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Parlando di affetti nelle carceri italiane
Questo spazio lo abbiamo voluto dedicare ad articoli che arrivano da altre carceri, da altri giornali, ma che hanno al centro lo stesso tema: gli affetti maltrattati, negati, umiliati dalla detenzione
Quella che segue è la descrizione di un sabato in un carcere femminile: l’attesa per i colloqui, i preparativi, tutte le "operazioni di bellezza" per presentarsi ai propri cari nelle migliori condizioni possibili. Il racconto di Mara è tratto da Zona 508, il giornale realizzato dalle donne detenute nella sezione femminile del carcere di Verziano (Brescia) e pubblicato nel sito dell’associazione "Carcere e territorio di Brescia". "I miei cari mi mancano tanto, e li vedo molto indifesi"
Apro gli occhi e ci metto un po’ a realizzare dove mi trovo: primo piano cella numero due sezione femminile di Verziano. Guardo l’ora, sono le sei (è una mia abitudine svegliarmi a quest’ora) mi alzo e mi faccio il mio primo caffè, io non ne bevo tanto, ma quello di primo mattino me lo gusto. Nella sezione silenzio, sento delle voci è il cambio turno delle agenti, smonta il personale delle notte e comincia quello del mattino, purtroppo è quasi due anni che questo è il mio primo impatto con un nuovo giorno. Ma oggi è sabato e come tutti i sabati è giorno di colloqui per me e per alcune mie compagne. Otto meno un quarto, sento le chiavi che aprono la cella "Buongiorno andiamo a fare l’Insulina?" mi dice l’agente di turno "Buongiorno agente sono pronta andiamo, speriamo che sia una buona giornata" Cigolando arriva il carrello della prima colazione e dopo ci sarà l’apertura delle celle. "Samy mi fai i capelli?". Cioccolatino mi fa sempre impazzire prima di dirmi sì, naturalmente scherziamo anche perché continua a borbottare, ma alla fine mi accontenta sempre. La mattinata continua così tra la doccia, la fonatura dei capelli e l’arrivo della spesa, si arriva così alle 11,30 altra passeggiata in infermeria per la seconda dose di Insulina e di conseguenza l’arrivo del vitto. Oggi si nota qualcosa di diverso nell’aria e in particolare tra le compagne che hanno il colloquio, siamo tutte molto più carine, curate nel vestire e nel trucco. "Mara che ore sono?", mi chiede una compagna "Sono le 12,30 ma non hanno ancora chiamato nessuno per i colloqui". Una voce chiama alcuni nomi "Per le 13 pronte per il colloquio". "Hai sentito se hanno chiamato anche me?" "Sì dai! Sei pronta? Andiamo!" "Fai due ore?" "Penso di sì". Prima di scendere ultimo tocco di femminilità: una goccia di profumo. Una sommaria perquisizione e scendo con le mie compagne verso la sala colloqui, abbiamo tutte premura di arrivare, credetemi è la cosa più bella della carcerazione. Qui a Verziano la sala colloqui è molto accogliente ed una marea di emozioni ti coglie quando varchi quella porta e vedi i tuoi cari ad attenderti, li abbraccio forte e per un attimo non riesco a parlare, mi mancano tanto, e li vedo molto indifesi. Quasi tutte portiamo qualcosa di dolce da mangiare e qualcosa da bere in loro compagnia e cominciano le due ore più belle, oppure anche solo una (io personalmente se posso faccio due ore, dico se posso perché essendo sei ore mensili le devo gestire in modo di non restare senza colloqui). Dimentico tutto, dove mi trovo e il perché, vedo solo i miei cari, ma purtroppo in un attimo passano e dopo dolorosamente devo salutarli e ripercorro il percorso a ritroso. Salgo in sezione ritrovo le mie compagne, ascolto la Messa, perché oggi è il nostro turno (per il maschile è la domenica) poi la vita di sempre riprende. Pazienza, ricomincia l’attesa del prossimo sabato e di un nuovo colloquio.
Mara Una famiglia che "resiste e sopravvive" al carcere
A Tony’s: Amore mio, come mi manchi! Ti domanderai: dopo tre giorni ti scrivo?! Hai ragione! Ma non ce la facevo! Ogni volta che mi giro per casa sento il tuo profumo, in ogni angolo ci sei tu! In bagno, in cucina, in sala, sulle scale e tutto questo mi fa male, perciò non ti ho scritto prima, se no adesso la lettera che stai leggendo sarebbe bagnata dalle mie lacrime! Adesso, per esempio, ho il magone, ma vedrai sono forte, ce la farò! Giuseppe non lascia per un attimo il tuo giaccone, se lo mette addosso e dice che il suo papà lo sta abbracciando, sente il tuo profumo sul collo e mi dice: "Mamma, è papà che ti abbraccia" (…).
Prova superata!!!
Cari lettori, sono ritornato da qualche giorno dopo aver ottenuto un permesso premio, questa lettera (N.d.R.: la lettera ricevuta dalla moglie e dal figlio) mi ha colpito molto, così ho deciso di pubblicarla, per far notare a chi legge quello che provano le nostre famiglie. Sono ancora commosso e felice! Per un paio di giorni sono stato col magone, ma un magone di gioia e pieno d’amore. Il succo della lettera mi affascina molto: nonostante tutti gli anni che sono stato lontano da loro, questa è la conferma che sono riuscito a trasmettere ad entrambi tutto l’amore che provo per loro; anche attraverso quella piccola ora di colloquio abbiamo mantenuto i nostri rapporti intatti, con in mezzo un muro divisorio tremendamente fastidioso per 5 anni! Ecco questo si può definire il vero amore, diciamo che sia la prova più dura da superare per scoprire se due persone provano quell’amore per cui mai nessun ostacolo può farle dividere, e questa prova è superata! Però nello stesso tempo ho il cuore in pena per loro, non hanno commesso nessun peccato e devono pagare le mie pene con me, soffrendo quanto me; ricordo qualche anno fa che mia moglie era più forte di carattere, anzi ha saputo sostenermi nei momenti difficili, ma anche lei ora sta cedendo, credo che abbia retto fin troppo per una ragazza che non sapeva neppure che esistesse questo tipo di sofferenza! Ho la sensazione che loro stanno soffrendo più di me, tanto da indossare il mio giaccone e immaginare che sono io che li sto abbracciando: deve essere il massimo della sofferenza! Sono disperato per i pianti che sta facendo mio figlio: da quando sono rientrato, ieri li ho visti, sono venuti a colloquio, ho cercato di sdrammatizzare nel migliore dei modi, parlandone con lui, ma senza esito! Lui non approva il fatto che tutti i papà dei suoi amici di scuola sono nelle proprie case con i loro rispettivi figli ed io no! Pensate, il primo giorno che sono uscito in permesso, abbiamo fatto una festicciola, già organizzata da mia moglie, facendo invitare alcuni dei suoi amici con i loro genitori, e mentre giocava con loro, ha detto: avete visto che ho anch’io un papà vero? Questo significa che avevano fatto pensare al mio piccolo che era senza papà, e questo mi fa penare molto! Comunque sono soddisfatto che abbia potuto dimostrare agli amici che io esisto e rimarrò. per sempre, il suo migliore amico.
Tony’s, Casa Circondariale di Modena Nella sezione di Alta Sicurezza della Casa Circondariale di Vicenza i detenuti realizzano un notiziario scolastico, I cancelli, in collaborazione con gli insegnanti del Centro Territoriale Permanente.
Quello che segue è l’articolo di un detenuto, che parla del ritorno in famiglia a fine pena, il momento che sembrerebbe per definizione il più felice, e che invece nasconde un sacco di incognite, di disagi, di paura di quell’ignoto che ti aspetta dopo la frattura provocata dal carcere nel tessuto familiare. Il fatto è che il carcere uno se lo porta dietro sempre, anche quando ne esce, perché, come dice l’autore di questa testimonianza, è un’esperienza che ti lascia addosso una "impronta di dolore sociale" che non puoi dimenticare.
Dopo carcere: quanto è difficile il ritorno in famiglia
Libertà: quando si riacquista la gioia è totale. È l’incontro con la famiglia, l’allegria di essere vivo. Le reazioni iniziali sono le tipiche da stress acuto: alcuni parlano, altri piangono, altri ridono, alcuni ritornano con un senso di spiritualità rinforzato, con l’idea che hanno rivalutato la loro vita e diventeranno migliori. Passano i giorni e le cose cambiano, alcuni lasciano indietro la spiritualità iniziale. Quando diminuiscono i saluti, i festeggiamenti, arriva un duro periodo: quello di ritornare alla vita di tutti i giorni, affrontare debiti, le problematiche anche psicologiche lasciate dalla carcerazione. Durante il tempo passato in carcere si modificano le dinamiche all’interno della famiglia, la parte dell’assente è assunta da un’altra persona e rientrare, tornare ad occupare il proprio posto, non è impresa facile. In alcuni casi questi non incontri sono così traumatici da portare alla separazione. Poi ci sono le aspettative familiari. Si idealizza il padre assente che da lontano è visto come il migliore, il più amoroso. Quando ritorna non è più così e si produce uno scontro. Alcune spose si riempiono d’illusioni, pensano che il marito abbia smesso di bere, sia più innamorato. Questo tempo è pure l’epoca delle discussioni e delle delusioni nello scoprire che il comportamento di parenti e amici non è stato uguale a quello che ci si aspettava. È necessario elaborare una serie di duelli interiori, psicologici, ed esiste una sensazione molto grande di tempo perso. Le conseguenze psicologiche dipendono dai percorsi di ogni persona, dalla sua personalità, dai meccanismi di difesa, dalla capacità di aggiustarci a ogni differente situazione. Quelli che riescono ad impegnare il tempo eterno della detenzione occupandosi di una attività come la cucina, i corsi scolastici o artigianali, escono meglio liberati di quelli che si isolano e contano i secondi con l’aspettativa dell’esco domani. La detenzione lascia un’impronta di dolore sociale. I sintomi dello stress iniziale si prolungano per molti mesi, lasciando un’impronta di depressione molto grande e la presenza fortissima di fobie, ad esempio si teme di salire in spazi aperti o fra la moltitudine. Ci si sente insicuri, ci si riempie di domande in cui persiste la sfiducia, non ci si fida più di nessuno, neppure dei vicini di casa o dei compagni di lavoro. La mancanza di fiducia rompe il tessuto sociale e questa è la conseguenza più grave della detenzione.
M.L. - Casa Circondariale di Vicenza Credo che curare gli affetti sia anche… voler bene a se stessi, perdonarsi, pazientare
La testimonianza di Christine arriva dalla casa Circondariale di Rovereto, da un giornale che si chiama Dentro e che esce come inserto di Oltre il muro, la rivista dell’Associazione Provinciale Aiuto Sociale che si occupa di reinserimento e alternative al carcere a Trento. Christine parla di affettività con coraggio: di sesso, di omosessualità, ma anche delle lettere, che per una detenuta, nell’assenza di tutto, spesso sono la vera valvola di sfogo, e poi della necessità di imparare a volersi bene, a riconciliarsi con se stesse per poter vivere meglio anche con gli altri.
Donna… essere donna non è facile, mai! Ancor più quando si è donne detenute. Sono però consapevole che, nonostante tutto, l’altra metà del cielo ci appartiene, a tutte noi donne. Nostro è il suo azzurro sereno, nostra la luce, i colori, ma anche le nubi, la pioggia, il vento, la tempesta perché nostri sono i sentimenti, le emozioni, come nostre sono la sofferenza, il sacrificio, le rinunce... l’amore. Per me, donna e reclusa, l’affettività è tutto questo: un turbine di intense emozioni che può innalzarmi fino al cielo della felicità o sprofondarmi nell’inferno della disperazione. Bisogna ammettere che pur da detenuta mi è possibile non soffocare la mia affettività, avendo la possibilità di periodici colloqui e telefonate che permettono un confronto immediato con i miei sentimenti. La vera valvola di sfogo però sono le lettere: la cosa più bella in assoluto! Infatti non hanno orari, non impedimenti, nessuno può interromperle. A loro puoi affidare tutto, desideri, emozioni, paure, lacrime. Tramite la carta puoi confessare, scoprire, farti scoprire, giocare, litigare, far pace; far compagnia, voler bene, conquistare, amare, soffrire. In una lettera ti puoi raccontare, inventare, fantasticare, immaginare, viaggiare, volare… evadere! Tornar qui e sorridere. Tutto si può in questi fogli di piccola grande libertà. Puoi anche stuzzicare, provocare e ritirarti, buttarti e ripensarci, sedurre, farti sedurre, far l’amore... far sesso... Ah, il sesso! Ecco il punto dolente per noi recluse, credo sia una parte integrante dell’affettività, uno stimolo umano, un desiderio legittimo, ma proprio nel momento in cui, forse, avremmo più bisogno di essere rassicurate anche in questo, ci viene negato. Palliativi ne esistono, eccome, ma palliativi appunto come l’autoerotismo o l’omosessualità. Sull’autoerotismo non voglio soffermarmi, appartiene alla sfera più intima di ciascuna di noi. Dell’omosessualità ne posso accennare per averla osservata, vissuta in terza persona. Ho conosciuto compagne che hanno avuto di queste esperienze, magari solo per bisogno d’amore, di attenzioni, per sentirsi importanti, per poterne parlare, per "provarci", per essere alla moda o per passate delusioni. Anche questa è una piccola libertà, ognuna se consapevole è libera di scegliere come meglio vuol "farsi" la carcerazione, purché il tutto sia nel rispetto delle altre compagne. Quello che non sopporto è la prevaricazione, il volerci provare a forza, questo no, non lo sopporto! E pensare che le donne gay (vere) spesso sono goffe, timide, prevedibili, mi farebbero tenerezza e sorridere se non fosse che in carcere è meglio non attirare mai la loro attenzione perché potrebbero diventare ossessive, appiccicose, morbose, gelose, a volte violente. Roba da rinchiudersi in cella per sfuggire alle loro avance o ancor meglio farsi trasferire di carcere. Invece dovrebbe vigere il rispetto perché il fatto di essere detenute non comporta a priori la rinuncia dei propri valori, della propria dignità, del proprio "vivere", non è per intolleranza o pregiudizio che dico questo, ma per la libera scelta che ognuna deve poter fare. Credo però che l’affettività sia anche… voler bene a se stessi, perdonarsi, pazientare, smettere con il vittimismo, con le lamentele, con la diffidenza ed il sospetto. Accettare finalmente la pena quale logica conseguenza dei nostri sbagli; sono sicura che questo ci aiuterebbe a vivere meglio qui dentro ed a ricostruire il nostro futuro. Personalmente so che pur conoscendo difficoltà, disagi, sofferenze, sacrifici, piccole e grandi rinunce, starò male solo se e quando mi accorgerò di non aver più niente da dare… ma forse anche allora avrò pur sempre un sorriso, una carezza, un ciao per tutti voi.
Christine Sesso e carcere. La voce degli internati in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario
Quelle che seguono sono invece testimonianze particolari, arrivano da un Ospedale Psichiatrico Giudiziario. Sono tratte da La storia di Nabuc, il giornale dell’O.P.G. di Aversa, ed esprimono, oltre alla sofferenza che accomuna tutte le persone incarcerate, qualcosa in più, che accompagna spesso chi è ricoverato in questi istituti: la pesante sensazione che fuori nessuno abbia voglia di farsi carico di questo tipo di malati.
Per me il sesso in carcere sarebbe una cosa giusta perché di seghe manuali si può anche morire. Ma si può dormire anche bene e risvegliarsi non è molto bello perché nessuno mi vuole.
E.Z.
Il sesso in carcere non è brutto, è l’unico sfogo che ci fa stare tranquilli. Il sesso non si può fermare quindi il sesso in carcere c’è e c’è sempre stato quindi un detenuto lavora di mano e con un altro si possono fare altre cose insieme e così questo continuerà…
M.G.
Per me il sesso nelle carceri è molto importante, sia per il rinchiuso che per la moglie anche perché si evita tanta depravazione e si sta anche meno nervosi. E poi siamo logici il sesso è la cosa più bella del mondo. Nel mio caso non ho né moglie né fidanzata spero che mi sia permesso, tramite domandina, di far entrare qualche donna di piacere… magari in una struttura adatta così non si vergogna.
V.D.B.
Troppo astratto. Non c’è collaborazione. Siamo anime perse, siamo così piccoli. Ci hanno dimenticato tutti. Questo argomento tocca il cuore e l’anima. Il sesso in carcere è chiuso. Si faccia silenzio.
F.V.
Non sono in grado di affrontare un argomento così delicato. Seguendo un certo ordine cercherei di dare un abbozzo di soluzione. La coscienza è giudice, o deve diventarlo il più possibile. L’obiettività di un internato è spesso spostata ad un grado estremo. La rieducazione del reo dovrebbe far leva su questi elementi e, perché no, con apporto di sano divertimento.
A.D.
In Spagna e in Svezia sono anni che fanno l’amore in carcere. Fra 4 - 5 anni questo accadrà anche in Italia. Quando sono uscito in permesso per la prima volta ho avuto un rapporto con una prostituta. Ma era inutile perché non c’era amore.
P.G.
Sesso significa amore. Stiamo male ma prima o poi passerà. Il sesso è molto bello ma l’amore è ancora più bello. Se stiamo bene o male comunque dobbiamo amare. Ma se qualcuno sta male è difficile che si innamori.
N.P.
Sono personalmente favorevole che chi ne abbia bisogno possa avere dei rapporti con propria moglie o fidanzata. Questo non vuol dire credo sporcare l’istituzione del carcere perché si potrebbe, nel dovuto modo, non trasformare il carcere in un bordello. Si tratta solo di farlo nel modo giusto, come già avviene in altri paesi d’Europa. Non si può costringere chi voglia avere rapporti a non averne.
A.M.R.
Sesso in carcere significa libertà. Non vi sono donne ma uno può immaginarsele e riesce comunque a fare quello che gli altri fanno fuori. Tutto con l’immaginazione.
S.G.B.
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