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23 anni vissuti seguendo un ergastolano di carcere in carcere
Stefania
Chiusoli racconta la sua storia di un amore
Stefania Chiusoli ha conosciuto l’uomo, che poi ha seguito per 23 anni nelle carceri di mezza Italia, dietro le sbarre della cella degli imputati di un tribunale. Lei, la moglie dell’avvocato, lui, l’imputato. È il 1975, è amore subito, lei lascia il marito, ma ha una vita già in partenza complicata, con tre figli da seguire, un lavoro. Eppure inizia un viaggio incredibile nei parlatori dei penitenziari dal nord al sud alle isole, costantemente in lotta contro chi, fuori, la crede pazza e incosciente.. "Ci fu la mia famiglia da affrontare", ricorda Stefania. "Ci furono la solitudine, e poi i dubbi, gli incubi... ma anche i pochi amici, quelli veri, il sostegno incondizionato dei figli. Ci fu tanto, incosciente ottimismo". A dispetto di chi nella sua storia non avrebbe scommesso un centesimo, quella storia dura ancora oggi, che il compagno di Stefania è finalmente fuori, e lei l’ha scritta nel libro Quasi tutto ancora da vivere: "Fu come vivere per due, avere sensi potenziati, sensazioni moltiplicate. Quelle lettere, quel confronto, mi insegnarono il valore del tempo, dello spazio, delle piccole cose".
Quello che Stefania Chiusoli ha detto alla Giornata di Studi sugli affetti
Io sono una che senz’altro ha frequentato tanto le galere in questi anni, perché ho seguito una persona che stava in carcere per 23 anni, e ho poi raccontato questa mia storia in un libro che si chiama Quasi tutto ancora da vivere. Allora, quando è iniziata questa vicenda, non c’erano ancora le normative della legge Gozzini, che è venuta più tardi in soccorso per aiutare a far durare un affetto, per dare un poco di speranza. Io ho incontrato questa persona, questa persona l’ho conosciuta in tribunale, quando fu condannata all’ergastolo, quindi si apriva uno scenario cupissimo e lungo, senza speranza, perché, ripeto, ancora non c’era questa stupenda legge Gozzini che ha permesso di sperare in qualche cosa, ha dato un orizzonte, ha dato qualche cosa da attendere, perché voi sapete che laddove c’è scritto "Fine della pena mai" lo scenario si fa terribilmente buio e sembra di non avere nulla da perdere, quindi nulla in cui sperare. Questa legge ha profilato un orizzonte che mi ha dato la forza di resistere, di attendere questa persona che era stata condannata all’ergastolo, questo giovane che allora aveva 26 anni e che adesso ne ha 53. È stato un percorso molto lungo, in tutte le carceri italiane, con tutta l’angoscia che lo accompagnava, adesso siamo alla fine, anche se la libertà condizionale ha, appunto, delle condizioni, ma ricordo ancora bene quando lui uscì dal carcere e in questi permessi incominciava ad assaporare, a sentire la vita, e c’erano poi tutti questi stridori terribili del ritorno, del rientro nel carcere. Comunque questa legge è stata bellissima, perché ha dato modo alle persone di credere in se stesse, di responsabilizzarsi, di fare passi di nuovo nella vita con grande forza, e quindi è stata un graduale passaggio verso la libertà. La libertà poi ha comportato, nella convivenza con me (perché questo il libro che ho scritto racconta), questo incontro tra due persone che in fondo non avevano mai potuto conoscersi nella quotidianità, nelle piccole cose di ogni giorno, che poi hanno messo alla prova questo nostro sentimento, perché anch’io forse ero impreparata, la galera l’aveva fatta lui, il carcere lo aveva fatto lui, io avevo solo fatto un percorso difficile ma parallelo. L’incontrarsi ha significato tutte queste cose, ma questi anni da un carcere all’altro, per quanto riguarda l’affetto, sono stati una disperazione, una disperazione così grande da non poterla dire, se uno l’ha provata. Io ora credo che noi dobbiamo assolutamente lavorare affinché gli abitanti delle carceri non escano peggiorati, ma migliorati, perché alla fine saranno tra noi, saremo tutti insieme. E non c’è nulla, se non un abbraccio, che può sedare le angosce e dare la forza per continuare ad andare avanti. E ve lo dice una che dal ‘75 al ‘98 non ha avuto l’abbraccio dall’uomo che amava, ma anzi per sei anni lo ha incontrato nelle carceri speciali con i vetri divisori al colloquio che impedivano una carezza, che rendevano impossibile sentire gli odori, portare a casa qualcosa di lui.. È stato un periodo disperante, punitivo, non c’era assolutamente orizzonte. Io ho seguito e amato questo ragazzo condannato all’ergastolo e adesso viviamo insieme. Ma la gran parte della vita è fuggita così, come l’ho raccontata, da un carcere all’altro. "Vorrei parlare di mio figlio"
Per
un famigliare di un detenuto, è difficile anche solo trovare qualcuno
Il 10 maggio, alla Giornata di Studi dedicata agli affetti in carcere, tutti i partecipanti avevano un’etichetta adesiva sulla quale era stampato il proprio nome e cognome. Su quella di noi detenuti c’era stampato anche il logo del gruppo lavorativo di appartenenza. Una signora, visibilmente spaesata, con un po’ d’imbarazzo, mi ha chiesto se ero un "giornalista". "No, signora. Sono un detenuto… Però, faccio parte del gruppo della redazione di Ristretti Orizzonti. Posso aiutarla in qualche modo?". "Non lo so… spero di sì. Mi chiamo Daniela…, sono la mamma di un detenuto che si trova nel carcere giudiziario. Sono così emozionata oggi! È la prima volta che mi capita di venire a una manifestazione del genere. Non mi sembra vero che sia stata organizzata proprio all’interno di un carcere. Ma è vero che c’è anche per noi parenti la possibilità di intervenire? Vorrei dire qualcosa anch’io; mi piacerebbe, ma non so se riuscirei a parlare davanti a tanta gente. Posso parlare con lei, che è della redazione, di quello che mi piacerebbe dire? Se le fa piacere posso raccogliere la sua testimonianza. Prendo degli appunti, poi, magari, la metto in contatto con la nostra coordinatrice di redazione. Vorrei parlare di mio figlio. Era in affidamento in prova ai servizi sociali, poi lo hanno riportato in carcere per una vicenda in cui non c’entrava niente, e infatti poi è stato assolto. Nel frattempo sono già passati sette mesi, e non è ancora stato riammesso al beneficio di cui già fruiva. Perché, vorrei chiedere, se si era sempre comportato bene, me l’hanno portato via di nuovo? Ora gli restano ancora due anni da scontare; dovrò aspettare che finisca tutta la pena prima di rivederlo a casa? Mio figlio ha 27 anni. La sua è stata una sbandata giovanile; ormai se l’era messa alle spalle, e noi famigliari lo stavamo aiutando a rimettersi sulla buona strada. Eravamo sicuri che non avrebbe mai più messo piede in un carcere, e invece… Ma perché, quando uno sbaglia una volta, le conseguenze deve trascinarsele sempre dietro? Ora è dentro, è senza lavoro perché lì non ce n’è per tutti. In una cella per quattro sono stipate nove persone; ma la gente capisce quanti disagi ci sono in condizioni del genere? Quest’inverno il riscaldamento veniva acceso solo per poche ore al giorno, e l’acqua per lavarsi era sempre gelata. Ora la temperatura sta cambiando, si avvicina l’estate; ma quelli che stanno "in alto", si rendono conto che per nove persone, in uno spazio così ristretto, è impossibile convivere? Un’altra cosa che vorrei dire, è a proposito dei colloqui: noi famigliari, quando ci rechiamo in visita ai nostri cari, una volta varcati i cancelli dell’ingresso, siamo spesso trattati senza un minimo di rispetto. Finché non rimettiamo di nuovo piede fuori, fanno sentire anche noi come dei reclusi. Io mi chiedo sempre: "Se spesso trattano noi con tanta sufficienza, e con così poco rispetto, chissà come saranno trattati tutti quelli che lì dentro ci vivono". Un’ultima cosa: ho saputo che in molte carceri, anche in questo, sono già stati tolti i muretti divisori dai parlatori… Nel giudiziario ci sono ancora, e noi famigliari ci ritroviamo ad effettuare i colloqui affiancati uno all’altro, numerosi, senza riuscire a scambiarci un solo gesto d’affetto. A volte, poiché le voci si accavallano, si fa fatica a capire quello che ci diciamo; ognuno grida un po’ più forte per farsi sentire, e alla fine si crea una confusione totale. Secondo me è una vergogna il fatto che quello che si fa in un carcere, non si fa in altri: ma i detenuti non sono tutti uguali? Sono veramente contenta che oggi si parli di queste cose. Chi ha organizzato quest’incontro, dev’essere una persona che ha veramente a cuore questo tipo di problemi… Non mi sembra vero!
Quella signora mi ha parlato di suo figlio detenuto con la foga di chi ha paura di dimenticare qualche dettaglio importante e teme che non avrà tante altre occasioni di raccontare la sua ansia e il suo disagio. Poi, nel pomeriggio, quando ormai la giornata di studi si avviava alla conclusione, la signora Daniela ha vinto le titubanze ed è riuscita a parlare al microfono. La sua voce era rotta dall’emozione, ma è riuscita a dare il suo piccolo, e non meno importante, contributo alla giornata di studi, che aveva come tema centrale proprio i rapporti fra i detenuti e i propri cari. E lei, quella signora così spaesata in mezzo a tante persone esperte di tematiche sociali, ha focalizzato il suo intervento su qualcosa di apparentemente semplice, ma non trascurabile: la difficoltà di comunicazione, anche solo verbale, nel corso dei colloqui settimanali con il figlio che si trova detenuto nel giudiziario, a poco più di duecento metri dal Due Palazzi Penale. Prima che lasciasse il carcere, ha voluto salutarmi, e al momento di congedarsi mi ha detto: "Peccato, non aver trovato il coraggio di parlare quando la sala era ancora piena. Per l’emozione non sono riuscita a dire tutte le cose che volevo… Ma meno male che ci siete voi, che con il vostro giornale riuscirete a dare voce a tutte le ansie e ai tanti problemi di noi famigliari. Mio figlio sarà contento quando gli racconterò di questa giornata. Lui ci teneva tanto che venissi. Grazie ragazzi, grazie a tutti". L’ho vista andar via sorridente, soddisfatta, forse, di aver potuto dire finalmente la sua opinione davanti a una platea che l’ascoltava con la giusta attenzione. Del suo malcontento, prima le era capitato di parlarne solo sommessamente, mentre era in attesa di essere chiamata per il colloquio, con qualcuna delle tante vicine di sedia, magari con i suoi stessi problemi, con la stessa ansia e con la stessa difficoltà di comunicare tutta quella angoscia.
di Eugenio Romano Quando l’ipotesi di essere scarcerati può "spaventare"
Facendo
i conti e considerando di aver fatto tutti i colloqui (cosa impossibile)
Con R. ho condiviso quattro anni di carcere, due dei quali nella stessa cella. 24 mesi durante i quali, se c’è feeling, la conoscenza si trasforma in sincera amicizia; si condivide l’angoscia, quando le cose vanno male, e la felicità quando le notizie sono buone. L’amicizia porta a confidarsi ed inevitabilmente i sentimenti confluiscono all’interno di una specie di unico, grande contenitore, anche se quelli più profondi rimangono nell’intimo e nel cuore di ognuno. Di R. "conosco" la famiglia, la voglia di uscire al più presto dal carcere, così da essere di aiuto alla moglie ed ai figli dopo i parecchi anni di assenza forzata. Il trasferimento ha separato le nostre strade due anni fa, ma con R. non si è mai interrotta la corrispondenza epistolare. L’argomento principale delle nostre lettere sono sempre i figli e le mogli, le "solite" problematiche legate alla scuola dei bimbi, il calcio che magari viene preferito allo studio e così via. Questo fino a un mese fa, quando R. mi scrive "preoccupato" per qualcosa che proprio non aveva previsto: il "rischio" di essere scarcerato! R., in carcere dal giugno 1993, si era "illuso" che la Suprema Corte di Cassazione rendesse finalmente definitiva la sua sentenza, così da poter chiedere la liberazione anticipata e l’ammissione ad una pena alternativa. Ma queste erano previsioni che, nella migliore delle ipotesi, comportavano l’attesa di parecchi mesi, ossia i tempi di fissazione della relativa Camera di Consiglio. In realtà R. aveva fatto i conti senza l’oste o, meglio, non aveva affatto preventivato che la Suprema Corte potesse dargli ragione. "E adesso che il procedimento è stato annullato, che il processo dovrà essere rifatto, non è che tra due mesi mi buttano fuori? D’altronde sai, scadono i 9 (nove) anni di custodia cautelare, e non potranno più tenermi…! Proprio oggi parlavo con mia moglie ed ho espresso il mio timore nel tornare a casa, non timore nel senso proprio della parola, ma nel senso che dopo 9 anni "un estraneo? irrompe nella loro vita. Mi spiego meglio: facendo i conti e considerando di aver fatto tutti i colloqui (cosa impossibile), in 9 anni li ho visti 27 giorni. Questo vuol dire che i ragazzi sono cresciuti con la madre, si sono fatti una loro vita, si sono guadagnati una certa libertà ed autonomia, anche se dosata, e con molta parsimonia, da mia moglie. Sono felicissimi che io ritorni a casa, ma sono consapevole che sarà un trauma per tutti e quattro. I rapporti con i figli sono difficili quando si cresce tutti assieme, figurati dopo una lontananza di 9 anni; dovremo riabituarci alle rispettive abitudini, a convivere tutti assieme nel più breve tempo possibile, dovrò essere io a rientrare pian piano nel loro modo di vivere… Non posso nascondermi dietro a un dito, questa è una delle prove più difficili della mia vita: riconquistare la famiglia, negli affetti e nella fiducia, nell’amore e nella quotidianità". Potrà anche sembrare una reazione strana, quella del timore di rientrare in famiglia, ma tant’è. È di questi giorni l’ultima lettera di R. È stato scarcerato venti giorni prima della scadenza dei termini massimi, ma gli anni trascorsi in carcere rimangono, troppi, senza una sentenza definitiva che accertasse la sua eventuale colpevolezza. Non è di questo che però volevo parlare, ma solo di affetti, per far capire quanto il momento più atteso possa, a volte, addirittura spaventare. "A casa tutto bene, pensavo peggio, non ho quasi sentito il trauma dell’inserimento in famiglia, anche se mi sento un po’ strano benché mia moglie e i miei figli non mi facciano pesare questa situazione. Si comportano come se io non fossi mai mancato. La gioia di essere a casa dopo 8 anni, 11 mesi e dieci giorni? Non lo so, non riesco a descrivertela, sono cose che vanno provate…".
di Marino Occhipinti Come spiegare ai propri figli di essere detenuto
Oggi
trovo assurdo aver nascosto ai miei figli
ciò
che avrei dovuto
Sono un padre detenuto che a suo tempo avrebbe dovuto spiegare ai propri figli, nel modo più corretto possibile, del luogo in cui mi trovavo, cioè il carcere. Il mio arresto è avvenuto mentre attendevo mia figlia all’uscita della scuola e solo per pochi minuti la bambina non ha assistito alla drammatica scena. Mentre venivo condotto in carcere, i miei occhi non erano collegati con le reali immagini del percorso, vedevo solo i visi di mia moglie e dei miei figli riflessi nel vetro del finestrino. Quei visi mi seguivano assumendo forme distorte e sofferenti, era la mia coscienza che le proiettava, e nel medesimo istante il carabiniere seduto accanto a me mi chiedeva "Darra, cosa dirai ai tuoi figli?". Nel frattempo sono arrivato in carcere e, una volta in cella, ho ripreso subito i miei angosciosi pensieri: lo squallore del luogo in cui mi trovavo allontanava il desiderio di raccontare ai miei figli che ero in prigione. Così ho deciso fermamente di non parlarne, intanto i giorni passavano e i miei pensieri mutavano continuamente. Questa altalena è finita quando ho avuto il primo colloquio con mia moglie, dopo un forte abbraccio le ho sussurrato: "Come stanno i ragazzi?", e lei mi ha risposto: "Chiedono insistentemente di te e di dove ti trovi". Le ho detto che, per il momento, non era mia intenzione svelargli che ero in carcere e poi però le ho chiesto se condivideva la mia scelta. Ricordo che mi ha risposto in modo più prudente, nel senso che avrebbe preferito interpellare delle persone qualificate, per esempio uno psicologo, per chiedere un consiglio. Ho capito allora che non era insensato rivolgersi ad un esperto, e così abbiamo deciso, di comune accordo con Loredana, di prendere tempo, anche perché ero in attesa di sapere dal mio avvocato se ci sarebbero stati sviluppi positivi riguardo alla mia situazione giuridica. Quando è venuto l’avvocato, dopo avermi spiegato chiaramente la mia posizione, mi ha detto che per il momento avevo fatto bene a non far venire a colloquio i figli, perché esistevano concrete possibilità di un mio ritorno a casa. Infatti, anche con l’aiuto della buona sorte, dopo un breve periodo di detenzione ho potuto tornare a casa, agli arresti domiciliari. La felicità di riabbracciare i miei figli e mia moglie ha cancellato immediatamente il ricordo della brutta esperienza appena vissuta. Ma non ero completamente felice, perché continuavo a nascondere la verità ai miei figli e cercavo di dare una giustificazione a questo mio comportamento appellandomi al "buon senso". Ovviamente le domande non tardavano ad arrivare, e una di queste la ricordo in modo particolare: "Papà, perché non esci mai da casa?". La mia risposta fu insensata, ho risposto loro che non potevo uscire perché ero malato e la mia guarigione dipendeva dal fatto di non prendere colpi d’aria… i miei figli, allora, controllavano continuamente che le finestre di casa fossero chiuse in modo accurato! Nel vedere tanta premura, tanta tenerezza da parte dei nostri ragazzi, mia moglie si è commossa ed io mi sono sentito sprofondare. Mi ero comportato in modo meschino per cercare di nascondere la verità, il fatto di essere detenuto, quella verità che non dovevo tacere se volevo davvero completare la felicità del mio ritorno. Oggi trovo assurdo l’aver nascosto ai miei figli ciò che avrei dovuto rivelare, ma è anche vero che quella rivelazione andava "assistita", prima e dopo l’uscita dal carcere, perché il carcere è una realtà sociale che i ragazzi devono conoscere e un padre detenuto deve trovare la forza di raccontargliela. Cinque anni dopo sono tornato in carcere, sempre per quegli stessi reati, per i quali è arrivata la condanna definitiva, e questa volta non ho tardato molto a farlo sapere ai miei figli, però l’unico luogo dove avrei potuto discutere con loro dell’accaduto era la sala – colloqui, e quel luogo non è il più adatto per scambiarsi dell’affetto, premessa indispensabile per affrontare un discorso così delicato con dei figli adolescenti. Il motivo che mi ha spinto a raccontare questa mia esperienza è la voglia di far comprendere quanto sia importante creare nel carcere luoghi adatti, strutture appositamente allestite per accogliere i famigliari, dove i famigliari possono entrare come degli "ospiti" e non come dei "semidetenuti". Un luogo dove poter cucinare un pasto, da consumare poi assieme a loro, dove scambiarti un bacio, una carezza, un abbraccio senza barriere, senza essere sotto lo sguardo dell’agente. Solo così un detenuto può trasmettere e ricevere quell’affetto necessario per mantenere vivi i valori veri della vita, solo così può spiegare ai figli che cosa gli è successo, cercare di star loro vicino, assumersi quelle responsabilità, che a volte nella "vita libera" non era stato capace di affrontare.
di Claudio Darra Qui di seguito pubblichiamo la lettera che ci ha inviato la moglie di Claudio dopo la Giornata di Studi. Lo facciamo per far capire quanto poco basta, e basterebbe, per rendere meno pesante la condizione dei familiari dei detenuti: qualche occasione in più di incontro, qualche momento di vicinanza un po’ più stretta
Gentile Redazione, vi ringrazio con tutto il mio cuore per avermi invitata ad assistere ad una cosa così grande, quale è stato il convegno sull’affettività, e per avermi dato la possibilità di trascorrere delle ore preziose con mio marito Claudio. È stato un giorno importante per tutti noi, ma per me è nata una speranza di riavere accanto a me Claudio, che amo da più di ventotto anni e con cui spero e credo di avere un nostro futuro insieme alla nostra famiglia.
Loredana
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