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AltraCittà: una vetrina colorata tra crisi e sovraffollamento
a cura della Redazione
La Cooperativa AltraCittà ha inaugurato il nuovo negozio in Via Montà 182 a Padova: il carcere da notizia di sé con una vetrina colorata, in un momento drammatico, con istituti superaffollati, operatori penitenziari sottodimensionati rispetto alle necessità, clima esacerbato sulla “certezza della pena” (certezza della galera). In questo momento aprire nel territorio vicino alle due carceri della città una vetrina di ‘cose belle e di qualità’ prodotte dai detenuti, ostinarsi a dare notizia del fatto che il carcere può nascondere laboriosità, lavoro, creatività, significa tenere accesa tenacemente la fiammella, calore e luce, della speranza e della ragionevolezza. Il valore simbolico dell’evento è stato sottolineato dal fatto che il taglio del nastro è stato affidato ai due direttori degli istituti penitenziari di Padova, la dottoressa Antonella Reale (Casa circondariale) e il dottor Salvatore Pirruccio (Casa di reclusione), la prima alle prese ogni giorno con quasi il triplo delle presenze previste dalla capienza (240-270 contro 98), il secondo alle prese con il dramma, per la prima volta in questa Reclusione, della terza branda in celle da uno. AltraCittà è infatti una cooperativa che lavora in carcere e per il carcere. Nasce nel novembre 2003, su iniziativa di dieci donne attive nel settore della formazione degli adulti. Lo scopo della cooperativa è l’offerta di formazione e sbocco professionale a persone, che provengono da situazioni di disagio sociale. Il negozio aperto in Via Montà è la vetrina di questo impegno sociale. I prodotti esposti sono realizzati da persone detenute, dipendenti della cooperativa, che lavorano nel laboratorio di legatoria all’interno della casa di reclusione di Padova; un ex detenuto lavora nel nuovo negozio. Al cliente AltraCittà offre anche oggetti personalizzati e con immagini esclusive di opere di Nelu Pascu e Sabrina Galiazzo, si accolgono lavori di restauro del libro, si offrono servizi di documentazione (rassegna stampa), di catalogazione e di archivio, si eseguono lavori di grafica, si fanno convenzioni con Comuni del territorio per servizi di manutenzione e biblioteca…
Intervista a Nello Cesari, provveditore Dap per l’Emilia Romagna Dal carcere un progetto per la riduzione dei consumi e l’uso di fonti rinnovabili In Emilia Romagna, con la collaborazione di diversi enti regionali, è attivo il progetto “Raee in carcere”. Un’iniziativa a tutela dell’ambiente che vuole offrire una opportunità di lavoro e di reinserimento per i detenuti
intervista di Vanni Lonardi
Il carcere che lavora alla riduzione dei consumi e all’uso di fonti rinnovabili, fornendo anche risposte ai bisogni dei consumatori: succede in Emilia Romagna, con un progetto davvero innovativo, di cui abbiamo parlato con il Provveditore Regionale, Nello Cesari.
Come è nato questo progetto e chi ha coinvolto? Il progetto “Raee in carcere” nasce dall’iniziativa comunitaria “Equal Pegaso, processi plurali di rete per l’inclusione dei detenuti” (approvata con delibera comunitaria del maggio 2005 dalla Giunta della Regione Emilia Romagna) promossa da una partnership di 9 enti: Techne, Enaip Ferrara, Cefal Bologna, Provincia Forlì Cesena, Comune di Bologna, Comune di Ferrara, Università di Bologna, associazione Nuovamente, Enaip Emilia Romagna. L’iniziativa aveva l’obiettivo di operare per la crescita della “condizione di cittadinanza” dei detenuti, della opportunità di accesso al lavoro e per l’emancipazione dal contesto delinquenziale. Con la piena collaborazione del Gruppo Hera e dell’Amministrazione Penitenziaria regionale, Pegaso ha avviato studi di fattibilità per creare nuove opportunità di lavoro stabili per persone fortemente svantaggiate (in questo caso i detenuti) mediante la creazione di laboratori produttivi all’interno e all’esterno delle carceri, in particolare all’interno degli istituti di Bologna, Ferrara e, in sede esterna, con l’istituto di Forlì e gli uffici penitenziari competenti sull’esterno. Gli studi hanno convinto i partner a promuovere un intervento orientato al trattamento dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche – i Raee, appunto – anche al fine di favorire il riciclo e le altre forme di recupero, con conseguente riduzione dell’impatto ambientale nella loro gestione, e il raggiungimento degli obiettivi previsti dalla legge. La collaborazione fattiva tra la cooperazione sociale e gli enti di formazione ha consentito infine di mettere a punto un progetto interprovinciale che comprendesse lo sviluppo di vere e proprie attività produttive di trattamento Raee nelle carceri a favore dei detenuti ospiti e, se all’esterno, con l’impego di manodopera “in esecuzione penale”.
Come funzionano esattamente il trattamento e la bonifica dei materiali? Del funzionamento del trattamento e della bonifica del materiale previsto dai vari accordi definiti presso ciascuna direzione degli istituti penitenziari di Bologna Forlì e Ferrara rispondono per competenza le cooperative che gestiscono l’attività presso ciascun territorio.
Da chi è coordinata la formazione professionale? La formazione professionale è stata mirata e realizzata con le aziende affiliate ai Consorzi che hanno preso parte al progetto.
Da chi pensate di ricevere le commesse? Dal 2008 va ricordato l’ingresso sullo scenario italiano Raee dei Consorzi di Produttori AEE, i quali sono necessariamente interlocutori positivi del progetto. A questo fine, la partnership ha coinvolto i referenti dei Consorzi più attivi sui territori, Ecodom e Ecolight, raccogliendo dagli stessi il sostegno al progetto e l’impegno alla collaborazione attiva, anche economica, sulle iniziative programmate.
Quante persone detenute potranno essere impegnate? “Detenute” è un termine parziale perché nel progetto possono essere inseriti anche soggetti in esecuzione penale non reclusi in carcere. In fase iniziale il numero di condannati impegnati nel progetto è di circa 10 unità per tutti e tre i laboratori, in futuro non si esclude l’ampliamento.
Chi impara il lavoro potrà avere qualche possibilità anche una volta terminata la pena? Già attualmente nel territorio di Forlì è previsto un laboratorio esterno all’istituto, pertanto l’attività risulta già inserita nel contesto sociale. Per i territori di Ferrara e Bologna la progettualità potrà prevedere altre opportunità di crescita.
Quali sono state le eventuali difficoltà incontrate e come intervenite? La natura dei rifiuti da trattare, ad esempio Pc e telefonini, poteva prestarsi, come è avvenuto in un caso, ad un loro improprio utilizzo con ripercussioni negative sulla vigilanza, che si preoccupa essenzialmente per la sicurezza. Nel rispetto degli impegni assunti, dal 2009 è stata istituita una Cabina regionale di monitoraggio del progetto – alla quale partecipano tra gli altri, il Provveditorato Regionale dell’amministrazione Penitenziaria dell’Emilia Romagna e i rappresentanti dei tre Assessorati regionali: Ambiente e sviluppo sostenibile; Scuola formazione professionale Università lavoro; Promozione politiche sociali e educative per l’infanzia e l’adolescenza, Politiche per l’immigrazione, Sviluppo del volontariato, associazionismo, Terzo settore – che ha finalità di “patronage” del progetto, complessivo e sui singoli territori. Lo sostiene in ogni sede idonea, istituzionale e privata, per favorire e promuovere l’avvio, la sostenibilità, la continuità, la visibilità e la valorizzazione sociale. A questi fini, la Cabina si attiva per condividere le verifiche delle attività in corso, per valutare e orientare gli interventi, per individuare le migliori soluzioni di percorso.
Il progetto potrebbe essere espandibile anche ad altre realtà? Il progetto, partito con Ferrara, Bologna e Forlì perché istituti coinvolti nel progetto Equal Pegaso, potrebbe essere riproposto in altri istituti, e potenziato negli stessi in cui si realizza. Si conta di realizzare un apposito prefabbricato all’interno delle aree verdi rimaste nel complesso penitenziario bolognese per elevare il numero dei detenuti addirittura di una decina di unità. Il valore pedagogico, oltreché trattamentale dell’iniziativa, è infatti rilevante.
Vuole aggiungere qualcosa che desidera comunicare ai nostri lettori? La particolare sensibilità delle istituzioni esterne al carcere, che si dimostrano con la pluralità dei soggetti coinvolti, è una prima risposta positiva delle stesse comunità bolognesi, ferraresi e forlivesi, ovviamente in una fase di crisi occupazionale e di tensioni sociali connesse alla crisi occupazionale, che non facilitano certo il loro sviluppo. Auspico da parte di tutte le istituzioni e della stessa società civile una maggior comprensione per le problematiche dell’esecuzione penale, che oggi sono più complesse di ieri, compreso il reperimento delle opportunità occupazionali di cui il presente progetto costituisce una prima, seppur non esaustiva, risposta.
L’assessore all’Ambiente della Regione Emilia Romagna, Lino Zanichelli, ci spiega il progetto
In questo progetto abbiamo due componenti. Da un lato quella sociale, che consiste nel dare un’opportunità a persone che devono partecipare a progetti di recupero, quindi non solo detenuti, e dall’altro c’è l’aspetto ambientale, che è quello di recuperare rifiuti che provengono dalle attività elettroniche e elettriche. Quindi una doppia funzione: quella di reinserire persone e quella di fare politica ambientale. Tenete conto che a partire dal 2005, con il decreto di recepimento della direttiva europea sui cosiddetti Raee, una strategia era quella di raccogliere i rifiuti provenienti da elettrodomestici, elettronica e quant’altro – tant’è che i cittadini pagano una quota quando acquistano un elettrodomestico. Quota che viene assorbita dai costruttori che hanno l’obbligo, attraverso consorzi volontari, di prelevare questo materiale, separarlo nelle diverse componenti che poi vengono re-immessi nei circuiti del recupero e del riciclaggio. Nel 2007 abbiamo raccolto pro capite circa 3 chilogrammi di rifiuti Raee, nel 2008 circa 4, e su scala nazionale siamo all’avanguardia, ma se guardiamo all’Europa, i cui cittadini in alcuni paesi arrivano a 10-15 chilogrammi pro capite, siamo ancora molto indietro. C’è un’enorme potenzialità di recupero di materiali di questo genere perché enorme è la quantità di tale materiale che viene consumato. Attraverso le operazioni di bonifica e smontaggio ogni anno recuperiamo circa 1000 tonnellate – circa 13.000 lavatrici e lavastoviglie – di materie prime e questo comporta un risparmio di 2 milioni di chilowatt/ore di energia elettrica, il riciclo di più di 660.000 chilogrammi di ferro, 10.000 chilogrammi di rame, 5000 chilogrammi di alluminio, 25.000 chilogrammi di plastica. C’è l’aspetto ambientale da una parte, che è quello di mia stretta competenza, e dall’altra c’è l’aspetto formativo: le persone detenute che lavorano in questo progetto fanno, prima di iniziare l’attività, un corso di formazione che permette loro di acquisire delle conoscenze utili e necessarie allo svolgimento del lavoro. Conoscenze che un domani sono spendibili sul mercato del lavoro. Fino ad ora l’iniziativa non è stata oggetto di critiche, anzi abbiamo trovato un certo interesse rispetto alla media delle iniziative ambientali, per le quali ci vuole il disastro ambientale prima che la pubblica opinione se ne interessi, e forse ha giocato a nostro favore la serietà di questo progetto, nel quale la Regione si è impegnata non solo sul versante ambientale, ma anche in quello sociale: se infatti faccio fare una cosa ai detenuti, e poi questo materiale separato finisce in qualche magazzino non abbiamo raggiunto tutti gli scopi: quello sociale magari sì, ma quello ambientale legato a quello economico no, e noi invece abbiamo tenacemente perseguito entrambi gli obiettivi. L’assenza di polemiche, l’accettazione del progetto da parte della società e il coinvolgimento di grosse istituzioni testimonia che, almeno dalle nostre parti, la questione delle carceri, non solo per i progetti ambientali ma anche rispetto ad altre tematiche sociali, culturali, di relazione con il territorio, sono viste come un problema in cui è necessaria una strategia preventiva e non solo una strategia di isolamento del male che va rinchiuso in un ambiente isolato dal resto del mondo. Io ho sempre pensato che sviluppo sostenibile significa tenere in sintonia l’economia, la società e l’ambiente. Se uno di questi tre pilastri si indebolisce, rischiano di indebolirsi anche gli altri. Se l’ambiente si deteriora anche l’economia si indebolisce notevolmente. Pensiamo solo al disastro di quest’estate ad Atene e al costo economico che tale disastro avrà. Lo stesso discorso vale per la società: se una società si indebolisce troppo frammentandosi, dividendosi, impaurendosi ognuno diviene più egoista, viene a mancare la solidarietà e anche la voglia e la capacità di rischiare per fare impresa. E questo è un danno per tutti. Per concludere, vorremmo che queste iniziative, come un po’ tutte le cose che tentiamo di fare noi, non fossero spot pubblicitari, ma iniziative che da un lato hanno una loro base di sostenibilità e quindi funzionino nel tempo e si radichino, e dall’altro devono rientrare in una visione complessiva che vede il carcere come un momento necessario ma compreso all’interno di una strategia più complessiva della società. Altrimenti si costituiscono problemi che rendono non più forte ma più debole anche la società.
Luigi Castagna, Presidente del Consiglio di Amministrazione di Hera Bologna S.r.l., racconta il ruolo della sua azienda nel progetto
Come azienda abbiamo un ruolo di questo tipo: nelle nostre stazioni ecologiche riceviamo dei materiali elettrici e elettronici. Questi materiali vengono trasferiti nel laboratorio allestito dentro il carcere, dove è stato attrezzato un apposito locale. I materiali vengono smontati nelle componenti fondamentali – materiale ferroso, materiale plastico, schede elettroniche – e selezionati per tipologia. Ognuna di queste tipologie prende uno sbocco di recupero – la plastica nei consorzi plastica, il ferro in fonderia… Il nostro compito è raccogliere i rifiuti elettrici e elettronici, trasportarli al carcere e quindi trasportare i materiali di recupero verso le loro destinazioni. In ogni laboratorio si parte con un minimo di 4 o 5 persone detenute, però questo numero potrebbe essere ampliato, inoltre penso che ci possano essere delle buone possibilità di sviluppo, e le persone che imparano questo mestiere potranno accreditarsi presso aziende che già svolgono questa attività. Come in ogni lavoro, di difficoltà ce ne sono sempre, ma con l’impegno i problemi si risolvono. Certo le difficoltà non sono sempre facilmente comprensibili, visto che il progetto coinvolge più soggetti, e poi ci sono aspetti logistici ed autorizzativi: siamo in una istituzione, quella penitenziaria, che ha regole particolari di accesso. Insomma credo che abbiamo le stesse difficoltà che incontrano quelli che provano a portare attività lavorative in carcere. Non so quale livello di profondità abbia raggiunto l’informazione su queste attività. Noi abbiamo fatto una conferenza stampa per illustrare il progetto, ma non credo che un articolo sul giornale abbia lasciato grandi tracce. Credo che le reazioni siano positive per delle ragioni evidentissime: dare un lavoro, una professionalità, facilitare il reinserimento, migliorare le condizioni di sopportabilità del carcere, risponde agli obiettivi dettati dalla Costituzione all’articolo 27, e cioè che il carcere deve tendere alla rieducazione. Il lavoro in carcere è importante per la dignità, anche perché, come dice il sociologo Zygmunt Bauman, le carceri, come i campi profughi, sono un po’ delle discariche umane, e dare dignità a persone che sono in queste condizioni credo sia giusto. L’idea di fare iniziative che abbiano il principio fondamentale del recupero della persona che è stata segregata mi sembra condiviso dalla maggioranza delle persone. Per quanto ci riguarda noi siamo un pezzetto di questo progetto. Noi il nostro pezzetto lo faremo.
Una fattoria sociale a Civitavecchia L’agricoltura bio-sociale della cooperativa Fuori C’entro Una cooperativa che il concetto di svantaggio lo intende anche come periodo transitorio della vita di un individuo che, per diverse ragioni, si trova in un momento di particolare difficoltà
intervista di Alessio Guidotti
Il reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti è una parte fondamentale di un più ampio percorso di “reinserimento sociale”, termine con il quale siamo abituati a descrivere quella fase in cui ci si riappropria della vita, con strumenti nuovi, con un modo nuovo di mettersi in gioco e affrontare “gioie e dolori”. Voglio sottolineare il fatto che il lavoro è una parte determinante del reinserimento sociale, ma è appunto “una” parte, non l’unica. Sono, infatti, un insieme di fattori che possono indurci a cambiare quel modo di relazionarsi con la società e con gli altri, che, dentro a storie di vita una diversa dall’altra, ci ha portato a essere privati della libertà. In questa parte fondamentale del reinserimento sociale, quella che riguarda il lavoro appunto, hanno un ruolo importante le cooperative sociali. Ho avuto la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con Federica Ruzzier responsabile qualità-comunicazione, progettazione, gestione del personale della Cooperativa Fuori C’entro di Civitavecchia. Il nome stesso, Fuori C’entro, lascia intendere la “vocazione” e, perché no, la determinazione di chi, da dentro… fuori vuole entrarci. La cooperativa Fuori C’entro nasce nel 1996, ma è dal 2000 che ha scelto di dedicarsi all’agricoltura bio-sociale, coniugando l’agricoltura in senso stretto con le attività di inserimento lavorativo finalizzate alla risocializzazione e al recupero di detenuti, ex detenuti, disabili fisici e mentali, tossicodipendenti.
Di cosa si occupa la vostra cooperativa? La coop nasce come tipologia B, cioè il reinserimento di soggetti svantaggiati, oltre che di detenuti ed ex detenuti ci occupiamo anche di svantaggio di tipo psichico. Abbiamo, comunque, una interpretazione più ampia del concetto di svantaggio, inteso cioè anche come periodo transitorio della vita di un individuo che, per diverse ragioni, si trova in un momento di particolare difficoltà.
Attraverso quale tipologia di lavoro avviene il reinserimento? Il nostro ambito di riferimento è l’agricoltura sociale, infatti nel 1996 siamo nati come “Campi verdi”, poi abbiamo cambiato il nome in Fuori C’entro. Le attività principali sono: agricoltura bio-sociale; produzione apiaria (miele e pappa reale; produzione di olio extra-vergine; produzione di piante aromatiche, da orto e fiori stagionali; commercializzazione dei prodotti; grafica pubblicitaria; inserimento lavorativo di persone svantaggiate; servizi di assistenza alla persona. Queste attività si svolgono esternamente al carcere presso la “fattoria sociale”, la nostra azienda agricola a Monte Romano.
Ci spieghi invece qual è la vostra attività all’interno del carcere di Civitavecchia? Nel 2006, su iniziativa dell’Università di Padova, si avviò un progetto nazionale per la formazione di apicoltori. In pratica si trattava di insegnare a produrre il miele a persone detenute, detto così sembra semplice, ma si tratta di interagire con un mondo fantastico e particolare: quello delle api.
Voi avete realizzato un progetto, molto particolare, ad ampio raggio, intendevate cioè non solo affrontare l’aspetto “tecnico” legato al lavoro dell’apicoltura, ma in un certo senso anche utilizzare il “sistema sociale” delle api per fare un riferimento alla vita sociale dell’uomo. Esatto, innanzitutto il progetto era aperto a detenuti con problemi di dipendenza da stupefacenti, extracomunitari, e prevedeva, oltre la teoria e la pratica dell’apicoltura, anche degli incontri con psicologi ed educatori per riflettere sullo stato di tossicodipendenza. Il sistema sociale delle api, nella sua straordinarietà, ci consentiva e ci consente di essere un pratico esempio per tutti quanti sono coinvolti in questo lavoro. In particolar modo per chi nella vita non è stato abituato a interagire con la collettività, chi ha assunto atteggiamenti individualistici, magari portati all’estremo: a queste persone in particolare proprio le api, con il loro sistema sociale, possono offrire un importante spunto riflessivo: il senso dell’importanza di ognuno per il raggiungimento di un obiettivo comune.
Percepisco un tuo forte coinvolgimento, sei una persona che crede in quello che fa. Ma quali sono le difficoltà che hai incontrato e che incontri con il carcere, inteso come sistema fatto di regole ferree, divieti, orari rigidi, e con i detenuti? Guarda, inizialmente abbiamo avuto le difficoltà che incontra chiunque “entra” nel sistema carcere. Ma è stata una difficoltà che abbiamo voluto superare: quando si concluse il progetto, avevamo tutte le attrezzature, il laboratorio all’interno del carcere. Ci siamo fatti avanti e, consapevoli delle difficoltà, abbiamo chiesto al direttore dell’epoca, dottor Tressanti, di darci la possibilità di proseguire il lavoro. Con il personale penitenziario è stato necessario un periodo di adattamento, ma lo sforzo è stato premiato, oggi infatti è proprio un agente penitenziario uno dei nostri collaboratori più attivi, è un punto di riferimento per i detenuti che iniziano ad avvicinarsi alla nostra realtà, inoltre ci ha aiutato molto a comprendere il sistema carcere, inteso come particolarità specifiche di un’istituzione.
I detenuti come si sono mostrati nei confronti dell’iniziativa? Inizialmente con diffidenza, poi con il tempo aumentavano le domandine per partecipare all’apicoltura, questo ci ha spinto a continuare la strada intrapresa.
Ma con i detenuti, quali problemi avete incontrato? E soprattutto che idea ti sei fatta del carcere? Io penso che il carcere abbia un elemento devastante: il fare niente, questo si va ad aggiungere al fatto che il carcere per come è strutturato “infantilizza” il detenuto, lo abitua a “non fare”. Sembra incredibile, ma è determinante anche il fatto che molte azioni quotidiane siano fatte con tempi dettati da altri e soprattutto non si possono fare senza gli altri, per esempio uscire dalla cella. Tutto questo, con il tempo, crea uno stato psichico che distorce alcuni aspetti fondamentali della persona in relazione alla costruzione di un percorso di vita. Ho notato, per esempio, difficoltà nel mettersi in gioco, cogliere le opportunità, farsi risorsa di se stessi. Tutto questo poi si va a sommare, in molti casi, con vissuti personali dove non c’è stata neanche prima del carcere l’abitudine non tanto al lavoro, quanto al saper affrontare alcune difficoltà, ragionare nell’ottica del “dare/avere”, maturare la consapevolezza che spesso si deve dare tanto per avere poco. Ecco io direi che è questa una delle maggiori difficoltà: abbattere questo muro, abbandonare alcune logiche, perché è di questo che si tratta. Dopo tanti anni di “infantilizzazione da carcere” può succedere di non cogliere le opportunità perché si perde l’allenamento a vedersi protagonisti della propria esistenza.
Tu pensi che l’operatore che lavora in carcere deve affrontare anche questo tipo di problemi? Credo che sia un nostro dovere, per questo motivo vogliamo essere degli “accompagnatori all’esterno”. Ti spiego: può succedere, ed è successo infatti, che un detenuto inizi il suo percorso con noi, si trova bene lui con noi e noi con lui, si appassiona al lavoro agricolo e rimane a lavorare con noi. Un’altra situazione è che il detenuto, contestualmente all’acquisizione di alcuni benefici, lasci la cooperativa e lavori da un’altra parte: questa per noi è una grande soddisfazione, vuol dire che gli abbiamo dato degli strumenti, la possibilità di scegliere, la capacità di rapportarsi a un sistema. Insomma per noi offrire gli strumenti al detenuto per avere la possibilità di collocarsi nel mercato del lavoro è importantissimo, ancor più importante è far si che comprenda il modo migliore per affrontare le difficoltà del mondo del lavoro.
La definizione “fattorie sociali” unitamente a “agricoltura sociale e bio-agricoltura” si va sempre più diffondendo nell’ambito del sociale e anche del reinserimento lavorativo di detenuti ed ex detenuti, puoi spiegarci sinteticamente di cosa si tratta? Il termine “agricoltura sociale” ancora oggi non ha alcun riferimento normativo/giuridico in Italia, ma indica comunemente il vasto insieme di tutte quelle esperienze che creano sinergia diretta tra agricoltura e inserimento (lavorativo, educativo e/o terapeutico) dei soggetti più vulnerabili della società, esclusi per disabilità fisiche o psichiche o per problematiche relative alla difficoltà di inserimento nel mondo del lavoro. Si tratta quindi del vasto insieme di attività, esperienze, progetti e percorsi realizzati attraverso attività agricole, di coltivazione, di allevamento o di trasformazione di prodotti agroalimentari, cui partecipano attivamente e direttamente persone afferenti alle fasce deboli della popolazione, tra cui ci sono ovviamente anche le persone detenute ed ex detenute. Oltre il reinserimento al lavoro, l’agricoltura sociale si pone come obiettivo di utilizzare il rapporto con la terra, gli animali, il verde, con finalità ludico-culturale, didattico-formativa, terapeutica ed esperienziale, affiancandosi ed integrandosi con le finalità di produzione. Silvio, dopo 13 anni di carcere, è uscito e si è “fermato” alla Cooperativa Fuori C’entro La cooperativa mi ha accolto, mi ha insegnato a riavvicinarmi al mondo, ad usare il cellulare, a crearmi gli amici, e soprattutto mi ha convinto che non devo più sbagliare, perché “dentro” è brutto e io non ci voglio più tornare. Loro non hanno pregiudizi verso i detenuti, mi hanno accolto come una qualsiasi persona. Essere accettato e non giudicato per me è stato molto importante
Silvio, di cosa ti occupi? All’interno della cooperativa lavoro nel settore agricolo. Per me questo è stato molto importante innanzitutto perché ero già pratico in questo settore, e poi perché la campagna, la semina, gli animali mi danno un senso di libertà, la cura degli stessi mi permette di crescere quasi insieme a loro.
Come sei entrato in contatto con Fuori C’entro? Sono stati gli educatori e la direzione della Casa di reclusione di Civitavecchia che mi hanno proposto l’opportunità di uscire per andare a raccogliere le olive per un periodo inizialmente di 3 mesi. Da allora sono passati quattro anni.
Hai finito la condanna? Cosa pensi di fare adesso? Ho fatto 13 anni di carcere e sono uscito perché ho usufruito dell’indulto. Prima in articolo 21, uscivo dal carcere la mattina, venivo in cooperativa, lavoravo, partecipavo alle varie attività e alla sera ritornavo in carcere. Questo per 2 anni e poi ho finito la condanna. È successo tutto così, all’improvviso. Ricordo che stavo lavorando, un anno fa circa, e mi chiamano dal carcere e mi dicono: puoi venire a ritirare la tua roba, sei libero. Dacci un recapito abitativo. Ero impreparato a questo, non sapevo che fare: allora ho chiesto alla coop se mi potevo fermare da loro. Hanno detto di sì e sono ancora qui. Il tempo in carcere Difendere se stessi dagli attacchi di un tempo vuoto e regolato da altri Un giudice ha deciso quanto tempo dovrò trascorrere “dentro”, ma come trascorrerlo è veramente la mia libertà
di Alessio Guidotti
Non dimentico il carcere. È vero quello che mi “rimproverano” alcuni amici, e soprattutto la mia convivente e i miei familiari: ho una parte del mio pensiero che spesso “torna lì”. Ovviamente non è nostalgia, ma solamente quella caratteristica che, nella formazione dei nostri pensieri, ci porta o a rimuovere oppure ad avere costanti riferimenti con qualcosa che ci ha coinvolto molto a livello emotivo. L’elemento che più di ogni altro mi porta a pensare al carcere è il tempo. Spesso mi capita di guardare l’ora e pensare cosa si fa in quel momento in carcere, spesso finisco per ricordare cosa facevo io. In carcere si ha come l’impressione di essere fuori dal tempo: qui fuori è la vita, l’impegno, l’esserci, dentro invece la vita è sospesa, il tempo è come fermo. Questi sono i primi pensieri, quelli in superficie, che vengono in mente se si pensa al carcere in relazione al tempo. Da quando sono fuori, il modo differente che ho di guardare la vita mi porta a cercare di trovare qualcosa di utile alla mia crescita personale in ogni situazione: per me è un esercizio utile domandarmi cosa di buono posso tirar fuori da un’esperienza che, istintivamente, giudicherei “da scordare”. E se con questa mentalità mi trovassi ora in carcere? Me lo sono domandato e credo che partendo dal fatto di voler “prendere quello che c’è di buono” finirei per voler prendere la proprietà del mio tempo. Sembra una contraddizione in termini: essere padroni del proprio tempo in carcere!!! Proprio in carcere dove il “tuo” tempo è regolamentato da un codice, da spazi limitati, da un orologio che sembra muoversi troppo lentamente. E poi c’è carcere e carcere... insomma come ti riappropri del tempo per farlo diventare tuo? Io credo fermamente che la “battaglia” di ogni detenuto sia quella per non perdere la propria dignità, e difendere se stessi dagli attacchi di un tempo vuoto e regolato da altri è una difesa della propria dignità. Una delle poche libertà che rimane quando si è detenuti è quella della gestione del tempo: e allora posso decidere. Posso decidere se passare il tempo sulla branda, guardando la televisione, oppure leggere un libro. Posso decidere di rimanere “sulle mie” o lasciarmi andare e “provare” una delle attività, che magari potranno apparire poco interessanti. Ho anche la possibilità di scegliere se relazionarmi con gli altri con una logica che per tanto tempo, troppo tempo, ha fatto parte della mia vita, dove io ho un ruolo da difendere, la mia immagine ben definita, per cui dovrò mettere la tuta di marca e la scarpa invidiabile, e far si che, in questo modo, il carcere con la sua logica e la sua retorica sia il padrone del mio tempo. Ancora, posso passare un pomeriggio a rielencare tutte le vicende di malavita della mia città, capire finalmente se Tizio era infame, e se Caio ha fatto arrestare Sempronio. Il tempo: quel giudice ha deciso quanto ne dovrò trascorrere “dentro”, ma come trascorrerlo è veramente la mia libertà. Posso decidere allora nel luogo che per eccellenza è il nemico della libertà, il carcere appunto, posso decidere di cercare strumenti per aumentare la mia libertà interiore: quella di pensiero, quella che nessuno può levarmi. Ma per formare un pensiero, un’idea nostra, abbiamo bisogno di conoscere, e tanto più conosciamo, tanto più sappiamo, più abbiamo elementi per interpretare la realtà. Quello che conta è che alla detenzione fisica non possiamo far conseguire quella interiore, quella culturale. Certo è difficile, ma la battaglia più ardua per ogni detenuto è proprio questa: impedire che il sistema carcere ci costruisca una gabbia dentro, impedire che le privazioni siano culturali, e sopratutto che un sistema ci privi della possibilità di crescere culturalmente, di procurarci gli strumenti per essere liberi un domani, quando, scontata la pena, ci troveremo a dover affrontare la vita quotidiana. Vita quotidiana la cui qualità sarà determinata da quella libertà interiore che avremo saputo far crescere e difendere: sta a noi, alla nostra scelta se la qualità della nostra vita sarà determinata dalla lunghezza della nostra auto, dallo spessore del nostro portafoglio, o dalla libertà interiore che abbiamo conquistato con gli strumenti della conoscenza. Al Sud trovare opportunità lavorative per detenuti è più difficile che altrove Mi appello solo al diritto di lavorare per riprendere in mano la mia vita Una lettera che ci arriva dal sud, da un detenuto al primo reato, in affidamento ai Servizi sociali, che non riesce a tornare a fare il suo lavoro, di commerciante ambulante, ritenuto forse troppo poco “affidabile”
Vorrei fare una segnalazione per quanto riguarda la mia storia, premettendo che non ho mai avuto a che fare con la legge prima di un reato commesso nel dicembre 2007. Sono stato condannato alla pena di 3 anni di reclusione, e dopo quasi un anno in prigione, passato in condizioni pietose, dal novembre 2008 sono andato in affidamento ai Servizi sociali. Sono uscito grazie ad un lavoro presso un ristorante, ma poiché la mia retribuzione era pressoché nulla (secondo l’assistente sociale venivo sfruttato) l’assistente sociale che mi seguiva nel mio affidamento ha richiesto il mio licenziamento, per darmi modo di avanzare una istanza al magistrato di Sorveglianza per avere la possibilità di svolgere il mio lavoro: sono infatti titolare di ditta individuale, regolarmente iscritto alla Camera di commercio di B. dal 1986, e ho sempre svolto l’attività di commerciante ambulante. Il magistrato ha tuttavia rigettato la mia richiesta, per cui ho continuato a cercare un lavoro, ma con esiti tristemente negativi. Ho 51 anni compiuti ed essendo per giunta un detenuto, avere modo di trovare chi sia disposto ad assumermi è assolutamente difficile. Il lavoro, anche se c’è, non te lo danno perché nessuno vuole avere a che fare con controlli di polizia nella propria attività… Per questo nel maggio 2009 abbiamo inoltrato nuovamente richiesta per il mio lavoro, nuovamente rigettata, con sollecito a reperire invece un lavoro diverso. Ho fatto tutto quello che era nelle mie possibilità e anche la stessa assistente mi aveva trovato un lavoro, ma al momento del contratto le promesse sono state disattese… Una nuova istanza a fine settembre, con una relazione molto positiva da parte dell’assistente, è stata effettuata specificando l’ambito del territorio su cui esercitare la mia vecchia professione a solo due province limitrofe (potendo io esercitare su territorio nazionale), ma il magistrato (sempre lo stesso) ha nuovamente rigettato confermando il sollecito a trovarmi un lavoro diverso… Io a questo punto non so più che fare, vi dico solo che se non avessi mia sorella che mi ospita sarei un relitto umano. Si parla tanto di reinserimento sociale dei detenuti, ma io credo che con questi metodi si rischia solo di finire col commettere altri reati, perché se uno non ha di che vivere e non viene sostenuto nella possibilità di esercitare legalmente un lavoro onesto e pulito, se non esiste una rete reale e concreta di sostegno e recupero che aiuti a superare anche i pregiudizi comuni, non si potrà recuperare quella dignità umana di sentirsi ancora utili a qualcosa di costruttivo. Il diritto di lavorare per tornare a vivere dignitosamente non dovrebbe essere negato con tanta facilità, in un momento di crisi come quella attuale, per cui anche un laureato giovane e con maggiori risorse delle mie stenta a trovare impieghi ufficialmente riconosciuti ed equamente retribuiti. Dal febbraio 2009 svolgo attività di volontariato presso un convento di monaci e questa è l’unica occupazione che mi restituisce un briciolo di quel sentirsi utile in qualcosa, ma fare il volontario serve solo in parte, se non posso neanche continuare a dare un aiuto ai miei figli, e devo anzi io pesare sulle spalle di quei familiari rimasti al mio fianco, senza i quali oggi forse potrei solo mendicare sotto un ponte. Io mi appello solo al diritto di lavorare (art.1 Costituzione italiana) per riprendere in mano la mia vita, ormai persa in una cella di pochi metri quadri, divisi con ben nove persone... Adesso quelle sbarre e quello spazio ristretto sono alle mie spalle, ma restano le sbarre del pregiudizio e di quella che a mio parere a volte è superficialità istituzionale ad impedirmi di fare di questa esperienza negativa una possibilità di crescita e riabilitazione alla vita, alla società. Le contraddizioni sono molte, le possibilità rare… Dovrebbe aumentare la coerenza pratica e dovrebbero diminuire le tante parole ridondanti, circa la situazione attuale, di chi vede la cose da questi ristretti orizzonti, senza riuscire in alcun modo ad allargarli, quegli orizzonti. Lettera firmata
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