene sorpreso a fare la cresta? Tutti gli spesini devono fare in fretta e furia il sacco e vengono spediti ai quattro angoli d’Italia. Un imbecille "sniffa" il gas delle bombolette? In tutto il carcere vengono sequestrate le bombolette di scorta e ci si ritrova senza fuoco a metà cottura della pasta. Qualcuno viene sorpreso mentre cerca di introdurre droga in carcere? Allora tutti i detenuti e i loro parenti vengono sottoposti a controlli umilianti ed estenuanti, i parenti poi vengono costretti ad attese di tre ore per riuscire a fare un’ora di colloquio e tutti i reclusi si vedono improvvisamente restringere in modo drastico i già scarsi generi che possono ricevere con i pacchi. Non importa che dai loro dossier risulti a chiare lettere che sono dentro per tutt’altro genere di reati e che non hanno mai avuto a che fare con la droga: se uno si è fatto una canna, tutti devono pagargli la fumata. L’aspetto più divertente dell’intera faccenda è che il responsabile magari è vicino al fine pena, se ne frega di tutto e esce in libertà dopo qualche mese, mentre gli altri continuano a subire le conseguenze della sua violazione dei regolamenti per anni. Ciò è tanto più vero in questi ultimi tempi quando, vuoi a causa del sovraffollamento, vuoi a causa della ristrutturazione di numerose Case Circondariali, detenuti che devono scontare venti o trent’anni di galera, persone che cercano di inventarsi una parvenza di vita regolare e di progettualità, si vedono costretti a condividere la cella con persone che hanno dei fine pena di due-tre mesi. Disperati il cui unico pensiero è che il secchio di psicofarmaci che bevono tre volte al giorno sia colmo fino all’orlo e non ne manchi neppure una goccia. Gente il cui unico scopo è trascinarsi il più storditi possibile per le settimane che mancano alla liberazione e a cui non frega nulla della pulizia, dell’ordine, del rispetto per i compagni di prigionia che in quella cella che loro sporcano senza pulire devono trascorrere il decimo o undicesimo Natale. Ma torniamo alla pratica della punizione collettiva. La prima cosa che viene da chiedersi è: che senso ha? In realtà oggi non ha alcun senso perché esacerba gli animi, non aumenta certo il rispetto né verso le Istituzioni né verso le regole e non spinge nemmeno i detenuti a controllare i loro compagni di prigionia e a segnalarne i comportamenti irregolari (su questo bisognerebbe scrivere un articolo a parte). Ma se è così inutile e forse persino dannosa perché viene praticata? La risposta a questa domanda è molto semplice: la repressione collettiva per lo sbaglio di un singolo viene praticata perché il carcere è un’entità molto pesante, un grave direbbe Galileo, che procede per inerzia con l’abbrivio di una superpetroliera. La repressione collettiva è un fossile del carcere pre-Gozzini. Risale all’epoca in cui non esistevano liberazione anticipata, permessi premio, misure alternative. Risale all’epoca in cui una persona condannata a vent’anni non poteva sperare in sconti di pena. Risale all’epoca in cui l’unica Legge del carcere era la violenza. Non avendo altri mezzi di controllo, quando accadeva qualcosa di grave, le Direzioni potevano applicare restrizioni punitive all’intero carcere. In questo caso le alternative erano due: o gli altri carcerati condividevano le motivazioni del loro compagno e quindi subivano la punizione senza fiatare, oppure non le condividevano e allora il responsabile della punizione collettiva avrebbe passato un quarto d’ora veramente brutto. Ma ciò che era più importante è che la pratica della punizione e della repressione collettiva costringeva i carcerati a operare sui loro compagni di prigionia un controllo preventivo che gli agenti e la direzione non erano in grado di esercitare. Oggi però il carcere è cambiato profondamente. I detenuti, anche gli ergastolani, hanno una speranza di uscire. Se la condotta è buona, c’è la liberazione anticipata. Se la condotta è buona e il detenuto ha seguito un percorso valido, può aspirare alle misure alternative. È impensabile che i detenuti di oggi esercitino una forma di controllo sui loro compagni di prigionia, specialmente su quelli con le pene più brevi che della buona condotta se ne fregano altamente. Dare uno schiaffo a un altro detenuto, anche se questo sta sbagliando a discapito di tutti quanti, può costare molto caro. Oggi come oggi allora la punizione collettiva, anche se mascherata dalle "ragioni di sicurezza", è un assurdo che non ha più ragione di essere, anzi, è antitetica al carattere rieducativo che dovrebbe avere la pena. Tanto più che leggi e regolamenti penitenziari prescrivono che i detenuti debbano essere separati per tipologia di reato, di pena da scontare e anche di personalità. Ma questo non viene fatto. Si mescolano i tossicodipendenti con pene brevissime con detenuti condannati a trent’anni o all’ergastolo, e poi tutti vengono trattati con lo stesso metro anche se i comportamenti sono diversissimi. Uno sfoggio di muscoli che in realtà è un sintomo della debolezza di una istituzione, che si dimostra per lo più incapace non di premiare, ma semplicemente di tutelare la maggioranza dei detenuti che rispettano le regole. La soluzione? Non c’è, forse, nessuna soluzione. Il carcere è, appunto, una struttura pesantissima che avanza per inerzia con l’abbrivio di una superpetroliera. E alla fine, nonostante la Gozzini, la violenza ha assunto altri volti e altre sembianze, e finisce che per governare la vita dei detenuti si usano sempre altri detenuti. Quei continui ostacoli che rendono difficile la vita a chi sta in carcere
di Ernesto Doni
Per natura non sono portato a "pensare male", e a sospettare un dispetto dietro ogni divieto che viene opposto a una mia richiesta che ritengo legittima e meritevole di essere assecondata. Immagino, quindi, che a Padova come in altre carceri, rispondano negativamente a ogni nostra richiesta di estendere a due ore il colloquio del sabato non per il gusto di dirci di no, ma per motivi di carattere organizzativo (personale ridotto rispetto ai giorni feriali, per esempio) che rendono più problematica la concessione di questo "beneficio" il sabato piuttosto che il giovedì o il venerdì (giorni in cui il "raddoppio" d’orario viene perlopiù concesso). Ciò nonostante, ritengo che per molti di noi – o meglio, per i parenti di molti di noi – il colloquio di due ore al sabato non rappresenti un "optional" di poco conto, bensì una sacrosanta esigenza, alla quale dovrebbe essere data una risposta. Mi riferisco, evidentemente, a quei parenti che – per venire a trovare i loro cari detenuti – devono affrontare viaggi di una certa lunghezza e complessità (si pensi per esempio a quelli che risiedono in località lontane e decentrate, e che se vengono in treno devono sottostare anche al gioco snervante delle coincidenze…). Ebbene, queste persone, questi parenti, spesso per venire a colloquio "bruciano" un’intera giornata, fra viaggio di andata e ritorno e lunga attesa prima di accedere alla sala colloqui: come non riconoscergli, allora, il diritto a un incontro un po’ meno striminzito, visto che a un simile tour de force non possono certo sottoporsi tutte le settimane, ma se va bene una volta al mese? Qualcuno potrebbe proporre che allora rinuncino a venire in visita proprio il sabato, che lo facciano il giovedì o il venerdì, giorni in cui il "raddoppio" viene generalmente concesso. Ma è un’argomentazione spuntata, dato che il giovedì e il venerdì sono giornate lavorative per tutti, anche per i parenti dei carcerati. Qualcuno potrebbe dire che, allora, dovrebbero prendersi un giorno di ferie: ma perché mai, oltre a sobbarcarsi lo stress di un lungo viaggio, queste persone dovrebbero anche bruciarsi una giornata di ferie, o rinunciare agli introiti di una giornata (se lavoratori autonomi)? Come si vede, insomma, non è per capriccio che alcuni di noi si ostinano a chiedere l’estensione a due ore dei colloqui del sabato, nonostante questa aspirazione venga regolarmente frustrata. Perché, allora, non si cerca di trovare una soluzione intermedia, di buon senso, che tenga conto sì dei problemi di carattere organizzativo dell’Istituto, ma anche delle legittime, sacrosante esigenze dei parenti che – per venire ai colloqui – devono affrontare viaggi lunghi e magari disagevoli? Io mi permetto di avanzare una proposta che in tutta franchezza non mi sembra proprio inattuabile. Anche perché non si tratta di una mia "invenzione", ma di un collaudato sistema che ho personalmente visto all’opera nel carcere di Pesaro, presso il quale sono stato "ospite" qualche anno fa. Il problema, in quell’Istituto, lo hanno affrontato – e risolto – in questo semplicissimo modo: raddoppio automatico dell’orario dei colloqui del sabato per i soli parenti residenti a oltre 250-300 chilometri da Pesaro. Già così il numero dei parenti (e dei detenuti) aventi diritto a un colloquio di due ore si ridurrebbe drasticamente, dato che di solito la maggioranza dei "clienti" di un carcere non proviene da tanto lontano. Ma la selezione potrebbe essere resa ancora più rigida ripartendo i detenuti aventi diritto al "raddoppio" in due unici turni mensili: che so, primo sabato del mese per quelli dalla A alla L, terzo sabato del mese per quelli dalla M alla Z. A me questa pare una proposta assennata, che tiene conto sia delle valide ragioni dei parenti provenienti da località più lontane, sia delle presumibili buone ragioni delle Direzioni, che nelle giornate di sabato possono evidentemente contare su un numero più limitato di agenti delegati al controllo. L’accoglienza che il carcere riserva ai parenti molto anziani. Ancora un problema vorrei affrontare, in tema di colloqui: l’accoglienza che viene riservata ai parenti in visita molto anziani (ultrasettantenni) o disabili. Mi risulta (e ne ho anzi le "prove", visto che mia madre ha ottant’anni) che attualmente essi – prima di accedere alla sala colloqui – devono sottostare alla stessa, lunga e snervante trafila che è riservata agli altri. Quando è venuta a trovarmi mia madre ha dovuto sopportare un’ora e mezza d’attesa, in piedi, prima di poter entrare in sala colloqui. A me pare un trattamento gravemente irrispettoso, direi anzi inumano, per una persona di quell’età, e mi chiedo e chiedo, pertanto, perché non venga creata una sorta di "corridoio preferenziale" per le persone molto anziane o portatrici di gravi handicap. Sarebbe un atto di civiltà, che non necessariamente comporterebbe una riduzione dei livelli di sicurezza: nessuno infatti pretende che anziani o disabili non siano perquisiti, si chiede, soltanto, che i tempi di controllo e di attesa vengano nei loro confronti decisamente accelerati, in modo che una visita a un parente detenuto non si trasformi in un’insopportabile e immeritata (mica hanno reati da scontare, loro!) "via crucis". Studiare oppure respirare?
In carcere, chi studia o si dedica ad attività culturali è condannato a non andare mai all’aria
di Elton Kalica
Se si parla con i professori dell’ Istituto Tecnico Commerciale A. Gramsci, a proposito del loro rapporto con gli studenti "speciali" del carcere Due Palazzi, si percepisce in loro impegno, comprensione e una certa gratificazione umana e professionale, ma nello stesso tempo anche una certa sfiducia nella costanza del loro impegno. Non è infatti una "passeggiata" impostare e poi seguire un programma di studio con i detenuti, ovvero con persone che non solo sono state perlopiù disinteressate alla scuola negli anni della gioventù, ma che poi hanno continuato a rifiutare anche la disciplina e l’ordine civile, al punto di finire in carcere. Ma proprio per queste difficoltà, tanto più notevole è la soddisfazione che si legge nei loro occhi quando poi, grazie al loro insegnamento e al sorprendente impegno dei detenuti, al momento degli scrutini emergono lo studio e lo sforzo di questi speciali studenti per fare un altro passo importante verso il diploma. Quest’anno i maturandi sono stati tre, per la gioia dei professori che hanno sudato quattro anni di camicie. Quello che stona con questo dato ottimistico è la constatazione che, a fronte dei parecchi che sono partiti, troppo pochi sono arrivati alla "meta". Basta guardare le statistiche e si nota che gli studenti - 15-16 al momento dell’iscrizione al primo anno – al secondo anno già si riducono a una decina, per poi divenire 5-6 il terzo anno, tre soltanto dei quali arrivano poi al traguardo del diploma. Questa "perdita di studenti per strada" è determinata da diversi fattori, alcuni dei quali si possono considerare superabili, con un po’ di buona volontà e di impegno personale, altri di forza maggiore, in quanto dipendenti dalle stesse norme che regolano la vita carceraria. A scuola non si scherza mica, si studiano quattro o cinque materie al giorno. Questo per un tempo che, tra lezioni e lunghe attese, va dalle 8.30 alle 15.10. Inoltre il fatto di dover studiare per il giorno dopo ti costringe, quasi sempre, a rinunciare a diverse cose. Come per esempio la partita di carte o di ping-pong, che solitamente si fa di sera, oppure andare a lavare la biancheria, che significherebbe rientrare in cella alle 19.30; e poi limitare la corrispondenza, il cucinare qualche piatto di proprio gradimento etc. Tutto questo per concentrarsi solo sugli studi. Questa situazione può diventare molto più complicata se si ha per compagno di cella un tipo bisbetico, lagnoso, oppure uno di quelli che seguono con maniacale passione tutti i programmi televisivi di intrattenimento, dalla De Filippi alla D’Eusanio, da Gerry Scotti al Costanzo show. Se questo fenomeno di teledipendenza, che è ampiamente diffuso in carcere, si personifica nel tuo compagno di cella come una condanna accessoria, allora lo studio diventa davvero un’impresa! Tutto questo si può però considerare un problema trascurabile, e quindi superabile, poiché difficoltà simili le incontrano anche gli studenti liberi che si mantengono da sé. Ma l’attività di maggior importanza per i detenuti è l’aria. Questa consiste nell’andare a passeggiare in una cella un poco più grande ma senza soffitto: quindi "all’aria aperta". Due volte alla settimana questa passeggiata viene sostituita con una partita a pallone che si può fare nel campo sportivo o nel campetto chiuso della "palestra". Per ragioni di ordine e di sicurezza, l’arco di tempo in cui i detenuti possono usufruire di questi spazi si limita esclusivamente a questi orari: mattina 9.00 – 11.00; pomeriggio 13.30 – 15.00. Aria malsana e muscoli in stato di abbandono per chi studia in carcere Qui si fa avanti il grande dilemma... L’orario scolastico (ma anche quello delle attività culturali come la redazione del nostro giornale) è pressoché lo stesso dell’aria, per cui la frequentazione della scuola coincide con l’unica attività fisica concessa. Vale a dire che il detenuto deve decidere se andare a scuola (o in redazione), oppure se andare a passeggiare. Dico decidere perché una cosa, come s’è visto, esclude l’altra. Alle 8.30 vai a scuola, oppure aspetti le 9.00 per andare al passeggio. Alle 13.00, poi, lo stesso discorso. Questo è un problema non trascurabile, che il più delle volte costringe i detenuti ad abbandonare la scuola. Nove mesi di vita che passa soltanto tra l’aula scolastica del piano terra e la cella nel piano di sopra sono infatti un vero nemico per la salute. Questa staticità, non solo irrigidisce e dimagrisce i muscoli delle gambe, ma provoca anche la caduta dei capelli per la mancanza di sole e di aria, per non parlare delle malattie cardiovascolari. A vedere uno studente del terzo o quarto anno di fianco ad un detenuto che non frequenta la scuola, si nota una grande differenza. Subito ti colpisce il colore della pelle. Lo studente ha infatti il viso pallido e la pelle bianchissima, mentre l’altro è abbronzato e ha un aspetto vivo. Lo studente è magrissimo, oppure obeso, mentre l’altro ha un tono muscolare che dimostra la buona forma fisica di chi VIVE. Queste sono le prime cose che si notano: e che non sono una mia impressione personale, perché mi sono state confermate anche da professori e da altra gente che viene da fuori. Ora, nel carcere di Padova esiste un piano dove sono collocati i detenuti lavoranti: cuochi, spesini, operai etc. A questi la direzione, tenendo conto del fatto che andando a lavorare non possono passeggiare e prendere aria, ha concesso di poterlo fare dopo il lavoro, cioè dopo le 15.00. Ragionando per un attimo, e considerando da un lato l’attività di chi lavora tutta la giornata in piedi, e dall’altro di chi rimane fermo, seduto su una sedia per tutta la giornata, si può convenire che, se c’è qualcuno che ha più bisogno di andare a camminare un’ora, questi sono proprio gli studenti. Come tutti gli altri detenuti, gli studenti non possono accampare nessun tipo di pretesa nei confronti della direzione, in materia di organizzazione interna. È un dato pacificamente riconosciuto: queste sono le condizioni e puoi limitarti solo a scegliere tra lo studiare e il passeggiare. D’accordo, la regola generale è questa. Ma è pure vero che, come tutte le regole, anche questa ha un’eccezione: quella, appunto, che permette ai detenuti lavoranti di recarsi all’aria in orari diversi. Perché, allora, questa eccezione non viene estesa anche ai detenuti studenti, che come si è detto hanno una necessità di aria e di esercizio fisico ancora maggiore? Non si tratta insomma di avanzare pretese immotivate o di interferire nella gestione interna. Si tratta, più semplicemente, di chiedere che, se un detenuto sceglie come proprio percorso di reinserimento e di rieducazione quello dello studio, o delle attività culturali, sia considerato e trattato in maniera uguale a quella riservata a quei pochi che lavorano e producono. Se il lavoratore può passeggiare un’ora dopo il lavoro, non si vede perché non possa farlo anche lo studente, passeggiando un’ora dopo la scuola. Non è questione di divertimento e di rilassamento, ma di sopravvivenza. Ammalarsi in carcere significa accorciarsi la vita, di almeno dieci anni. L’assurdo calvario di un disabile in carcere
di Daniele Raccanello
Siamo ormai negli ultimi mesi dell’Anno Europeo del Disabile, però il nostro giornale, che su molti altri temi del disagio di sensibilità ne ha dimostrata sempre abbastanza, si era "dimenticato" che di disabili ce ne sono parecchi anche in carcere, e si ritrovano così a vivere sulla propria pelle una condizione, che è già invivibile per una persona sana, immaginarsi cos’è per chi è portatore di handicap. Abbiamo deciso allora di cominciare a occuparci anche di queste persone, e di tutte le "pene aggiuntive" che si ritrovano a vivere sulla propria pelle, cominciando con un’intervista a Mohamed Karim, un ragazzo arrivato di recente nella Casa di Reclusione di Padova. Karim è stato arrestato qualche mese fa con 4,635 grammi di eroina, ed in tasca la somma di 55 euro, ed è rimasto, lui che praticamente non ha l’uso delle gambe, presso il comando dei Carabinieri, chiuso in una piccola cella dall’una di notte fino a poco prima delle undici e trenta, ora nella quale doveva presentarsi davanti al giudice. Queste celle ovviamente sono predisposte per persone che si muovono normalmente, e già sono scomode e davvero "punitive", proviamo a immaginare Karim con le sue stampelle alle prese con la branda o con un bagno non attrezzato. Il fatto è che si parla spesso di barriere architettoniche, e del fatto che nel nostro paese sono tanti i luoghi dove non sono state ancora abbattute, ma nessuno ha voglia di sollevare davvero il problema, spiegando che in luoghi come il carcere queste barriere diventano ostacoli invalicabili, fatti di celle strette che costringono a continui slalom, docce impraticabili, ma anche mancanza di aiuti, obbligo di arrangiarsi anche per chi proprio non è in grado di cavarsela da solo, scarpe ortopediche negate perché "pericolose per la sicurezza", uomini condannati a spaccarsi anche la schiena sedendo su scomodissimi sgabelli per anni, perché in cella le sedie sono vietate.
Karim, ci racconti brevemente qualcosa di te? Sono nato a Marsiglia, sono di nazionalità francese, ma di origine algerina; fuori dal carcere ero ospite di una famiglia di Padova, e sono purtroppo nullafacente.
Da quanto tempo sei in Italia, e come sei messo con i documenti? Sono in Italia da circa tredici anni, ma non sono in regola con il permesso di soggiorno.
Scusa se devo farti una domanda così personale, ma puoi dirmi che malattia ha causato la tua invalidità? Ho fin dalla nascita la poliomielite.
Perché sei finito in prigione? Per spaccio, perché dalla società non sono considerato e quei soldi mi servivano per vivere, per mangiare. Dire che ho fatto centinaia di domande di lavoro è quasi riduttivo, poi sono finito qui e ora cerco solo di sopravvivere. Se avessi avuto un minimo d’aiuto sociale, una piccola attenzione al mio problema, se avessi potuto dimostrare quello che di positivo ho dentro, avrei rifiutato lo spaccio. E invece ora sono in galera da due mesi e devo scontare ancora un anno e tre mesi.
Come ti trovi nel carcere di Padova, com’è la tua cella e qual è il tuo rapporto con i detenuti? Devo premettere che il carcere di Padova è sicuramente organizzato in modo decente, in cella mi hanno dato un aiuto, ma certo tutto è adatto ad una persona diciamo "normale", senza problemi fisici particolari. Proprio ieri sono caduto in bagno e ho dei lividi, e non è la prima volta. Posso solo raccontarvi la fatica degli spostamenti, per esempio cella/doccia, cella/saletta ritrovo, cella/ora d’aria, cella/infermeria, cella/stanza colloquio avvocato. Vi racconto cioè centinaia di estenuanti metri con le stampelle. Il rapporto con gli altri detenuti è improntato invece davvero alla massima solidarietà, quindi mi fa piacere ringraziarli pubblicamente.
Cosa pensi di un possibile soggiorno in una comunità? Non ho esperienza di strutture del genere ma, per quello che mi hanno riferito, penso che sia un luogo più adatto al mio stato, ci andrei volentieri, avrei un aiuto sociale, qualcuno che mi dà una mano nel reinserimento.
Io personalmente, e la redazione tutta, ti ringraziamo della tua testimonianza, perché solo il coraggio di raccontare i propri problemi direttamente può smuovere questa situazione e toccare la sensibilità di chi può trovare una soluzione alternativa a tutte le persone nelle tue condizioni. Io da parte mia ringrazio tutti per questa possibilità, che mi permette di sollevare un problema che riguarda tante persone nelle mie condizioni, e mi fa sperare che possiamo trovare, pur dovendo pagare i nostri errori, una condizione di vita decente. Quello che mi auguro è che la discriminazione non sia più una regola e che la sensibilità abbia il sopravvento sui calcoli puramente economici: solo così potremo finalmente avere un po’ di dignità nella sofferenza. La salute di Kais appesa ad un paio di scarpe
di Youssef Kais
Ultimamente mi sono reso conto che per diventare un medico in certi casi non ci vuole tanto. Basta saper dire: "Cosa c’è? Non hai niente! Semmai ti prescrivo una pastiglia antidolorifica". Ecco, se sai queste parole magiche, allora potresti anche tu diventare un medico e guarire tutte le malattie, ad esempio mal di schiena, di denti, di testa, di cuori… etc. Dopo un anno di promesse ricevute di qua e di là, non sono riuscito ancora a capire cosa devo fare per avere un paio di scarpe, di quelle che dicono non sono consentite, ma io oggi ho bisogno di quelle scarpe più che mai, perché solo con questi tipi di calzature posso camminare tranquillamente e anche appoggiarmi meglio, vista la disgrazia che mi è capitata: ho perso una gamba e ora sto usando una protesi. Il medico che mi ha fatto questa protesi mi ha consigliato di usare solo questo tipo di scarpe per sicurezza, ma anche per evitare qualche infiammazione, che potrebbe portare a conseguenze gravi. Ora mi trovo in carcere e ho chiesto al medico un certificato per permettermi di avere dal casellario le scarpe in questione, ma lui con una certa freddezza mi ha risposto: "Il tuo problema non dipende da me". A questo punto mi rivolgo a chiunque, in carcere, ha l’autorità per dire ai medici di fare il loro lavoro umanamente e di assumersi le loro responsabilità prima che sia tardi, perché il mio problema sta veramente diventando serio. Adesso sto parlando per me stesso, ma ci sono tante persone come me in attesa di risolvere questa questione, e spero, anzi sono sicuro, che qualcuno finalmente potrà capire la mia situazione e mi auguro che in futuro i medici decidano di fare il loro dovere occupandosi fino in fondo della salute dei loro pazienti: nel mio caso, a queste scarpe è appesa la mia salute. Quello che sta facendo la Regione Emilia-Romagna per fermare il decadimento delle carceri, raccontato da Gianluca Borghi, Assessore alle Politiche Sociali
"Assistiamo a un progressivo decadimento di un ambiente, già di per sé naturalmente "difficile", allarmati quanto lo sono gli operatori stessi del penitenziario, e impotenti di fronte alla mancanza di ogni cosa: dai farmaci agli spazzolini da denti"
Intervista a cura di Marino Occhipinti
Assessore Borghi, per approfondire un argomento che ci sta molto a cuore e del quale abbiamo già diffusamente scritto nel precedente numero della nostra rivista, vorremmo che lei ci parlasse della sanità penitenziaria ed in particolare del decreto legislativo 230 del 1999, che ha stabilito il passaggio delle competenze sull’assistenza sanitaria in carcere dall’Amministrazione Penitenziaria alle ASL. In che misura sono state applicate le nuove norme nella "sua" Regione? La Regione Emilia-Romagna, ritenendo questa riforma un passaggio fondamentale per il riconoscimento di parità di diritti e di trattamento a tutela della salute, si è attivata per essere inclusa tra le Regioni chiamate ad effettuare la sperimentazione prevista dal decreto legislativo 230/99, con una richiesta avanzata dallo stesso presidente della Regione, in totale accordo con il Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria dell’Emilia-Romagna. A seguito di tale richiesta si è provveduto a nominare una Commissione paritetica con i dirigenti delle due Amministrazioni, che ha elaborato un documento sulla tutela e la promozione della salute in ambito penitenziario, base d’avvio per il passaggio di competenze dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale. Il documento, licenziato nel luglio 2001, costituisce il protocollo operativo per la definizione a livello territoriale di appositi atti di intesa a carattere programmatico ed operativo, riguardanti le necessità sanitarie proprie del territorio locale, da stipularsi fra Direzioni delle Aziende USL e degli Istituti Penitenziari. Il protocollo contiene ipotesi e proposte relative ai molteplici aspetti della sanità penitenziaria: dalla medicina generale a quella specialistica, dalla gestione delle urgenze all’approvvigionamento e utilizzo dei farmaci, dai problemi delle patologie infettive alla assistenza psichiatrica, ai problemi legati alla presenza di una forte percentuale di stranieri tra le persone detenute. È stata poi riservata un’attenzione particolare al personale sanitario presente in carcere attraverso convenzione con il Ministero della Giustizia e alla sua collocazione futura nel passaggio al Servizio Sanitario Nazionale. Alla richiesta da noi avanzata nel settembre del 2001 alla direzione centrale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.), per poter dare avvio alla fase operativa, non è mai stata data risposta, né sono stati adottati i decreti ministeriali attuativi del decreto legislativo 230/99 più volte richiesti e sollecitati dalle Regioni. Di fatto, quindi, il passaggio alla fase operativa e applicativa del protocollo regionale è impedito. La Commissione interministeriale, a cui partecipano oltre ai dirigenti dei Ministeri della salute e della giustizia, i rappresentanti delle Regioni incluse nella sperimentazione prevista dal decreto 230, è stata insediata solo nei primi mesi del 2002 ed al termine dei suoi lavori, nel giugno del 2002, pur valutando positivamente il lavoro svolto nelle Regioni sperimentatrici, non ha fornito indicazioni nazionali sul proseguo dell’esperienza. Presupposti e volontà politiche di procedere nella riforma della medicina penitenziaria, con il passaggio dell’assistenza sanitaria dal Ministero della Giustizia al Servizio Sanitario Nazionale erano nel frattempo cambiati, e il Ministero della Giustizia tornava ad essere il pieno titolare di questo tipo di interventi, pur in presenza di un decreto legislativo che demandava alle Regioni la competenza, determinando tra operatori e amministratori una confusione sui ruoli che tuttora permane.
Il passaggio delle competenze ha inoltre portato ad una drastica diminuzione dei fondi per la medicina penitenziaria. Come Amministrazione regionale avete cercato di porre rimedio alle carenze, magari con lo stanziamento di finanziamenti ad hoc così da far fronte alle problematiche relative ai farmaci, soprattutto per quanto riguarda i medicinali per patologie oncologiche e anti HIV? La contrazione dei finanziamenti destinati dal Ministero della Giustizia alla spesa per l’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari, anche di questa Regione, ha spinto il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria a richiedere a questa Amministrazione regionale un impegno per rispondere in maniera adeguata al fabbisogno sanitario, in particolare farmaceutico, espresso dagli Istituti penitenziari del territorio. Si assiste infatti all’aumento del numero di soggetti ristretti nelle carceri, alla necessità di farmaci di costo elevato, destinati, ad esempio, a persone sieropositive o con patologie psichiatriche, alla necessità di potenziare la presenza di operatori sanitari. Problematiche che richiedono investimenti: noi assistiamo invece ad una contrazione di risorse. Per cercare di rispondere quantomeno alle esigenze di assistenza farmaceutica e di assistenza specialistica, la Regione e l’Amministrazione Penitenziaria regionale hanno invitato le direzioni generali delle Aziende USL e degli Istituti penitenziari a stilare un accordo-convenzione a carattere temporaneo per la fornitura dei farmaci inclusi nel prontuario terapeutico regionale e per le prestazioni specialistiche da laboratorio erogate dal Servizio Sanitario Nazionale, regolando anche tutti gli aspetti relativi alle risorse economiche necessarie (le Aziende USL assicurano farmaci e prestazioni da laboratorio fatturando poi i costi agli Istituti penitenziari). Nelle indicazioni per la stipula di questo accordo-convenzione temporaneo, abbiamo individuato alcune situazioni che presentano particolari difficoltà sanitarie e farmaceutiche, e per le quali si andrà a verifiche congiunte tra Regione e Provveditorato: gli Istituti penitenziari di Parma in quanto sede di Centro clinico, l’Istituto penitenziario di Bologna per l’alto numero di soggetti ristretti (circa 1/3 del totale della regione), l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (OPG) di Reggio Emilia, gli Istituti di Modena e Reggio Emilia per la presenza di un consistente numero di detenuti sieropositivi o affetti da AIDS. Regione e Provveditorato s’impegnano inoltre ad approntare un sistema regionale di rendicontazione delle forniture farmaceutiche, delle fatturazioni emesse a carico degli Istituti Penitenziari, e il monitoraggio del pagamento delle stesse fatture alle Aziende USL. Questo sistema di cooperazione/verifica/controllo permetterà di governare l’andamento della spesa, di promuovere eventuali interventi di contenimento/aggiustamento della stessa, e permetterà alla Regione Emilia-Romagna la puntuale rendicontazione delle spese sostenute per l’assistenza sanitaria alle persone detenute.
Ne approfittiamo per chiederle ulteriori informazioni sui detenuti tossicodipendenti e su quello che, come Regione, avete elaborato e messo in cantiere… In Emilia-Romagna sono in corso da anni ottimi rapporti di collaborazione tra Amministrazione Penitenziaria regionale e Regione; molteplici sono le attività svolte in comune fra Aziende sanitarie e Istituti penali. Già alla fine del ‘99, in una lettera a firma congiunta Regione-Amministrazione Penitenziaria regionale inviata ai direttori generali delle Aziende Usl e degli Istituti penitenziari, si affermava la necessità di forme di collaborazione e di tavoli di lavoro per gestire assieme l’assetto operativo previsto dal decreto 230. Il 3 marzo 2000 abbiamo sottoscritto un documento che ha fissato "Orientamenti ed indicazioni per la sanità penitenziaria in Emilia-Romagna", con il quale si dava l’avvio concreto al trasferimento al S.S.N. delle competenze sanitarie già attribuite alle Regioni su prevenzione primaria ed assistenza ai detenuti tossicodipendenti. Con questo documento, frutto di un gruppo di lavoro composto da operatori dei due Enti, sono state fornite specifiche indicazioni ai direttori degli Istituti penitenziari e ai direttori generali e sanitari delle Aziende USL della regione in merito all’assistenza ai detenuti con tossicodipendenza, alla prevenzione, e alle modalità di ingresso nelle carceri degli operatori del SSN. Per le persone con tossicodipendenza detenute sono stati fissati i criteri per un nuovo assetto organizzativo ed operativo, e sono state definite competenze e mansioni degli operatori sanitari e sociali dell’Istituto, del Presidio per le Tossicodipendenze e dei Ser.T. Riguardo alla prevenzione sono state definite competenze e funzioni del Dipartimento di sanità pubblica del S.S.N., interventi diretti di profilassi, vaccinazioni, screening e l’esercizio delle funzioni di vigilanza. Riguardo alle modalità di ingresso degli operatori sanitari sono stati definiti i criteri di accesso, l’individuazione dei locali a disposizione e la definizione degli orari.
Quali altre difficoltà avete riscontrato nel versante della sanità penitenziaria e cos’avete fatto per tamponare le falle, penso ad esempio alla carenza di personale infermieristico? La sperimentazione della riforma contenuta nel decreto legislativo 230 nella nostra, come nelle altre Regioni, non ha avuto lo sviluppo operativo previsto, per i ritardi del livello nazionale che ho sottolineato poc’anzi. Noi abbiamo comunque agito con due iniziative, che credo di particolare rilievo, tese a migliorare le funzioni della medicina penitenziaria all’interno degli Istituti. La prima riguarda la carenza di personale infermieristico. Già dall’aprile 2001, grazie ad un verbale d’intesa siglato dalla Regione con le Organizzazioni sindacali CGIL, CISL, UIL, abbiamo regolamentato la possibilità degli infermieri professionali dipendenti dalle Aziende Sanitarie di effettuare prestazioni all’interno degli Istituti penali in regime di lavoro straordinario, con il contributo finanziario del D.A.P. Ad oggi forme di collaborazione sono in essere in nove Istituti penitenziari e coinvolgono oltre 70 infermieri. In particolare nella Casa Circondariale di Ferrara il servizio infermieristico è assicurato da personale dell’Azienda sanitaria che svolge il proprio orario ordinario di lavoro all’interno dell’Istituto di Pena. La seconda iniziativa riguarda un progetto di informatizzazione, finanziato dalla Regione e dal Provveditorato regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, che sta entrando a regime su tutto il territorio regionale, che permette di:
È comunque opportuno precisare che le iniziative promosse – e le altre che abbiamo in fase di elaborazione proprio in queste settimane – costituiscono semplicemente delle risposte sì ineludibili, ma parziali, ai molti problemi connessi alla sanità penitenziaria. Queste forme di collaborazione rivestono tutte carattere transitorio e non è pensabile che possano costituire la risposta locale alla riforma del Sistema Sanitario delle carceri. È necessario quanto prima che gli organi centrali di Governo, in particolare il Ministro della Giustizia e della Salute, come più volte richiesto in questi mesi anche dall’Assemblea dei Presidenti e degli Assessori delle Regioni, e nel rispetto delle procedure previste, provvedano ad adottare le nuove direttive in merito al riordino della medicina penitenziaria, anche in applicazione del dettato Costituzionale. Noi, però, pensiamo che la salute dei detenuti non dipenda solamente dalla quantità dei medicinali e dal numero degli infermieri, ma dalla qualità della vita in generale, ammesso che si possa parlare di "qualità" per la vita in carcere. Certamente, e mi pare giusto parlarne perché, per quanto riguarda in generale la salute in carcere, ritengo che, a partire dal sovraffollamento, nei carceri sarebbe necessario affrontare in maniera più soddisfacente anche tematiche di tipo socio-ambientale-sanitario. L’influenza del sovraffollamento sulla salute psichica e fisica delle persone è nota, non mi pare il caso di citare gli esperimenti sull’aumento dello stress dei topi in gabbia con l’aumento dell’affollamento, né la stretta connessione fra stress e salute. Ritengo sia necessario mantenere alta l’attenzione verso l’alimentazione e il vitto dei detenuti, già oggetto d’intervento del Dipartimento alcuni anni fa, ma di nuovo oggetto di frequenti lamentele, inoltre sarebbe opportuno migliorare la situazione dei prezzi dei generi in sopravvitto considerati troppo alti, e curare alcuni aspetti ambientali. Altri elementi infatti entrano in gioco in quest’ambito, e mi chiedo per esempio perché i detenuti debbano essere vestiti (dalla biancheria alle maglie di lana) a spese del volontariato, mentre i budget dell’Amministrazione Penitenziaria al riguardo appaiono evidentemente insufficienti. Se non ho la maglia d’inverno mi ammalo, e se ho la scabbia, senza biancheria di ricambio, non guarisco. La diffusione delle malattie infettive è un altro tema pericolosamente trascurato, nonostante la consapevolezza della particolare pericolosità del carcere, e gli ostacoli che la prevenzione incontra in ambito penitenziario, diffusamente illustrati dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità). La Regione ha realizzato progetti che, oltre a introdurre elementi informativi ormai del tutto inesistenti sulla diffusione dell’HIV (ma più che mai necessari, alla luce delle indagini fatte!) hanno distribuito oggetti di igiene e profilassi primari quali spazzolini da denti, perché tutto manca in carcere. Sui temi della salute psichica derivante dall’ambiente di vita interveniamo da tempo con progetti di formazione alla relazione per operatori penitenziari, volontari e dall’anno prossimo anche detenuti, progetti i cui risultati sono in parte inficiati dalla scarsa partecipazione del personale penitenziario, che sconta anche in questo senso le carenze numeriche e qualitative. Per quanto riguarda gli aspetti ambientali, la loro importanza per la salute fisica e mentale della popolazione che in carcere vive o lavora viene assolutamente sottovalutata. Alcune cose sono insanabili: le strutture "moderne" fatte di cemento e lunghi corridoi senza dubbio costituiscono un incubo per detenuti ma non contribuiscono certo alla serenità degli operatori; erano state costruite per terroristi e si ritrovano ad ospitare una maggioranza di persone psichicamente fragili. Il verde, praticamente assente per motivi di sicurezza (il che è opinabile, dati gli ospiti), anche laddove c’è, viene sottoutilizzato. I consigli o dettami dei Dipartimenti di Igiene Pubblica inascoltati rendono quasi inutili le visite ispettive. Assistiamo a un progressivo decadimento di un ambiente, già di per sé naturalmente "difficile", allarmati quanto lo sono gli operatori stessi del penitenziario, e impotenti di fronte alla mancanza di ogni cosa: dai farmaci agli spazzolini da denti. A testimonianza delle estreme difficoltà in cui si dibatte l’Amministrazione Penitenziaria si è persino verificato un caso in cui una Regione ha assunto a proprie spese educatori per comandarli nei penitenziari, come esempio paradossale di buona volontà che tenta di agevolare attraverso gli educatori un lavoro di sfoltimento (incremento di misure alternative) supplendo alle carenze dell’Amministrazione, i cui budget tuttavia continuano ad essere tagliati. La Regione Emilia-Romagna stessa e i suoi comuni finanziano da otto anni la formazione e la presenza in carcere di mediatori culturali, che dovrebbero esserci come norma, almeno per le funzioni di traduttori, ma che mancano totalmente.
Gianluca Borghi è assessore alle Politiche Sociali, Immigrazione, Progetto Giovani, Cooperazione Internazionale della Regione Emilia-Romagna.
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